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Erano assai diversi i due fratelli nati da
due donne diverse in quel paesino tetro, di pochi abitanti
ammassato ai piedi del monte.
Alfio si era risposato un paio di anni fa dopo che la dolce e
cara Elena – la prima moglie - lo aveva lasciato nel giro di
pochi mesi causa un tumore maligno.
Dalla loro unione era nato un bel maschietto dai capelli lisci e
neri, dagli occhi tondi e scuri che brillavano come carboni
accesi, in un faccino paffuto e sorridente.
Lo avevano chiamato Francesco (Franco per gli amici e parenti)
“Ciccio” solo per la sua mamma che se lo era coccolato durante
il primo anno di vita come una bimba fa con i suoi bambolotti,
tenendolo in braccio, cambiandolo d’abito anche due volte al
giorno, cullandolo mentre gli raccontava di fiabe piene di
angioletti e bambini buoni.
Il bimbo, quando la giovane mamma morì, aveva cinque anni e
nonostante il padre – un uomo dal fisico possente di età già
matura (aveva passato i quaranta) – gli diceva di non piangere,
ma di guardare le stelle del cielo perché era là che la sua
mamma era andata, aveva capito che non la avrebbe vista più, che
la sua mamma non lo avrebbe più stretto al seno e baciato la
sera prima di coricarsi quando gli dava la buonanotte.
Quando Alfio si risposò, Francesco di anni ne compiva sette, e
quando nacque il fratellino – anche lui maschio ma biondo di
capelli, gli occhi azzurri, e un corpicino magro e ossuto come
un ranocchio – era proprio il giorno del suo ottavo compleanno:
18 novembre 1946.
La seconda moglie – chiamarla matrigna era quasi impossibile
tanto era minuta e spaventata - era una giovinetta del paese,
piccola e smarrita che i genitori avevano consegnato nelle mani
di Don Alfio – così era chiamato in Paese perché da tutti
onorato e stimato anche grazie al suo patrimonio personale fatto
di case, terreni e denari – perché un uomo come lui non poteva
stare senza una donna, essendo lo stesso un cristiano timorato
di Dio che mai si sarebbe accoppiato con femmine di malaffare.
Così giovane e inesperta del mondo, riusciva a badare solo a sé
stessa, lasciando alla tutrice del Paese il compito di crescere
i due bambini.
I due fratelli così – Francesco di primo letto e Leonardo di
secondo – crebbero sotto lo stesso tetto senza mai, però,
frequentarsi, senza avere il minimo desiderio di conoscersi come
dovrebbe essere nelle naturali cose di famiglia.
Mentre il primo era molto riservato e studioso, il secondo –
assai più viziato – cresceva impertinente, e fannullone.
In Paese raccontavano i vecchi che molto spesso Francesco era
stato visto vittima degli scherzi più atroci combinati dal
fratellastro, e che Don Alfio era sempre più propenso a credere
alla parola (mentitrice) del piccolo Leonardo che a quella del
figlio più grande.
Dire che i due non si amassero non si sarebbe detta una bugia;
ma mentre Francesco – nonostante tutto quello che doveva
sopportare da parte del fratello – non nutriva astio verso
quella peste, Leonardo dentro di sé covava verso il più grande
un sentimento che rasentava l’odio.
Invidioso e prepotente pretendeva di ogni cosa avere la parte
più grande, sempre.
Quel Natale del 1950 era un Natale speciale: la guerra era
finita e il Paese si era ripopolato di tutta quella gente che
era scappata per paura dei bombardamenti e delle vendette delle
bande che erano uscite allo scoperto e, assetate di sangue,
avevano ucciso tutti quelli che erano stati (anche loro
malgrado) della sponda opposta.
Don Alfio con la guerra si era arricchito ancora di più
approfittando delle necessità della povera gente che pur di
mettere in tavola qualcosa da mangiare era disposta a vendersi
quel pezzettino di terreno incolto, o quegli oggettini d’oro che
custodivano nel cassettino dell’armadio e che tiravano fuori
solo nelle feste comandate. In Paese solo Don Alfio era la
persona che non chiudeva la porta in faccia a nessuno e per suo
profitto aiutava la povera gente.
Quella vigilia di Natale dunque in quasi tutte le case i camini
scoppiettavano di legna stagionata, e per l’aria si sentivano
odori di carni arrostite e di salsicce.
In casa di Don Alfio si era cenato, come al solito, allo
scoccare delle sette perché un quarto alle otto avrebbe pilotato
la sua possente figura all’Osteria del Bisonte a fare la sua
bella giocata a carte con gli amici di sempre.
Leonardo e la sua mamma così si erano coricati presto quella
sera aspettando con trepida impazienza il Natale, per aprire i
pacchi che erano stati posti per tempo sotto l’abete
impreziosito da candeline rosse e palloncini di cristallo
colorati.
Era rimasto il solo Francesco a leggere l’ultimo libro di
Salgari dove la Tigre della Malesia consumava la sua vendetta
uccidendo i suoi più acerrimi nemici.
Quando i due figuri sbucarono improvvisamente dal buio,
Francesco sussultò, sentendo immediatamente il sangue pulsargli
alle tempie e il cuore accelerare i battiti come uno stantuffo.
Fu il più giovane dei due – vestito di abiti logori e puzzolenti
- a immobilizzarlo alle spalle, mentre il secondo gli puntava la
canna di una pistola tedesca sotto il naso.
“Chi c’è in casa oltre te!” chiese con fare minaccioso quello
più alto di corporatura e dal viso sporco di carbone.
“Nessuno” balbettò in risposta Francesco.
Poi riprendendo fiato aggiunse:
“Sono solo in casa…Mio padre e mia madre sono appena usciti a
fare visita ad amici, ma fra poco torneranno…”
“Non ti vogliamo fare del male…abbiamo fame, e vogliamo
mangiare…”disse sempre il più alto( e vecchio) dei due premendo
la canna della pistola in mezzo al petto del ragazzo.
“In cucina…in cucina c’è abbondanza per entrambi” disse
Francesco abbozzando un debole e timido sorriso mentre con il
dito indice della mano destra indicava la cucina.
I due individui lasciarono così che Francesco li precedesse
verso la cucina e che, appena entrati, togliesse dalla credenza:
pane fresco, del salame, un pezzo di formaggio stagionato, noci
e mandorle in quantità. Poi dalla ghiacciaia posta accanto al
lavello tirò fuori un fiasco di buon vino nero e una bottiglia
d’acqua di fonte, fresca e invitante.
Non erano certo del posto quei due intrusi, perché mai si
sarebbe permessa di violare la casa di Don Alfio gente che fosse
del Paese o delle vicinanze. Erano sicuramente due sbandati
affamati e per di più terrorizzati dalla guerra, in fuga da
chissà chi o cosa.
Così quando ebbero finito di rimpinzarsi lo stomaco di tutte
quelle cose buone, fu lo stesso ragazzo a ricondurli in sala, là
vicino al camino scoppiettante perché bevessero della buona
acquavite. Poi, visto che dal loro parlottio aveva capito che
avrebbero messo sottosopra la casa in cerca di soldi, Francesco
esclamò:
“In casa non c’è poi molto da darvi, ma io conservo dei soldi
nella mia cassettina di legno…A me non servono che Natale è
domani e io i regali li ho già ricevuti…Ve li do volentieri,
sono circa duemila lire…sono tanti per me…”
E appena finita di pronunciare “per me”, corse nella sua
cameretta che era sullo stesso piano della sala e della cucina
(le camere da letto dei genitori e del fratello con i due bagni
erano al piano superiore) a prendere il salvadanaio, che aprì al
suo ritorno col fiato grosso in presenza dei due fuggiaschi.
“Prendete” disse offrendo loro i soldi di carta tutti arrotolati
e fermati con un elastico “Non c’è altro in casa…credetemi…E ora
che vi siete rifocillati andate per favore via che fra poco
torneranno i miei genitori con amici, gente che con le armi non
scherza…credetemi!”
“Crede di farci paura il moccioso!” esclamò il più giovane
rivolto al suo compare che aveva estratto nuovamente dalla
cintola dei pantaloni il revolver che ora puntava al viso di
Francesco. “Ce ne andiamo quando lo diciamo noi…non ci fanno
certo paura i tuoi vecchi e gli amici…Gente che con le armi non
scherza!...Ne abbiamo uccisi così tanti che neanche più li ho
contati di gente che non scherzava con le armi: neri, rossi,
tedeschi e americani…”
Poi guardando fisso negli occhi il ragazzo che nel frattempo
aveva per bene strattonato per il bavero, aggiunse sogghignando:
“Tu non me la conti giusta, ragazzino…Chissà cosa mi nascondi al
piano di sopra…magari una bella sorellina a cui dare una bella
botta e via, vero?...”
“No, non c’è nessuno, credetemi…Vi ho fatto mangiare, bere, vi
ho dato tutti i miei risparmi…ora andate…per favore!” supplicò
nella speranza di trovare in quegli esseri un barlume di umana
pietà.
“Non frignare!...Non ci commuovi, anzi…Adesso noi andiamo di
sopra a vedere…e se troviamo la tua bella sorellina vedrai come
si divertirà…”
“Non c’è nessuno, vi ho detto!...Andate via che stanno per
tornare!...”
E senza neanche terminare la frase, Francesco con tutta la forza
che aveva in corpo si divincolò dalla presa scattando in avanti
e ponendosi in piedi, all’inizio delle scale in legno che
portavano al piano di sopra brandendo con entrambe le mani il
bastone di ciliegio col manico in argento del padre che stava
sempre lì poggiato alla ringhiera..
“Così si sarebbe comportato la Tigre della Malesia!” pensò “Devo
proteggerli...mio fratello e Lucia (la matrigna)!”
“Come sei coraggioso, piccolo scarafaggio!...Credi di farci
paura?!...Spostati da lì e facci passare!” gridò il più giovane
che nel frattempo aveva raggiunto il ragazzo che ora lo
minacciava con un coltellaccio a serramanico.
“Spostati!” urlò ancora mentre fece il primo passo verso
Francesco.
Fu allora che il ragazzo colpì alla tempia il malvivente che,
sorpreso, cadde a terra facendo rotolare via il coltellaccio.
E quando anche il secondo si mosse per correre in soccorso del
primo, Francesco cercò di colpirlo col bastone. Ma il malavitoso
inchinandosi sulle ginocchia con mossa rapida schivò il colpo,
poi girando su sé stesso, puntò la pistola verso il ragazzo
esplodendo con rapida successione due colpi che colpirono il
ragazzo al petto proprio sotto il cuore.
Forse Francesco non si rese conto di ciò che gli stava
accadendo. Capitò tutto così all’improvviso che non ebbe il
tempo di capire.
Sentì due fitte lacerargli il petto…Alzò gli occhi al cielo, e
pronunciando la parola “Mamma!” crollò senza vita sul tappeto di
lana bianco posto ai piedi delle scale.
Solo quando la macchia di sangue prese a spandersi copiosa, i
due malviventi decisero che era meglio squagliarsela in tutta
fretta. E così fecero varcando l’uscio dell’ingresso a tutta
velocità.
E solo quando nella casa ritornò il silenzio il piccolo Leonardo
con la sua mamma discesero le scale con fare furtivo, i piedi
scalzi, attenti a non fare il benché minimo rumore.
Là in fondo giaceva Francesco ormai privo di vita.
Fuori, dal portone di casa spalancato, entrava il freddo della
notte, mentre i primi fiocchi di neve dondolavano nell’aria.
Natale era arrivato già da pochi minuti, e la campana del Paese
ne aveva dato l’annuncio.
Per Francesco quello non fu un Natale da ricordare, ma lassù fra
le stelle del cielo quella notte ritrovò la sua mamma e fu
felice di aver dato la vita per proteggere il fratellastro
Leonardo e la sua mamma.
F I N E
Cagliari, 10 novembre 2012
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