LA FESTA DEL
NATALE
Natale non è una festa solo
religiosa. I cristiani credenti celebrano la ricorrenza
presunta della nascita di Gesù Cristo in Palestina, una data
stabilita dalla tradizione, ma storicamente non certa. I
cristiani ortodossi la collocano un paio di
settimane dopo ma, come tante altre tradizioni consolidate,
non è di grande importanza stabilirne l’esatta collocazione
e la veridicità dei particolari. L’importante è il fatto,
nella credenza dei fedeli che rappresentano poco più di un
sesto della popolazione mondiale, sia pure nominalmente, che
effettivamente nacque un bambino che in seguito, diventato
adulto, dopo trent’anni, predicò un nuovo credo dal quale
nacquero le chiese cristiane.
Ho detto
nominalmente perché soltanto una frazione di coloro che si
dicono o sono considerati cristiani seguono, almeno in buona
parte, le regole delle chiese alle quali “nominalmente”
appartengono. Nel mondo odierno, la maggioranza può
ritenersi agnostica, più o meno coscientemente o
apertamente. Ne consegue che la festa del Natale,
assolutamente universale e plebiscitaria in tutti i paesi
occidentali e negli altri paesi a maggioranza cristiana, è
gradualmente diventata una festa sostanzialmente laica. Si
va a messa, è vero, magari si fa la comunione, come a
Pasqua, si prepara l’albero o anche il Presepio, ma il clou
della festa è rappresentato dai regali, dagli auguri, dalle
grandi mangiate in famiglia o con gli amici, dalle settimane
bianche, dalle luminarie delle vie dello shopping,
dall’incremento temporaneo del PIL dei commercianti, da
qualche elemosina o offerta alla parrocchia o a questa o
quella ONLUS a beneficio della propria coscienza ed
eventualmente per espiare a buon mercato qualche evasione
fiscale o i peccatucci dei precedenti undici mesi.
I buoni
parroci o curati hanno un bello sbracciarsi e sgolarsi a
ricordare l’amore per il prossimo, la solidarietà per i
poveri
del
mondo o per quelli nostrani. L’ascolto della predica è
compunto e in quel momento, spesso, i buoni sentimenti
prevalgono. Ma spesso è piuttosto distratto. Poi, sul
sagrato, la vita sociale riprende. Strette di mano, qualche
abbraccio. “E’ un po’ che non ti vedo”, “Gli anni passano in
fretta”, “E il tuo mal di schiena, come va?” “Tua figlia non
si sposa?”.
Si corre
poi a casa perché il tacchino è nel forno. “Sai, mia figlia
mi ha aiutato a fare gli anolini” “Che regalo ti ha fatto
tuo marito?”, “Io ho avuto un bel cashemere, lui ha voluto
uno smartphone”
Anche il
parroco, per la ricorrenza, si concede il ristorante (gli
fanno un prezzo speciale), ma sarà a un tavolo da solo.
Nei paesi
dove ho lavorato per anni, alcuni a maggioranza protestante,
le cose non sono molto diverse. Le numerose chiese di
diverse denominazioni cristiane si riempiono e devo dire che
la partecipazione dei fedeli alle funzioni religiose è più
intensa, più convinta, più coinvolta. Tutti cantano e i
sermoni, non molto diversi da quelli dei nostri predicatori
e forse anche più retorici, sono seguiti con più attenzione.
Poi il rito del sagrato è lo stesso. Decine di milioni di
pasciuti tacchini (per i quali il Natale è un giorno di
lutto) sono sacrificati ogni anno e vanno ad aggiungersi ai
milioni del “Thanksgiving” (il Ringraziamento). Lo shopping
è ancora più sfrenato che da noi. Tutti fanno inutili regali
a tutti, ma proprio a tutti, e il rito dell’apertura dei
pacchetti sovrasta di gran lunga la gioia per la nascita del
Salvatore.
Ricordo il
primo Natale passato fuori dall’Italia. Con una famiglia di
amici, dopo la cena di magro (si fa per dire) della Vigilia,
ci recammo a Trafalgar Square, nel cuore di Londra. Migliaia
di persone cantavano le tradizionali canzoni natalizie (i
Christmas Carols) e lo spettacolo era molto suggestivo, ma
il fervore religioso forse c’entrava solo in parte.
Giacomo Morandi - Natale 2010 |