NATALE ANNI TRENTA
Il
paese – duemila anime scarse – è aggrappato ai fianchi di una collina,
dalla cui cima si gode, nelle giornate limpide, una splendida vista del
mare lontano e, di sera, lo spettacolo mozzafiato degli avvampanti
tramonti. Le case poi digradano fino a un rilievo del terreno sul dorso
del quale un grande orologio, emergente da un torre diroccata, avvisa
tutte le ore, le mezze ore e i quarti dell’inesorabile scorrere del
tempo. A dispetto delle modeste dimensioni, vanta sei chiese, ma quella
di S. Antonio richiama maggior numero di devoti, malgrado che quella di
S. Giovanni Battista detenga il titolo di protettrice. Tuttavia, nel
Natale che qui si ricorda, raccoglieva grande partecipazione la chiesa
del Rosario. Davanti c’è un vasto spazio, che sarebbe esagerato chiamare
sagrato, nel quale si affacciano povere case e, a quell’epoca –
all’ombra di due rugose ma chiomate robinie – un “caffè”, che era un
locale dove, come in tutti i paesini, si poteva acquistare qualche
dolcetto, ma nel quale, soprattutto gli adulti amavano giocare a carte
per disputarsi un bicchiere di vino o di birra oppure, di festa, qualche
bicchierino di marsala. A Natale lo slargo era destinato a una funzione
tutta speciale: vi si raccoglievano, accatastandoli a mo’ di grande cono
alto all’incirca cinque/sei metri, gli “zzunchi”. Erano, in prevalenza,
quelle che potremmo chiamare le fondamenta degli alberi, la parte cioè
basilare da cui si dipartono le radici che poi si abbarbicano al
terreno. Quando un albero, ulivo o castagno, ecc., veniva abbattuto per
vecchiaia, malattia o dalla furia del vento, quello che restava a fior
di terreno era, appunto, uno “zzunco” che sarebbe servito per il grande
fuoco di Natale. I parrocchiani li tenevano d’occhio e al momento
opportuno, diciamo nell’autunno inoltrato, con l’aiuto delle robuste
braccia di giovani contadini, li caricavano su carri trainati da mucche
e li portavano al centro dello slargo accatastandoli come detto. In
un’altra chiesa, in basso al paese, si faceva altrettanto e c’era, sotto
sotto, un’avvertita competizione fra chi avrebbe fatto il migliore
castello di “zzunchi”. Noi bambini eravamo elettrizzati dall’ansia di
assistere all’incendio e la sera dell’antivigilia (perché in paese il
Natale si festeggia la sera del 24 dicembre) non chiudevamo occhio. Il
giorno dopo tutto finalmente era pronto. Il castello degli “zzunchi” era
stato rimpolpato con tronchi, tavole vecchie e, in basso, alla base, con
grosse manciate di paglia che avrebbe dato il via al grande incendio. La
chiesa, dopo l’imbrunire, si riempiva di luci e così pure il bellissimo
presepe con i ‘pastori’ di grandezza cospicua che si stagliavano sotto
il cielo blu intenso di cartapesta trapuntato dalle stelline. Noi
bambini non stavamo più nella pelle dalla felicità e dall’ansia di
assistere al grande fuoco. Mio padre, apprensivo di natura, sorvegliava
da lontano i suoi cinque figli (per la dabbenaggine dei governanti
dell’epoca sarebbero poi diventati sette), mentre mia madre aveva già
impastato e messa a lievitare una considerevole quantità di farina con
cui, verso mezzanotte, avrebbe preparato le crespelle per il rientro
della ‘tribù’ (lei sarebbe andata a messa il giorno dopo). Intanto la
chiesa si riempiva di gente e noi, con una turba di altri bambini,
giocavamo impazienti tutt’intorno al castello, D’un tratto la campanella
annunciava l’ingresso del sacerdote coi solenni paramenti e, sulle
braccia tese in avanti, il bambinello che andava a posare nel cesto del
presepio a terra fra la Madonna e S. Giuseppe col bastone. Poi, poco
prima di mezzanotte, cominciava la celebrazione della messa solenne e
finalmente si dava fuoco alla paglia che innescava l’incendio alla
catasta e il nostro fragoroso, incontenibile battimani, che prolungavamo
mentre eccitatissimi ci rincorrevamo intorno al castello di fuoco. Piano
piano le fiamme si propagavano all’intera catasta e i bagliori delle
lingue si allungavano fino all’altare ogni volta che la porta della
chiesa veniva aperta e ne uscivano i deliziosi canti di Natale.
Un’immensa felicità che aumentava col crescere delle vampe. A messa
finita, la gente si riversava intorno al castello per godere dello
spettacolo inconsueto e noi bambini, al seguito di nostro padre,
facevamo ritorno a casa dove la mamma ci faceva trovare, in un enorme
cesto di vimini ricoperto da un candido tovagliolo di lino, le sospirate
crespelle ancora calde, in parte ‘al naturale’ e in parte con l’acciuga.
Inutile dire che nel giro di pochi minuti non c’era più traccia di
nulla. Era il momento nel quale mio padre estraeva da un cassetto una
grande “spasa”, cioè un vassoio, contenente torroncini, mostaccioli con
le uvette (le chiamavamo “pitte di S. Martino”) e cioccolatini, che
rappresentavano il regalo di Natale per i figli. I giocattoli non
esistevano ma noi eravamo egualmente felicissimi. Gli “zzunchi”
continuavano ad ardere, alimentati a dovere, fino all’Epifania e con
essi le benevole diatribe, fra una Confraternita e l’altra, per chi –
fra le due – avesse “confezionato” il migliore castello di “zzunchi”.
Altri tempi e, con poco, tantissima felicità.
Lorenzo Milanesi - Natale 2009