Piazza Scala News - marzo 2013

 

    dal cessato sito Anpecomit Milano di Domenico Pizzi   
 

 

Quella sera di venerdì, attraversando Piazza Scala
 

 

Arrivò il venerdì sera, l’atteso fine settimana.
Dopo una lunga, innaturale pausa, un immusonito Franz ringhiò sottovoce “me l’hanno fatto finalmente conoscere, sto’ Salvatore, che prenderà il tuo posto”.
“La vedranno. Questa, il vecchio non me la doveva fare. Da lunedì, in ufficio, non sarà più la stessa cosa. Lo farò morire, quel pivello”.
Non sapevo cosa dire. Conoscendo il mio compagno di stanza, era il massimo della considerazione che poteva dimostrarmi, in un’occasione come quella. Per non farlo esplodere, rimisi a posto, con minuzia certosina, gli ultimi fascicoli, e li appoggiai sul bordo della sua scrivania.
Le dita di Franz (grassocce e diafane: m’impressionava la fattura quasi femminea della sua mano) lisciarono le cartelle paglierine, per togliere qualche piega, ma era come una carezza maldestra.
“Sono le nove, facciamo in fretta che di tram ne passano pochi”, sussurrai intimidito. Il rauco brontolio di risposta mi sembrò affermativo: mi diressi con cautela verso l’appendiabiti, per prendere il mio loden verde di battaglia. Sull’altra stampella, un montone rovesciato con tanto di collarino di pelliccia, testimoniava l’opulenza del mio capo.
Serrati a chiave gli armadi, superammo quell’uscio enorme, alto più di tre metri. Non avevano fatto economie, quando avevano costruito il palazzone. Si smorzava il rumore delle scarpe sui felpati tappeti rossi. Sembravamo pattinare.
Quella volta, mi sentivo tuttavia come trattenuto, non c’era ritmo nella mia danza.
Gli concessi una ruffiana precedenza innanzi all’ascensore. Furono attimi di silenzio imbarazzato, non passavano mai. Arrivati nell’atrio, ci avviamo all’uscita di Via Case Rotte. C’era solo la guardia notturna, che - vista l’ora tarda - salutò con palese commiserazione. “Avvocato, non c’era rimasto che lei! Sono andati tutti a casa da un pezzo. Buona notte, a lunedì!”.
Come dire: “che pirla”.
Ebbi la consapevolezza d’essere diventato trasparente: per il giovane di studio, neanche un cenno del viso.
Abbassandomi sotto il varco, ritagliato nel gran portone della banca, mi venne da osservare: “Sai, potrebbe essere l’ultima volta che chiudiamo assieme i battenti della Comit”.
“Tanto, ogni mattina, ci sarà qualcuno che li riaprirà, per omnia saecula saeculorum”, mi rispose con astio mal trattenuto.
Ma, almeno in quella circostanza, fu un improvvido profeta. Proprio lui, che della tecnomanzia si proclamava maestro.
Quei portoni che avevano l’odore di casa nostra, non ci toccò di attraversarli mai più.
Taciturni, facemmo un pezzo di marciapiede in compagnia. La tensione aumentava ad ogni passo. Girato l’angolo, una livida Piazza Scala ci si stagliò dinanzi, irrigidita nell’umido della sera. Vista così, con la nebbiolina sospesa, ricordava i quadri metafisici di De Chirico, con gli spazi appiattiti e profondi ad un tempo.
Mi faceva sempre quest’effetto, la piazza di notte. Nella calma irreale delle cancellate severe, solo poche ombre in attesa del tram numero uno, che portava alla stazione centrale. Chiusi gli uffici, scomparsi gli impiegati, la gente non aveva molti motivi per soffermarsi in centro. Perfino Algani, l’edicola al lato della Galleria, aveva tirato giù la claire. Normale: nell’ora tarda del venerdì, la gente perbene era nelle case sul lago, o sulle vie della montagna. Era il rito meneghino, al quale mi sarei dovuto abituare.
Ciò non riguardava, però, la mia condizione di recente immigrato; dovevo soltanto avviarmi verso la pensione di Via Solferino, cercando di inventarmi qualche programma per il week-end. E mentre mi commiseravo per le ore che avrei perduto, prima ancora d’averle vissute, giungemmo all’incrocio con Via Manzoni. Fu il momento dei saluti, non potevamo più sottrarci. “D’altra parte, ti sei messo in testa di fare carriera…Il contenzioso ti andava stretto” mi disse, ancora risentito. Non serviva controbattere, non avrebbe mutato opinione. Mi diede la mano, gliela strinsi forte, ci avviammo per strade diverse. Fosse stato un po’ meno strambo e irritabile, l’avrei baciato sulle guance.
Ma, per Franz, questo sarebbe stato un pessimo segnale di devianza. Il mio anziano collega asseriva platealmente di non tollerare ebrei, comunisti, checche (usava spesso termini del genere; gli piacevano, come tutte le cose che sapessero di collegio, di caserma). Poiché aveva sempre sospettato che potessi rientrare quanto meno nella seconda categoria, niente smancerie di troppo. Due difetti su tre, nonostante la simpatia malcelata che mi riservava, sarebbero stati insopportabili.
Franz, Franz, non t’avrei mai più rivisto come allora. Un fagotto di sentimenti ridondanti, un animo invece tenero, compressi nel montone color cammello. Un’icona sbiadita, tutta fisicità, nella nebbia della sera.
Riconosci l’evento, quando si presenta. Mica hai fatto il liceo classico per niente. La recita appena terminata aveva avuto il sapore dell’addio. Mi sentii come se avessi scolato a canna una mezza bottiglia di bonarda, dopo aver mangiato un panino rinsecchito col prosciutto cotto. Con una stretta amara alla bocca dello stomaco.
Euforico, e profondamente malinconico.
C’era da star male.
Porco giuda, pensai, mi sto bevendo in un solo botto la grande Milano. Presa così, senza misura, non si potrà digerire mai più. Mi resterà sotto la pelle per un’intera vita.

Enzo Barone. Per gli amici milanesi, “Vincenzino”

 

 

 

 

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