Quella sera di venerdì,
attraversando Piazza Scala
Arrivò il venerdì sera, l’atteso
fine settimana.
Dopo una lunga, innaturale pausa, un immusonito Franz ringhiò sottovoce “me
l’hanno fatto finalmente conoscere, sto’ Salvatore, che prenderà il tuo
posto”.
“La vedranno. Questa, il vecchio non me la doveva fare. Da lunedì, in
ufficio, non sarà più la stessa cosa. Lo farò morire, quel pivello”.
Non sapevo cosa dire. Conoscendo il mio compagno di stanza, era il massimo
della considerazione che poteva dimostrarmi, in un’occasione come quella.
Per non farlo esplodere, rimisi a posto, con minuzia certosina, gli ultimi
fascicoli, e li appoggiai sul bordo della sua scrivania.
Le dita di Franz (grassocce e diafane: m’impressionava la fattura quasi
femminea della sua mano) lisciarono le cartelle paglierine, per togliere
qualche piega, ma era come una carezza maldestra.
“Sono le nove, facciamo in fretta che di tram ne passano pochi”, sussurrai
intimidito. Il rauco brontolio di risposta mi sembrò affermativo: mi diressi
con cautela verso l’appendiabiti, per prendere il mio loden verde di
battaglia. Sull’altra stampella, un montone rovesciato con tanto di
collarino di pelliccia, testimoniava l’opulenza del mio capo.
Serrati a chiave gli armadi, superammo quell’uscio enorme, alto più di tre
metri. Non avevano fatto economie, quando avevano costruito il palazzone. Si
smorzava il rumore delle scarpe sui felpati tappeti rossi. Sembravamo
pattinare.
Quella volta, mi sentivo tuttavia come trattenuto, non c’era ritmo nella mia
danza.
Gli concessi una ruffiana precedenza innanzi all’ascensore. Furono attimi di
silenzio imbarazzato, non passavano mai. Arrivati nell’atrio, ci avviamo
all’uscita di Via Case Rotte. C’era solo la guardia notturna, che - vista
l’ora tarda - salutò con palese commiserazione. “Avvocato, non c’era rimasto
che lei! Sono andati tutti a casa da un pezzo. Buona notte, a lunedì!”.
Come dire: “che pirla”.
Ebbi la consapevolezza d’essere diventato trasparente: per il giovane di
studio, neanche un cenno del viso.
Abbassandomi sotto il varco, ritagliato nel gran portone della banca, mi
venne da osservare: “Sai, potrebbe essere l’ultima volta che chiudiamo
assieme i battenti della Comit”.
“Tanto, ogni mattina, ci sarà qualcuno che li riaprirà, per omnia saecula
saeculorum”, mi rispose con astio mal trattenuto.
Ma, almeno in quella circostanza, fu un improvvido profeta. Proprio lui, che
della tecnomanzia si proclamava maestro.
Quei portoni che avevano l’odore di casa nostra, non ci toccò di
attraversarli mai più.
Taciturni, facemmo un pezzo di marciapiede in compagnia. La tensione
aumentava ad ogni passo. Girato l’angolo, una livida Piazza Scala ci si
stagliò dinanzi, irrigidita nell’umido della sera. Vista così, con la
nebbiolina sospesa, ricordava i quadri metafisici di De Chirico, con gli
spazi appiattiti e profondi ad un tempo.
Mi faceva sempre quest’effetto, la piazza di notte. Nella calma irreale
delle cancellate severe, solo poche ombre in attesa del tram numero uno, che
portava alla stazione centrale. Chiusi gli uffici, scomparsi gli impiegati,
la gente non aveva molti motivi per soffermarsi in centro. Perfino Algani,
l’edicola al lato della Galleria, aveva tirato giù la claire. Normale:
nell’ora tarda del venerdì, la gente perbene era nelle case sul lago, o
sulle vie della montagna. Era il rito meneghino, al quale mi sarei dovuto
abituare.
Ciò non riguardava, però, la mia condizione di recente immigrato; dovevo
soltanto avviarmi verso la pensione di Via Solferino, cercando di inventarmi
qualche programma per il week-end. E mentre mi commiseravo per le ore che
avrei perduto, prima ancora d’averle vissute, giungemmo all’incrocio con Via
Manzoni. Fu il momento dei saluti, non potevamo più sottrarci. “D’altra
parte, ti sei messo in testa di fare carriera…Il contenzioso ti andava
stretto” mi disse, ancora risentito. Non serviva controbattere, non avrebbe
mutato opinione. Mi diede la mano, gliela strinsi forte, ci avviammo per
strade diverse. Fosse stato un po’ meno strambo e irritabile, l’avrei
baciato sulle guance.
Ma, per Franz, questo sarebbe stato un pessimo segnale di devianza. Il mio
anziano collega asseriva platealmente di non tollerare ebrei, comunisti,
checche (usava spesso termini del genere; gli piacevano, come tutte le cose
che sapessero di collegio, di caserma). Poiché aveva sempre sospettato che
potessi rientrare quanto meno nella seconda categoria, niente smancerie di
troppo. Due difetti su tre, nonostante la simpatia malcelata che mi
riservava, sarebbero stati insopportabili.
Franz, Franz, non t’avrei mai più rivisto come allora. Un fagotto di
sentimenti ridondanti, un animo invece tenero, compressi nel montone color
cammello. Un’icona sbiadita, tutta fisicità, nella nebbia della sera.
Riconosci l’evento, quando si presenta. Mica hai fatto il liceo classico per
niente. La recita appena terminata aveva avuto il sapore dell’addio. Mi
sentii come se avessi scolato a canna una mezza bottiglia di bonarda, dopo
aver mangiato un panino rinsecchito col prosciutto cotto. Con una stretta
amara alla bocca dello stomaco.
Euforico, e profondamente malinconico.
C’era da star male.
Porco giuda, pensai, mi sto bevendo in un solo botto la grande Milano. Presa
così, senza misura, non si potrà digerire mai più. Mi resterà sotto la pelle
per un’intera vita.
Enzo Barone. Per gli amici milanesi, “Vincenzino”
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Piazza Scala News - marzo 2013