PALAZZO MARINO

 

    Milano nel '500  

 

L’alba del secolo vedeva il Ducato di Milano in uno dei momenti politici più difficili della sua storia. Nel 1499 l’esercito francese, guidato dall’esule milanese Gian Giacomo Trivulzio, aveva varcato le Alpi nel nome di Luigi XII ed aveva costretto alla fuga Ludovico il Moro. Dopo un effimero tentativo di riconquista, il Duca di Milano fu definitivamente sconfitto nell’aprile del 1500. Iniziò per la città un periodo drammatico. Il dominio francese, accolto dapprima con favore, si rivelò iniquo per l’eccessiva pressione fiscale. La sconfitta delle armi francesi a Ravenna, per opera della Lega Santa di Giulio II, consentì la transitoria ripresa di possesso degli Sforza con Massimiliano, figlio del Moro, ma in breve Milano si trovò, suo malgrado, in mezzo alla generale contesa che vedeva opposti la Francia da una parte e gli Asburgo dall’altra. Fra carestie, tumulti, invasioni e guerre, la situazione trovò un equilibrio nel 1525, con la sconfitta dei Francesi a Pavia, dove Francesco I - come scrisse alla madre - perse tutto fuorché l’onore. Il vincitore, l’Imperatore Carlo V d’Asburgo, Re d’Austria, di Spagna, dei Paesi Bassi e signore di un impero su cui il sole non tramontava mai, divenne in seguito anche Duca di Milano, dando inizio ai 170 anni di dominazione spagnola, caratterizzati peraltro, almeno sino allo scoppio delle epidemie di peste, da un notevole sviluppo economico e da una partecipazione del patriziato milanese alla guida della città, sia pure subordinatamente al governatorato spagnolo.

 

I Marino, genovesi

Il clima burrascoso di quegli anni favorì, come spesso la storia dei secoli passati e recenti ci insegna, la creazione di fortune ingenti da parte di accorti affaristi e di intraprendenti mercanti.

In particolare Milano, al centro di conflitti ma anche in posizione strategica come punto d’incontro fra l’Europa ed il Mediterraneo, attirò banchieri, finanzieri e commercianti fra i maggiori del periodo. Fra questi, spiccavano i componenti della famiglia Marino, il cui principale esponente, Luchino, era molto vicino al Governatore spagnolo, operando nell’appalto delle imposte; la cosa comportava anche l’anticipazione all’Amministrazione, le cui casse erano perennemente vuote, dei fondi alla stessa necessari, ottenendo in cambio, a volte, anche dei beni immobili, sia in garanzia, sia come pagamento di capitali o interessi sui prestiti effettuati.

Alla morte di Luchino, intorno alla metà del secolo, fu il figlio Tomaso che ne assunse l’eredità, diventando uno dei personaggi più in vista della città. Una simile posizione comportava la necessità di avere una dimora adeguata al suo rango, in un periodo in cui, nella sua patria originaria di Genova, i suoi consimili rimasti colà si facevano costruire i sontuosi palazzi della Strada Nuova (l’attuale Via Garibaldi), chiamando Rubens, Van Dyck e gli altri principali artisti del periodo a decorarli.

 

La costruzione

Intorno al 1553, Tomaso Marino acquistò un’area che era stata oggetto di esproprio in base ad una legge, risalente agli Sforza ma recepita da Carlo V, che favoriva chi volesse costruire edifici monumentali, destinati ad accrescere il prestigio della città. L’area prescelta si trovava nel territorio della parrocchia di S. Fedele, nei cui dintorni sorgeva la chiesa di San Giovanni Decollato, detta di San Giovanni delle Case Rotte, in quanto eretta nello spazio ancora oggi così denominato (in parte ribattezzato Largo Mattioli); là si trovava inoltre la chiesa di Santa Maria alla Scala, fatta costruire intorno alla fine del ‘300 dalla veronese Regina della Scala, moglie di Bernabò Visconti. La chiesa verrà demolita nel 1776 per far posto al Teatro d’opera che si chiamò, appunto, Teatro alla Scala. Fra la chiesa e l’area del palazzo c’erano delle case che occupavano l’attuale Piazza della Scala e che verranno abbattute solo ai primi del ’900. La parte del palazzo attualmente verso Piazza della Scala si affacciava pertanto su un vicolo, denominato dello Straccione.

Per aggiungere munificenza alla costruzione, Tomaso Marino progettò pertanto di aprire, a sue spese, una nuova strada rettilinea sul fronte verso il Duomo, che mettesse in collegamento diretto il palazzo con il Broletto Nuovo. Questa parte del progetto, pur avendo ottenuto il decreto del Senato per i necessari espropri, fu la prima ad essere abbandonata. I lavori proseguirono con molta lentezza, non estranee le difficoltà che il Marino andava incontrando nei suoi affari, sempre più complicati e pericolosi, anche in conseguenza delle difficoltà economiche del Regno di Spagna, suo principale debitore e, sotto Filippo II, pessimo pagatore.

Il Marino morì nel 1572 senza vedere compiuta l’opera; verso la fine di quell’anno morì anche l’architetto Alessi,

l’ ideatore della costruzione, che venne definitivamente sospesa. Il palazzo rimase incompleto sui fronti verso Via Marino e il Vicolo dello Straccione. L’interno era finito e consentiva l’abitazione di tre famiglie al piano nobile. Sopra i lati corti erano sistemati dei giardinetti pensili. Anche il salone dei ricevimenti era finito ed aveva verosimilmente ospitato delle feste.

Il palazzo venne confiscato agli eredi nel 1577, a ristoro del debito lasciato dal Marino verso lo Stato. Fra i documenti di confisca si legge una perizia che testimonia come la fabbrica, quantunque nuova, tendesse a degradarsi in quanto non protetta nella parte superiore ed esposta alle inclemenze del clima.

 

Palazzo Marino sede municipale

Il fisco ritenne opportuno cedere l’immobile, che passò al marchese don Carlo Omodeo, con l’eccezione dell’angolo verso S. Fedele, occupato dai Marchesi de Leyva (la figlia di Marino, Virginia, aveva sposato un Marchese de Leyva e generato la Monaca di Monza celebrata dal Manzoni).

Il palazzo tornò in mano pubblica nel 1781 per essere destinato ad ospitare uffici delle Finanze del governo austriaco. Lavori di ristrutturazione vennero intrapresi, sia per adattare l’immobile alla nuova destinazione, sia per i rischi di crollo di alcune sale, anche in conseguenza di un incendio.

Dopo le gloriose vicende risorgimentali, si cominciò a parlare di Palazzo Marino, sempre occupato da Uffici Finanziari, come della nuova sede del Municipio cittadino. Il 3 luglio del 1860 lo Stato e il Comune stipularono un rogito di mutuo scambio tra il palazzo del Broletto, che passò allo Stato e Palazzo Marino, che passò al Comune, che vi insediò la propria sede.

 

Il restauro di Luca Beltrami

Assessore all’edilizia del Comune di Milano, l’architetto Beltrami costituisce un esempio di restauratore attento alla fedeltà storica dei monumenti cui prestò, fra mille contrasti, la sua opera progettuale.

Il restauro del palazzo venne concepito con il preciso intento di portare a termine quelle che erano le linee originali dell’Alessi, così come si presentavano nelle parti portate a compimento, senza falsarne l’architettura. I lavori, approvati nel 1888, vennero terminati nel 1892, donando al palazzo lo splendore che il suo committente non aveva sfortunatamente potuto ammirare, valorizzato anche dal nuovo assetto di Piazza della Scala, sempre disegnata dal Beltrami insieme con i due edifici che la completano (entrambi sorti come sede della Banca Commerciale Italiana, quello a fianco della Galleria fu ceduto poi al Comune).

La stessa fedeltà storica ha caratterizzato gli interventi effettuati dopo i bombardamenti dell’ultima grande guerra e i gravi danni subiti dal Palazzo Marino e dal dirimpettaio Teatro alla Scala.

 

Palazzo Marino oggi

L’esterno si presenta come un blocco rettangolare allungato, a tre piani sui lati lunghi e a due su quelli brevi. Il lato più interessante appare oggi la retrofacciata verso Piazza S. Fedele, a tre ordini sovrapposti scanditi gradualmente da colonne, pilastri e lesene ad erma, che affiancano a loro volta, sempre dal basso verso l’alto, finestre a spalle bugnate, a falso bancone e timpano spezzato, a timpano triangolare.

Il cortile, visibile dall’ingresso di Via Marino, che nei disegni originali costituiva la fronte principale, presenta un portico a colonne binate cui è sovrapposta una loggia con archi a tutto sesto, fra pilastri scavati da nicchie e delimitati da erme reggenti tabelle. La densità e la concitazione dei rilievi in ceppo vi costituiscono una testimonianza dell’"horror vacui" alessiano.

La sala detta dell’Alessi, già sala delle feste, conserva, nonostante gli interventi ottocenteschi e le distruzioni causate dai bombardamenti del 1943, un’immagine cinquecentesca, con decorazioni in parte rifatte e in parte surrogate da opere moderne.

 

Filippo Vasta

 

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Piazza Scala - febbraio 2010