A CACCIA SULLE ALPI

A cavallo fra gli anni 40 e 50 avevo un amico torinese, di nome Carlo, con il quale per la verità sono tuttora in contatto saltuario, che si trovava a Piacenza per il servizio militare. Era un giovane ufficiale del Genio Pontieri ed aveva esattamente la mia età. In attesa di trovare una sistemazione di lavoro definitiva, aveva ritenuto di prolungare la ferma come sottotenente, dato che percepiva un discreto stipendio e non si ammazzava certamente di lavoro.
Avevamo in comune la passione per la caccia e quando arrivava la stagione andavamo spesso insieme sulle montagne del piacentino, con altri amici, per cacciare le pernici rosse e le starne.
Era un tipo simpatico ma strafottente e spesso sarcastico. Figlio unico, lo si capiva a prima vista. Raccontava che sua nonna lo adorava e gliele dava tutte vinte. Suo padre e sua madre insistevano perchè tornasse a casa e si sposasse. Gli avevano già trovato la fidanzata, un discreto partito del luogo (abitavano a Rivoli, paesone a pochi chilometri da Torino). Lui nicchiava e rimandava, perchè la vita militare a Piacenza non gli dispiaceva. Era riverito, lavorava poco, guadagnava benino, si divertiva ed era lontano dalle grinfie dei genitori e della nonna. Le avventure galanti non gli mancavano, qualche volta con le mogli di amici e conoscenti e non si sforzava molto per trovarle, gli arrivavano da sole. Il fascino della divisa, allora si diceva, ed io non mancavo occasione per spiegargli che era l’unica ragione del suo successo, dato che era piuttosto brutto. Gli raccontavo anche che una domestica di casa mia per la stessa ragione seguitava ad innamorarsi dei guardiacaccia, dei postini e degli esattori del gas (che allora portavano divisa e berretto a visiera).
Arrivò al punto di farsi sedurre dalla moglie di un nostro compagno di caccia, una bionda ossigenata dalle lunghe gambe, il corpo perfetto ed una faccia bruttissima, piena di rughe e di cosmetici. Il marito, un commesso di banca, era un gran brav’uomo, ingenuo come un’educanda inglese e non si rendeva conto delle lunghe corna che portava e di cui tutta Piacenza era al corrente. Qualcuno arrivava a sostenere che era omosessuale, ma non era vero. Dicevano così perchè aveva una voce e spesso atteggiamenti un po’ femminili. Noi gli volevamo bene.
Carlo si vergognò un po’, all’inizio, della sua avventura con la moglie del nostro amico e mi spiegò che lei lo aveva attirato in una specie di garconnière che teneva in via Roma e lui ci andò, sia pure senza entusiasmo (la donna, oltretutto, aveva dieci anni più di lui).
Un giorno mi comunicò che aveva ottenuto un posto presso l’Azienda Elettrica Municipale di Torino, come geometra, e il mese successivo avrebbe lasciato l’esercito e Piacenza. Ne provai dispiacere, ma ci scambiammo la promessa di continuare a frequentarci e soprattutto di organizzare ancora, in futuro, qualche bella partita di caccia e di pesca.
Quell’anno, lui passò la stagione di caccia in provincia di Torino e si aggregò, per qualche giornata, a certi suoi cugini che abitavano in Val Germanasca, un’impervia valle nel cuore delle Alpi, cacciando galli forcelli, coturnici e pernici bianche ed anche il camoscio.
L’anno successivo mi propose di fare una spedizione in quei posti ed io, ovviamente, non aspettavo altro. Convinsi un compagno saltuario di caccia
a venire con me e partimmo in treno per Torino, vestiti già da cacciatori, con cane e fucile. Era un sabato di ottobre, già freddo, ma con un sole splendido. In quel periodo io lavoravo a Milano e quel mattino avevo regolarmente lavorato fino alle 13,30, poi avevo preso il treno per Piacenza, avevo consumato un pasto frugale, mi ero cambiato ed ero corso a prendere il treno per Torino con Giorgio. Arrivammo a Torino verso le sei di sera. Carlo ci attendeva alla stazione con la sua vecchia Fiat Topolino e, con la macchina stracarica di noi tre, tre cani, i fucili e gli zaini, ci avviammo verso il Canavese. La nostra meta era Rosone di Locana, nell’Alta Valle dell’Orco, ai confini del Parco Nazionale del Gran Paradiso.
Arrivammo verso le otto di sera in una vecchia trattoria. Prendemmo possesso della nostra camera, con un unico letto matrimoniale e senza acqua corrente. La trattoria aveva un solo servizio, un po’ fatiscente, al piano terreno. Mangiammo un’ottima bistecca con patatine fritte e un favoloso zabaglione ed andammo a letto subito dopo. Eravamo stanchi e ci addormentammo come sassi.
Sveglia alle 2,30 del mattino. Ci attendeva un’ascensione di quasi quattro ore per portarci sul terreno di caccia. Dal fondo valle, dovevamo salire per la montagna attraverso sentieri e passaggi rocciosi fino ai 2.500/3.000 metri di altitudine e poi cacciare fra rocce e rododendri per tutta la giornata.
L’aria era gelida e man mano che salivamo la temperatura scendeva. Nel buio, illuminato solo dalle nostre torce elettriche, vedevamo pozze d’acqua ghiacciata e qua e là qualche stalattite di ghiaccio pendente dai rami dei pini. Dalla partenza in poi non incontrammo più nessuno. Non c’erano case, ovviamente, ma nemmeno baite. I sentieri erano evidentemente poco battuti e il silenzio, nella notte, era assoluto.
Cominciava ad albeggiare, ad illuminarsi leggermente il cielo sopra alle creste delle montagne che ancora ci sovrastavano, quando Carlo ci avvisò che eravamo ormai sul terreno dei galli forcelli. In quel periodo dell’anno erano ancora alti, fuori dalla linea dei boschi, forse sparsi fra i cespugli dei rododendri, oppure a nidiate sull’orlo dei burroni. Io non ne avevo mai visti, neppure morti. Mio padre, pure lui appassionatissimo cacciatore, non era mai stato sulle Alpi e quando aveva sentito che avevo in animo di fare una cacciata al gallo forcello, mi aveva incitato ad andare e lui stesso non stava più nella pelle. Per i cacciatori della nostra zona si trattava di una caccia mitica che ben pochi avevano avuto la fortuna di praticare, almeno una volta nella loro vita. I pochi che l’avevano praticata ed avevano potuto incarnierare un esemplare di questo magnifico uccello selvatico, lo conservavano imbalsamato in casa, al posto d’onore.
Carlo ci disse che sulla montagna che stava appena sopra di noi, già parzialmente illuminata dal sole, a detta dei suoi amici valligiani, c’era un numeroso branco di camosci ed inoltre coturnici e pernici bianche, ma non era opportuno salire ancora, per un’altra ora o due. Conveniva limitarci ai forcelli e chissà che non ci riuscisse di trovare anche coturnici e pernici bianche sparse.
Era molto faticoso camminare sul ripido pendio fra i folti rododendri. Le gambe restavano impigliate e spesso si arrivava sull’orlo di un profondo burrone roccioso ed era necessario tornare indietro. Di tanto in tanto dovevamo legarci l’un l’altro per superare passaggi difficili.
Carlo per un certo tratto si separò da me e da Giorgio e con il suo cane prese per un rivone roccioso e scomparve. Noi proseguimmo e ad un tratto scorgemmo di lontano, inerpicarsi su un costone che a noi apparve quasi verticale, una decina di camosci, grossi e piccoli. Seguimmo con gli occhi la loro corsa ed i loro salti finchè scomparvero dietro alla montagna. Erano certamente lontani, del tutto fuori tiro, e comunque avevamo solo le nostre doppiette e per i camosci sarebbero state necessarie le carabine a palla.
Fu per noi una grande emozione. Li avevamo visti, per la prima volta nella nostra vita, e sarebbe stata l’ultima. Carlo ci aveva raccontato che la caccia al camoscio era praticata quasi soltanto dai montanari i quali erano capaci di partire, da soli con un vecchio fucile da guerra mod. 91, con
uno zaino contenente una coperta e poco cibo per tre o quattro giorni (pane, cioccolato, una fetta di lardo, formaggio) e seguire un branco di camosci per ore ed ore, dormire negli anfratti, riprendere la caccia il giorno dopo, con qualsiasi tempo, e riuscire, se fortunati, a sparare un unico colpo e farsi poi dieci/dodici ore con la preda (quaranta chili) sulle spalle e venderla al macellaio o all’oste del paese, tenendo per se il trofeo.
Noi eravamo paghi di averli visti. Solo questo valeva il viaggio, la fatica dell’ascensione. Lasciammo ai nostri sogni una vera caccia al camoscio, la preda, il ritorno a Piacenza a pavoneggiarci con le ragazze.
Riprendemmo a cacciare. Da tempo i nostri cani “segnavano” forte, saltavano da un cespuglio a un’altro, salivano un costone, scendevano e risalivano con grande eccitazione. Udimmo tre colpi di fucile, uno di seguito all’altro, più in basso, dietro alla costa dove era scomparso Carlo. Ci portammo avanti, stando all’erta con i nostri fucili imbracciati. Ricomparve Carlo, sotto di noi due o trecento metri. Ci gridò che aveva sparato a due galli forcelli e che non li aveva colpiti perchè erano lontani. Comprendemmo più tardi che li aveva mancati, perchè da quel momento e per tutto il resto della giornata il suo umore fu pessimo.
Giorgio ed io continuammo a battere il costone con i nostri cani mentre Carlo restò più in basso per vedere se altri forcelli, parte della nidiata, erano dispersi nella valletta dove erano partiti i due di prima. Ad un certo punto il mio cane si immobilizzò. Puntava verso una grossa distesa di rododendri sull’orlo di un ripido pendio. Avanzai di alcuni metri ed improvvisamente un grosso forcello partì dai cespugli con un frullo assordante di ali. Dominai lo spavento e la forte emozione. Puntai e sparai centrando il grosso uccello che cadde ad una cinquantina di metri da me, con un tonfo sordo sul terreno. Aprii il fucile per estrarre la cartuccia esplosa ma un secondo forcello partì con un gran fracasso. Richiusi il fucile, puntai e sparai il colpo rimasto che colpì il bersaglio. Il forcello cadde ma ripartì subito con un voletto incerto. Non avevo più colpi in canna, ma Giorgio, che si trovava ad una trentina di metri da me sulla destra, fu pronto a sparare e a dare il colpo di grazia.

Intenti a raccogliere il secondo forcello, impiegammo più di mezz’ora a ritrovare il primo, che era ben mimetizzato fra i rododendri. Si trattava di un magnifico maschio, quasi nero, con riflessi colorati e cangianti sulle piume, gli occhi bardati di rosso fuoco, la coda a forcella (di qui il nome). Doveva pesare più di cinque chili. L’altro era una femmina, del tutto diversa, somigliante alle femmine dei nostri fagiani ma molto più grossa.
Ci guardammo in faccia. Era vero? Era possibile? Era successo. E’ difficile descrivere ai non cacciatori che cosa provi un cacciatore di fronte ad una preda del genere. Non ci provo nemmeno. Carlo ci raggiunse. Era felice anche lui, con un velo di amarezza.
Cacciammo ancora per un paio d’ore. Uno dei nostri cani, spintosi lontano, fece frullare un piccolo branco di coturnici che si buttarono ad ali chiuse fra le rocce del burrone e le vedemmo a distanza attraversare la valle fino alla montagna sull’altro lato. Fuori dalla nostra portata, a meno che non fossimo riusciti a procurarci un elicottero.
Era ormai tardo pomeriggio. Il sole era caldo e la stanchezza si faceva sentire nelle nostre gambe e nelle nostre braccia. Cominciammo la discesa. Eravamo lontani da ogni sentiero e vedevamo lontanissimo il fondo valle. Scendemmo il ripidissimo pendio metro dopo metro, scivolando, cadendo, in uno scenario meraviglioso. Al di là della valle il massiccio del Gran Paradiso, con le sue nevi, i suoi ghiacciai e le sue rocce grigie a strapiombo che cominciavano a tingersi di rosa e di rosso per il prossimo tramonto.
Ci lasciammo alle spalle la linea dei rododendri, con i fiori rosso fuoco, i grandi pascoli e le rocce e ci inoltrammo nelle pinete, scendendo rapidamente verso valle. Era quasi buio quando raggiungemmo la nostra Topolino. Avevamo, rispetto all’andata, qualche chilo in più per le nostre prede e qualche chilo in meno per la fatica e il sudore. La gioia per la giornata trascorsa non aveva peso.
Carlo ci portò alla stazione di Torino, prendemmo il treno e ritornammo a Piacenza. Era tardi, quando arrivammo. Non c’era più nessuno in giro e non potemmo pavoneggiarci con le nostre prede, ma dal giorno successivo cominciarono i nostri racconti e continuano tuttora, quasi mezzo secolo dopo.
Un’ultima cosa: l’anno dopo Carlo mi comunicò che si sposava. Naturalmente con la ragazza procuratagli dai suoi genitori e da sua nonna. Matrimonio felice.


Giacomo Morandi