LA BOMBA

Quando l'anno scolastico 1940/41 si concluse, i miei genitori non vollero che io rimanessi a Milano, dove avevo ultimato il primo anno del liceo classico, perché la città era molto esposta ai bombardamenti, anzi ne aveva già subito qualcuno.
Mi richiamarono al paese e mi iscrissero al Liceo «Campanella» di Reggio Calabria. In questa città mi trovarono una cameretta in affitto in una pensioncina a basso costo.
Più che di una cameretta, si trattava di uno di quei gabbiotti posti sui terrazzi, di lato alla porta che delimita il confine fra la tromba delle scale e il soffitto della casa, usati in genere come ripostigli.
Non c'era naturalmente l'ascensore e quindi dovevo sobbarcarmi quattro piani più volte al giorno. Lo spazio era esiguo e il lettino, per farcelo stare, dovette essere collocato proprio sotto l'unico finestrino che, quando ero coricato, veniva a trovarsi all'altezza delle mie spalle.
Questo però era il meno. Quello che invece mi divenne insopportabile fu la palma che carezzava coi rami il muro esterno fino a lambire il finestrino.
Reggio, si sa, è una città abbastanza esposta ai venti, i quali, nella stagione calda, apportano un gradevole refrigerio.
Ma quando il vento si accanisce per intere nottate invernali contro una palma che ha i rami addossati al muro della stanza dove stai tentando di prender sonno, e urla come impazzito fra le foglie lamellate e sbatte furiosamente i rami contro la parete, quasi a scuoterti per tenerti sveglio ad ogni costo, allora no. Allora l'aspetto suggestivo e romantico del sito, il terrazzo, la palma, la luce diamantina, il sole, la tranquilla solitudine, la vista del mare lontano e dell'Etna imponente, si tramuta in prigione insopportabile e la permanenza diventa un calvario. E ti vien voglia di abbandonarlo.
Cosa che feci appena se ne presentò l'occasione. Mi trasferii in un'altra pensione, gestita da un anziano signore di Milano, capitato a Reggio non si sa come, sposato con la zia di un mio compagno di scuola che fu felice di portarmici.
Non era propriamente una suite d'albergo quella che mi offrirono, ma uno sgabuzzino senza finestra, che dava in un corridoio, nel quale il lettino copriva un intero lato. Dal soffitto pioveva la luce filtrata dai mattoni in vetro del terrazzo. Aveva l'unico pregio di essere silenziosa. Fin troppo.
La guerra si trascinava fra alti e bassi. Da Reggio assistevamo, incoscienti e impotenti, ai martellanti bombardamenti aerei di Messina. Di giorno venivano, altissimi, al di fuori della portata della nostra contraerea, i quadrimotori americani, le cosiddette fortezze volanti, che rovesciavano sulla città un fiume di ferro e di fuoco, senza misericordia.
Di notte, invece, preceduti da un aereo da ricognizione, universalmente conosciuto col nome di Pippo, arrivavano i bombardieri inglesi. Questi non sganciavano all'impazzata. Prima illuminavano a giorno lo Stretto coi bengala e poi tentavano di colpire, molto spesso riuscendovi, le attrezzature portuali e le navi agli ormeggi.
C'erano degli orari stabiliti per questi macabri spettacoli e la gente vi assisteva come ai giochi pirotecnici.
A questo proposito, viene in mente un episodio accaduto in occasione di una visita effettuata in Calabria dal Re Vittorio Emanuele III a bordo di un treno blindato. Il treno si fermò a Villa S. Giovanni e il Re, con tutto il seguito, si apprestava ad attraversare lo Stretto su un mezzo navale. Nel cielo volteggiava una squadriglia di aerei da caccia, verosimilmente con compiti di sorveglianza e scorta. Improvvisamente apparve una pattuglia di aerei da caccia inglesi sbucata dai monti Peloritani. Ne seguì un accanito carosello, con furiose sventagliate reciproche di mitraglia. Poi la nostra pattuglia sembrò abbandonare il campo. Fu invece un'astuta manovra per guadagnare in altitudine. Dopo poco infatti piombò dall'alto sui cinque aerei avversari e ne colpì uno che si inabissò nello Stretto lasciandosi dietro una lunga scia di fumo. Gli altri furono inseguiti in direzione di Catania, verso Malta, da dove probabilmente erano decollati.
L'accaduto la dice lunga sull'efficienza dei servizi segreti inglesi, visto che azioni diurne affidate ad aerei da caccia non erano mai state condotte prima in quella zona.
A metà dell'anno 1943 conseguii la maturità classica e rientrai al paese, proprio pochi giorni prima che anche Reggio, fino a quell'epoca fortunatamente risparmiata, subisse i primi bombardamenti. Ai quali seguì lo sfollamento della popolazione verso i paesi dell'entroterra.
Appena arrivarono i primi sfollati, si cominciò ad avere paura persino in paese e molti, fra i quali anche i miei, decisero di trascorrere le notti in quei casottini di campagna destinati abitualmente al ricovero degli attrezzi, della legna e delle altre cose che servono nei campi.
Io facevo il coraggioso e rimanevo in casa.
Una notte sentii un aereo a bassissima quota e pensai che fosse in avaria. In effetti probabilmente lo era, visto che poco dopo udii un tonfo fortissimo e cupo che fece tremare le case.
Fui tentato di alzarmi per andare a vedere cosa diavolo fosse successo, ma non sapevo dove dirigermi con esattezza.
M'era parso che il rumore venisse dalla parte collinare verso Deconi. E se mi sbagliavo?. Mi affacciai al balcone ma un falcetto di luna, sperduto sopra la cima di Montalto, era come non ci fosse. Pensai che non avrei potuto farmi luce con la lanterna a petrolio perché c'era l'oscuramento, sicché tornai a letto con una certa trepidazione e faticai a riprendere il sonno.
L'indomani circolò la notizia che l'aereo aveva lasciato cadere una bomba e tutti ci precipitammo a vedere.
La bomba, inesplosa, era caduta fra gli ulivi nelle vicinanze della linea ferroviaria proprio dalle parti donde m'era giunto il rumore.
Era molto grossa, sui cinque quintali, e assomigliava a un grosso pachiderma.
Prevalse l'ipotesi che il pilota, con l'aereo verosimilmente in avaria, avesse voluto liberarsi del carico per guadagnare in manovrabilità. L'idea che invece avesse voluto mirare alla ferrovia fu scartata, primo perché la bomba, fatta cadere di pancia, non poteva scoppiare, poi perché c'era troppo buio e il pilota a quei tempi non avrebbe potuto individuare l'obiettivo con tanta precisione. Da ultimo perché quella piccola strada ferrata non poteva avere alcun interesse militare.
In paese tutti si abbandonarono alle più strampalate congetture, ma qualcuno aguzzò l'ingegno ('u bisognu mpara 'a via = la necessità indica la strada giusta) e si domandò se tanta abbondanza di polvere contenuta nella bomba non avrebbe potuto sopperire alla totale mancanza di polvere da sparo per i fucili da caccia.
Bastò l'interrogativo per risvegliare le sopite velleità venatorie di quanti, in prevalenza anziani o giovanissimi come noi, guardavano al fucile da caccia, inoperoso da anni, come a un arnese da museo.
Ma, come fare per disinnescare il pachiderma? I carabinieri vi facevano la guardia ininterrotta e perciò non ci si poteva neppure avvicinare. Però, col passare dei giorni, anche la sorveglianza si allentò fino a cessare del tutto. Segno che le autorità o avevano ben altro a cui pensare o avevano provveduto a rendere il mostro inoffensivo.
Dapprima fu un accostarsi cauto e sospettoso, poi un infruttuoso tentativo di decifrare le scritte, i numeri e i simboli impressi sui fianchi. Quindi si cominciò a toccarla, a pulirla con le mani, a tentare di scoprire una via di accesso alla polvere che fosse lontana dalla punta dove poteva esservi il detonatore, disinnescato o no dai carabinieri.
Non vi fu nulla da fare, almeno per noi giovani. Dopo pochi giorni, però, qualcuno in paese aveva già pacchetti di carta colmi di polvere nera. Come avesse fatto a procurarsela, chi e quando avesse aperto il varco nella parete della bomba non si seppe mai.
Seguì un accorrere frenetico attorno al pachiderma ferito, come fanno i marabù con le carogne nel deserto, e nel giro di mezza giornata parecchie famiglie ebbero la loro porzione di polvere nera.
Ora i cacciatori anziani e i neofiti potevano finalmente risfoderare le armi e dare libero sfogo ai loro istinti repressi.
Di fronte a tanta euforia non mancarono i prudenti quanto inutili avvertimenti di certuni, reduci della prima guerra mondiale, che consigliarono di desistere dal tentativo. Dicevano «'A purvari d'i cannuni e d'i bumbi e' cosa militari. E i cosi militari non si canuscinu». Parole al vento.
Nacquero aspre contese su come dosare le cartucce. Chi diceva che bisognasse mescolare la polvere con altri ingredienti per diminuire la potenza dirompente. Chi che bisognasse invece usarla così com'era, ma in quantità ridottissime rispetto alla comune polvere da caccia, per ottenere il medesimo effetto. Chi che occorresse aumentare la quantità dei pallini e ridurre lo spessore del borro (che è una specie di tappo separatore di materiale pressato fra la polvere e i pallini). Chi invece che occorresse fare il contrario.
Su una cosa furono tutti d'accordo, che, cioè, trattandosi di polvere militare, non fosse necessario, per caricare la cartucce, aspettare la luna favorevole.
I preparativi fervevano e la voglia di dimostrare d'aver scoperto o indovinato la formula più efficace era acutissima.
Nelle campagne si cominciarono a sentire i primi spari. Tuttavia non furono proporzionati all'abbondanza della selvaggina, rimasta indisturbata da parecchio tempo, né alla quantità di cartucce, sicuramente notevole data la facilità di accesso alla polvere.
II motivo c'era e venne a galla piano piano.
Ogni cacciatore cercava di sapere dall'altro com'erano andate le cose, ma riceveva risposte vaghe e reticenti. Alla fine però la verità si impose per tutti.
Fu quando uno di essi dovette andare dal medico per farsi medicare la mano sinistra rimasta danneggiata dallo scoppio della canna del suo fucile.
Ciascuno abbandonò finalmente ogni esitazione e spuntarono i resoconti più sconsolati e divertenti regalatici dalla bomba.
Si seppe di fucili completamente rovinati, di canne contorte, di culatte frantumate, di piccole ferite alle mani e al viso, e fu un consolarsi a vicenda per il grave danno patito, ma soprattutto per il peggio che poteva succedere.
Io avevo fatto la mia parte. Avevo convinto mio cugino Cecé a provare col fucile di suo padre le cartucce confezionate con la polvere della bomba.
Le caricammo con gli strumenti e il bilancino di un anziano cacciatore, provetto nel destreggiarsi con la conosciutissima polvere granulare, ma digiuno, come del resto tutti quelli che ne fecero uso, del dosaggio della polvere militare e dell'opportunità di impiegarla con fucili da caccia.
Il fucile era l'orgoglio dello zio. Una stupenda doppietta belga calibro 12 marca Cokerille, che egli si portava a spalla unicamente per rimarcare l'imponenza e l'importanza della sua figura, già militaresca per conto suo. Credo che non avesse mai sparato un solo colpo.
Lo infilammo in un sacco, così com'era nella custodia di cuoio, e ci avviammo in campagna.
Scegliemmo una posizione leggermente dominante nel folto di un uliveto e lo liberammo dalla custodia. In effetti era una bella arma: splendido il calcio di legno pregiato, lucida e ricca di decorazioni la parte metallica dell'impugnatura, arcigne e splendenti le canne d'acciaio.
Cecé lo aprì e infilò due cartucce. Poi guadò verso l'alto dell'albero. Non c'era ancora nulla, ma sentivamo tutt'intorno i tordi che cominciavano a squittire.
Non si può dire che non fossimo in ansia, anche se ci illudevamo che la qualità del fucile e la perizia dell'anziano cacciatore che ci aveva assistito nella fase di caricamento delle cartucce fossero sicure garanzie circa la buona riuscita del tentativo.
Ora l'arma era minacciosamente rivolta verso l'alto e non aspettava che di dare prova di sé.
D'un tratto si sentì un fruscio d'ali e di frasche verso la parte più alta della chioma dell'albero. Mio cugino puntò il fucile verso quella parte e sparò.
Non fu però uno sparo vero e proprio ma uno scoppio, con piccole scintille di fuoco che lampeggiarono dalla culatta. Io gli stavo vicino ed egli mi urtò, tanto violento fu il rinculo. Una piccola nuvola nera avvolse il fucile e un fragoroso sbattere d'ali segnalò che il tordo non era stato neppure ferito.
Mio cugino, col fucile fumante fra le mani, impallidì, presago forse di quello che era accaduto. Tentò di riaprire l'arma per estrarre la cartuccia sparata ma non riuscì e così ebbe la conferma che qualcosa di grave fosse capitato al Cokerille di suo padre.
Guardammo bene insieme e ci accorgemmo che in effetti c'era una vistosa deformazione alla base delle canne.
Eravamo frastornati e ci esprimevamo più a gesti e sguardi che non a voce. Poi egli disattivò il grilletto pronto per l'altra cartuccia e forzò col mio aiuto l'apertura delle canne.
Non vi riuscimmo che dopo aver fatto leva fra due grossi rami di ulivo. La deformazione c'era. Cecé estrasse le cartucce e poi tentò di richiudere le canne. Nulla da fare. Non ci restò che infilarlo nella custodia così com'era e quindi nel sacco, ringraziando il cielo che l'ottima qualità dell'arnese (e, forse, la parsimonia dell'anziano cacciatore), avesse risparmiato a noi conseguenze ben più gravi.
Tornammo a casa verso sera, con fare circospetto per non dare nell'occhio.
Il fucile ferito fu collocato al suo posto e da quel momento in avanti vivemmo nell'ansia che lo zio scoprisse il misfatto e, affezionato com'era alla sua arma, andasse su tutte le furie.
Invece l'incalzare degli avvenimenti dirottò altrove l'attenzione di tutti e del fucile non si parlò più.
Ancora oggi non saprei dire quale fine abbia fatto. Forse fu consegnato ai militari così com'era quando, dopo la liberazione, gli alleati decretarono il sequestro delle armi d'ogni tipo.
Gli unici a godersela in quel periodo tormentato furono i tordi e tutta l'altra selvaggina che per un pezzo non ebbero molestia alcuna dagli scornati cacciatori.

Lorenzo Milanesi
(da Carmela Cuda - Rubbettino Editore)