Avevamo allora diciotto anni ed eravamo compagni di scuola.
Roberto non era proprio un amico, ma era piacevole stare con lui. Ci
si trovava con gli altri compagni, si giocava a carte a casa
dell'uno o dell'altro, la domenica si andava allo stadio a tifare
per il Milán o in qualche sala da ballo in cerca di ragazze: un
compito che Roberto ci facilitava, grazie al suo aspetto fisico e al
suo fare disinvolto. In fondo lo ammiravo: per la riservatezza, la
maturità, lo stile impeccabile che lo facevano così diverso da me.
Fu proprio su un soprabito chiaro, in perfetta linea con la moda del
tempo, che si imperniava la storia incredibile che un giorno mi
raccontò. Eravamo soli, in casa sua. in attesa che gli amici ci
raggiungessero, quando mi narrò quell'episodio sconcertante che io
subii senza trovare parole di comprensione. Mi sorprendeva:
sgranando gli occhi mi svelava un immenso bisogno di confidarsi, ma
tacque repentinamente quando giunsero gli altri.
Non potei più interrogarlo sulla vicenda perché morì tre giorni
dopo: lo sterno schiantato contro un platano all'idroscalo. La
scuola al completo partecipò ai funerali ma soltanto io potevo
ricordarne le parole.
In auto, da solo, stavo rientrando a Milano. II tempo era rigido,
ricordo, malgrado fosse già primavera. Mentre percorrevo la
provinciale vidi una ragazza intirizzita dal freddo farmi cenno di
fermare, cosa che feci volentieri. Mi chiese se potevo condurla in
Viale delle Rimembranze dove abitava e si sedette accanto a me.
Disse di chiamarsi Giovanna Soncrini, era pallida, attraente, con
due celesti occhi metallici: indossava solo un abito troppo leggero
ed aveva al collo un magnifico cammeo. Durante il viaggio parlammo
di cose impersonali e mi sorprese scoprirla legata a mode ormai
superate.
Quando m'invitò a fermare la macchina mi resi conto che mi
dispiaceva lasciarla: i suoi gesti morbidi ed il parlare attento e
distaccato mi avevano preso. Provai un forte desiderio di rivederla
e così, mentre stava per salutarmi, afferrai il mio soprabito e
glielo porsi. « Indossalo — le dissi — fa molto freddo », e al suo
cenno di rifiuto aggiunsi: « Me Io restituirai » ed infilai nella
tasca un mio biglietto da visita. Mi disse solo « arrivederci », poi
avvolta nel mio soprabito si allontanò nella penombra della sera
ormai calata. Ero contento d’aver trovato un espediente per
rivederla.
Trascorsi qualche giorno nella vana speranza che mi telefonasse, poi
mi decisi a rintracciarla. Recuperai dall’elenco telefonico il
numero di una certa Maria Soncini che abitava in Viale delle
Rimembranze e telefonai.
Mi rispose la voce di una donna anziana: « Giovanna Soncini? —
interrogò sorpresa — Si tratta di uno scherzo, vero? Oppure lei ha
sbagliato numero ».
« Non credo, signora — risposi — io cerco una ragazza bionda, di
diciotto anni circa, piuttosto alta e magra ».
« Guardi... avevo una figlia che corrisponde alla sua descrizione...
ma è morta quindici anni fa in un incidente ».
« Signora, mi creda — continuai seriamente — pochi giorni fa ho
accompagnato nei pressi di Greco una ragazza che mi disse di
chiamarsi Giovanna Soncini: era vestita di rosa e portava un cammeo
al collo ».
« Lei mi sta facendo il ritratto della mia povera figlia; ma chi è
lei, come si chiama? ».
Le dissi chi ero e vincendo lo sgomento la pregai di ricevermi in
casa sua. La donna, dapprima titubante, alla fine acconsentì.
Mi recai a Greco. La signora Soncini fu molto cortese. Le ripetei il
racconto fattole al telefono; capì la mia morbosa curiosità di
vedere almeno una fotografia della figlia e mi invitò in una piccola
stanza.
« Questa era la camera di mia figlia » disse poi e indicò un
ritratto sulla parete. Ero sgomento: si trattava della ragazza che
avevo accompagnato pochi giorni prima. Chiesi anche del cammeo, ma
la donna affermò che era stato sepolto insieme a Giovanna.
« Era la mia unica figlia » disse in tono pacato accennando alle
lacrime e come per fugare ogni dubbio mi mostrò alcune fotografie
ingiallite della ragazza.
Le dissi allora che mi dispiaceva averle ricordato quella sciagura
che le stava condizionando il resto dell’esistenza, che certamente
mi ero sbagliato, che quella ragazza non poteva essere sua figlia,
che era solo una strana inspiegabile coincidenza.
Quando mi congedai non ero affatto tranquillo, non potevo credere ad
uno stupido scherzo: troppo certo ero d'aver incontrato la ragazza
delle fotografie. Forse la madre mi aveva mentito, pensai,
considerando morta la figlia che invece era solo scappata di casa.
Forse le foto non erano autentiche ma stampate alla maniera di
quelle di una volta.
Decisi che avrei rintracciato i dati di Giovanna in municipio.
Poiché conoscevo la data del decesso qui non ebbero difficoltà a
rilasciarmi il certificato di morte: Giovanna era effettivamente
perita quindici anni addietro.
Mi sembrò d’impazzire. Qual era la verità di questa storia irreale?
Non certo quella d’una sosia: troppo collimavano la struttura
fisica, lo sguardo metallico, il sorriso enigmatico e quel
particolarissimo cammeo con ciò che mostravano le foto. E se la
signora Soncini avesse attribuito a sua figlia Giovanna,
effettivamente morta quindici anni prima, le fotografie della
ragazza che io avevo incontrato? Era un’ipotesi assurda e
inspiegabile ma anche l’unico appiglio per non credere
nell'incredibile.
Dovevo rintracciare personalmente la tomba di Giovanna, se davvero
ne esisteva una. Fornii al custode del cimitero di Greco gli estremi
necessari per effettuare la ricerca: la trovò e m'indicò il percorso
per raggiungerla.
Camminavo in fretta, torturato dalla volontà di controllare questo
particolare determinante. Raggiunsi la tomba, sulla lapide,
orribilmente, una foto ovale incastonata ritraeva Giovanna con il
suo cammeo: un epitaffio ne rammentava la prematura scomparsa. Era
lei, certamente!
Il cuore mi balzò dal terrore e pensai che scoppiasse quando vidi su
una croce vicina il mio soprabito chiaro... Esitai, poi lo afferrai,
con angoscia vi infilai le mani nelle tasche, ne estrassi il mio
biglietto da visita e lessi « Arrivederci! ».
Avevo ascoltato senza fiatare la storia di Roberto, dubbioso se
credergli o meno; d’altronde non ebbi più il tempo di fargli
domande, ché gli amici suonavano alla porta.
Prima dì aprire mi fece promettere che non avrei fatto parola con
alcuno di quanto mi aveva'narrato se non fossero trascorsi almeno
quindici anni. Sorrisi imbarazzato a questa richiesta di cui non
avevo capito il senso, lo comunque l'ho sempre rispettata e non ho
mai accennato a nessuno quest'incredìbile storia.
Ora però i quindici anni sono scaduti.