PANE DOP di ALTAMURA

Conosciuto ed imitato in tutto il mondo, deve la sua fama all’uso di particolari qualità di farine ed a metodi tradizionali di preparazione e cottura.

di Tommaso Berloco

 

Da NUOVA REALTA' Notiziario Associazione Bancari Caripuglia><UBI<>Banca Carime - dicembre 2010

 

Il pane è stato sempre un elemento fondamentale dell’alimentazione umana sia come apporto primario, cotto in vari modi, che secondario come complementare ad altri alimenti.

Diffuso soprattutto nella penisola italica e nei paesi del Mediterraneo, è legato alla scoperta, alla semina e alla coltura dei cereali avvenuta inizialmente in mediooriente: dalla segale all’orzo e soprattutto al grano di diverse varietà, in un’evoluzione continua della macinatura e preparazione delle farine e dell’uso di lieviti, nonché delle modalità d’impasto, cottura e conservazione.

Ad Altamura, cittadina posta a cavallo delle zone coltivate tra Puglia e Basilicata, la sua produzione nel corso dei secoli ha avuto una particolare evoluzione.

Inoltre, già apprezzato nel territorio e nei paesi vicini insieme ad altri prodotti tipici locali, negli ultimi anni si è diffuso anche in paesi e città lontane (scambi commerciali, frequentazione di ristoranti, mass-media), diventando un ottimo prodotto di mercato e presentato come “tipico pane di Altamura”.

La sua bontà è legata all’uso di farine ricavate da grani coltivati da secoli nel proprio territorio murgioso, alla particolare molitura in mulini con macine di pietra dura locale (oggi sostituite da moderni cilindri in acciaio), all’uso di lieviti isolati da centinaia e centinaia di

generazioni di massaie e panettieri (conservato anche per settimane nella “giumella” di pasta, avvolta in panni di lino o nei vecchi “capasìddé”) ed alla cottura propria nei caratteristici grandi forni a legna.

Le origini locali risalgono alle prime coltivazioni granarie dell’età neolitica (VI - III millennio a.C.) nei piccoli villaggi agricoli che precedettero la nascita e lo sviluppo della città peuceta (sin dal VI secolo a.C.) abitata fino alla tarda età romana. Ciò è attestato dai rinvenimenti locali di tracce di forni e focolari, dall’impronta di una spiga di grano su di un coccio di fango in una capanna del X secolo a.C., dalle spighe dipinte a fasci su vasi ritrovati nelle necropoli locali e soprattutto dalle numerose macine e levigatoi in pietra rinvenuti insieme ai “dolii” (grandi vasi panciuti con apertura stretta, usati anche per conservare granaglie, olio o vino).

Tali sistemi di preparazione e consumo continuarono nei villaggi e casali sparsi sulla collina, anche quando la città, in epoca romana, cadde in declino e fu quasi completamente abbandonata.

Ancora nei secoli XIV-XVII si contavano tutt’intorno una ventina di casali (citati in toponimi ancora oggi esistenti), utilizzati, oltre che dai contadini, anche da gruppi di pastori sia a dimora fissa (in insediamenti ipogei o in grotta) che migranti stagionali sulle alture calcaree della Murgia (in trulli con recinti circolari, denominati “cùrté”, realizzati con pietre locali superficiali).

Nella città riedificata post-federiciana, dall’epoca angioina a quella del Vicereame e della Signoria dei Farnese, ci fu una continua evoluzione della produzione del pane, legata a nuove necessità di vita. Infatti, oltre a soddisfare casate con famiglie più o meno numerose, si doveva pensare a confezionare pane per i dipendenti e i lavoratori dimoranti nelle campagne e nelle masserie poste anche molto lontano dal paese (fino a mezza giornata di cammino) e per le varie comunità religiose (soprattutto conventi e conservatori).

Quasi tutti i dipendenti venivano pagati in ducati e somministrazione di pane; solo dalla metà dell’ottocento il pane non venne più fornito dal datore di lavoro, ma preparato dalle stesse famiglie dei lavoratori che, in occasione del rientro festivo in paese (settimanale o quindicinale), ne portavano una o due forme al padrone.

Il pane doveva, quindi, mantenersi commestibile e buono per almeno una settimana; esso veniva consumato in maniera semplice con o senza companatico (in genere formaggio e verdure, anche selvatiche), oppure arrostito nel camino (la fedda rossa) o cotto come ciallleddain fette sottili in tipici piatti conici (“piatti cupi”), con l’aggiunta di acqua bollente insaporita da ingredienti semplici (per lo più vegetali) e condite con sale e olio crudo. L’operazione del condimento costituiva un vero e proprio rituale; infatti l’olio veniva versato pronunciando le parole ”Padre, Figghie e Spirite Sante” e mimando il segno di croce sul piatto.

L’affrettarsi o l’indugiare nel pronunciare le parole e nel versare l’olio dipendeva dalla disponibilità economica, dal grado e dall’età dei commensali seduti in cerchio sulle scannedde” (seggiole di ferule).

Più raro era il “pancotto” preparato cuocendo pezzi di pane raffermo, aglio, olio e alloro talvolta con l’aggiunta di pecorino) e consumato soprattutto da anziani e bambini.

Fino all’età moderna si coltivavano due tipi fondamentali di grano: la “maiorica”, più tenero, la cui farina era adoperata per pasta e dolci, e la “rossina”, più duro e più adatto per essere “panezzato”.

Molto note in tutto il Regno di Napoli, queste qualità di grano, oltre che da grossi commercianti della Capitale napoletana, venivano richieste da numerosi compratori del barese (dei paesi detti “della Marina”), di alcuni centri del tarantino e della contigua Lucania.

Ricordiamo che il prezzo del grano, stabilito ad Altamura in alcuni “sabato” (giorno di mercato) davanti alla Porta Angioina, al Duomo e nella “Piazza”, diventava un prezzo di mercato per tutto il Regno (una specie di Borsa Merci odierna).

Il grano, ripulito dopo la setacciatura con appositi setacci detti ”farnari”, veniva macinato in grandi mulini le cui macine, in pietra dura locale, erano azionate da asini o muli. Un secondo passaggio attraverso setacci più fini, detti “zitelle”, separava la farina dalla crusca (usata per il bestiame) e dal cruschello (usato anche per l’alimentazione umana).

La farina, di colore bianco avorio, era ancora molto ricca di glutine e quindi anche di proteine, e costituiva un buon elemento di alto valore nutritivo.

La preparazione del pane per diversi secoli è stata effettuata, una volta alla settimana,

nelle case per l’uso di ciascuna famiglia e giornalmente, in quantità maggiori, da famiglie per tradizione “panettere”; queste venivano indicate, fino a pochi decenni fa, col nome della comunità per cui lavoravano: si ricordano così i panettieri dell’Università, delle Monache Grandi, di S. Lucia, etc., ma anche di grandi famiglie nobili.

Alla farina, posta su un grande “tavulirre” di legno in misura di una o più “pese” (una pesa = 20 rotoli, un rotolo = 891 gr.), si aggiungeva acqua, sale grosso e lievito madre conservato dalla preparazione precedente.

Il tutto veniva impastato (“trumbuéte”) con un poderoso lavoro di braccia eseguito dalle donne di casa più robuste o dalle serve, per una buona oretta, ricavando una massa morbida e soffice. Questa, racchiusa in un grande panno di lino bianco (in inverno avvolto anche da coperte), veniva depositata in una panca a lievitare (“a ndrévè”) dalle tre alle cinque ore.

Rimessa sul tavoliere, la massa veniva divisa e confezionata in singoli pani del peso di uno o due “scanati”, a volte anche tre (uno scanato = Kg.1,782). Oggi il pane si produce prevalentemente nei numerosi forni sparsi nella città e quasi tutti pubblici e si confeziona in forme alte o basse di 1 e 2 kg. e raramente di 4 e 5 kg. (in particolari occasioni e per fiere). L’impasto casalingo è quasi completamente scomparso.

Sin dal XIII - XIV secolo la cottura del pane è stata effettuata in grandi forni, aperti al pubblico, per uso esclusivamente familiare o dei vari panettieri.

Non si possono dimenticare i rapporti e le abitudini cittadine tra famiglie e fornai: questi ultimi, all’alba di alcuni giorni prestabiliti, bussavano alle case delle varie famiglie loro clienti gridando: - la patràuné, à trumbuè u puénè - (- signora, devi impastare il pane -) precisando il turno dell’infornata. Poco prima dell’orario stabilito veniva portata nelle singole case una lunga tavola di legno (liscia sopra e ruvida sotto) sulla quale venivano disposte le forme di pane, eventuali focacce condite e la “giumella”, un piccolo pane da lasciare al fornaio.

Prima di essere infornato, il pane subiva, come ancora oggi, un’ intaccatura davanti (per il tipo morbido) o un risvolto con piegatura anteriore (per quello più alto), che con la cottura gli assicurava la tipica forma a doppia gobba con muso anteriore, dandogli un aspetto quasi sorridente.

Veniva marchiato con lettere, simboli o disegni vari per contraddistinguere i pani dei diversi clienti; di questi marchi in ferro, un tempo migliaia, ne sono rimasti solo pochi esemplari.

Nella città medioevale e dell’epoca farnese le costruzioni dei forni furono dislocate in punti strategici del centro antico e presero tutti il nome delle chiese vicine; tre o quattro sono ancora in attività e continuano a preparare gustosi prodotti tradizionali. In seguito, riprendendo lo schema di quelli antichi, furono costruiti altri forni nei nuovi quartieri fuori le mura; negli ultimi anni sono sorti, in periferia, impianti di tipo industriale.

Nei forni più antichi il fuoco per la cottura è ancora ricavato dalla combustione di legna (querce, mandorli, noci, ceppi di vite, pini, abeti) che garantisce una buona profumazione naturale; in quelli più recenti, invece, il calore è originato dall’alimentazione elettrica.

Tutti i forni di antica impostazione, di cui restano ancora attivi una decina, hanno una struttura tipica a piccola cupola (costruita con dure e sottili fette di tufo incastrate a raggiera) posta su un’alta base fatta di lastre ben levigate di mazzaro duro, una pietra altamurana molto resistente al calore.

La temperatura interna, che supera i 200-250°, consente la formazione della tipica crosta croccante rosso marrone che racchiude una mollica paglierina, soffice e ricca di bolle di lievitazione.

In occasione di particolari festività di Santi, in alcuni claustri del centro antico, si preparano ancora oggi altarini con l’effige del Santo, intorno al quale vengono disposti canestri colmi di “panèddé benedìtteda distribuire ai numerosi devoti o poveri e da mangiare dopo il tradizionale “bacio” e segno della croce.

Materie prime di ottima qualità, storia, folclore, passione per le proprie tradizioni, uniti ad una eccellente capacità imprenditoriale degli altamurani, fanno sì che il pane di Altamura abbia varcato i confini del territorio e rappresenti una delle tante eccellenze gastronomiche della Puglia, meritandosi il riconoscimento del “Marchio DOP”, conferito nel 2003 dall’Unione Europea.

 

 

 

 

 

Segnala questa pagina ad un amico




 

 

 

 

Piazza Scala News - giugno 2011