LA CATARRATA (in margine alla cataratta)

Nella stanza dell’ospedale dove i pazienti (un’infermiera mi ha detto che ora l’ordine è di chiamarli clienti) sono raggruppati nell’attesa della camera operatoria, confortati di tanto in tanto, oltre che dalla presenza amorevole (nella maggior parte dei casi) dei rispettivi coniugi, da frequenti irruzioni di anziane ed esperte infermiere dotate di boccette di colliri vari, di aghi per flebo introdotti nelle vene, dicono, per precauzione, nel caso estremamente raro, dicono sempre, di malori improvvisi, nausee non annunciate, escandescenze di soggetti nervosi o particolarmente fifoni, crisi di nervi, arresti cardiaci ed altri accidenti del genere. L’attesa, fra le sette del mattino e l’ora del sospirato e temuto intervento chirurgico, è lunga e noiosa (fra le tre e le quattro ore o forse cinque) se non fosse per il pensiero fisso, spasmodico, allucinante e in molti casi terrorizzante, di entrare fra poco in quella stanza colorata, colma di macchinari infernali, luci da discoteca, chirurghi ed infermiere vestiti da macellai nell'attesa dello squartamento di fumanti carcasse bovine.
Si cerca di far passare il tempo, pur privati di orologi e vergognosi di chiedere l’ora agli altri ogni cinque o dieci minuti come si vorrebbe, con un solo occhio disponibile (ammesso che lo sia se non è stato operato dieci giorni prima o se già in lista per una successiva operazione). L’altro è stato inesorabilmente coperto dall’impietosa infermiera già all’arrivo in ospedale. L’umiliazione è completata dal fatto di dover subito indossare un camicione verde aperto davanti, mal sopportato dalle persone pudiche e timorate. Alcuni non hanno l’impudenza di cambiarsi nella stessa camera e si ritirano nel bagno attiguo ma altri, trovandolo occupato, sono costretti a farlo nella stanza stessa, pieni di vergogna e tristezza per gli sguardi furtivi ma disgustati delle mogli altrui e di qualche figlia, queste ultime abituate ad ammirare ben altre nudità maschili.
Si passa il tempo chiacchierando, cercando in ogni modo di mascherare la fifa, sfoggiando, al contrario, sicurezza e coraggio quasi eroici, lanciando qualche battuta di spirito, in genere poco apprezzata dagli altri pazienti ed ancor meno dalle mogli presenti. Qualcuno azzarda commenti su precedenti esperienze di cataratta. I più dicono di non aver sentito alcun dolore, ma io ho capito subito che mentono spudoratamente. Per non essere da meno io stesso racconto una storiella di amici che hanno subìto l’operazione senza sentire alcun dolore, anzi, un paio hanno sentito piacere o addirittura hanno goduto. Mia moglie più tardi mi redarguisce perché, dice, ho fatto fare una grassa risata all’infermiera.
Il mio vicino di poltrona, d’origine siciliana, sciorina la ricetta di un pasticcio molto famosa nella sua regione di nascita. Si tratta della “Catarrata siciliana”, molto simile al Trifle, la zuppa inglese, ma ovviamente con ingredienti diversi, squisitamente mediterranei. L’ingrediente principe è naturalmente il catarro che può essere di diversi colori perciò l’aspetto finale del pasticcio può risultare molto diverso. C’è quello verde intenso, quello verde pisello, giallo pallido, quasi bianco, ma in tal caso è composto per almeno il 60% di sputo, oppure, per finire, quello con venature rosse che deve essere bollito prima dell’uso. Si aggiunge frutta varia, lattuga appassita, formaggio di montagna (quello con i begolini), marmellata di rape e scorzonera. La panna montata, ottenuta utilizzando l’albume di struzzo, si aggiunge alla fine e voilà, si mescola e si serve.
Viene finalmente il turno del prelevamento dei dannati, su una poltrona a rotelle per invalidi, si scende con l’ascensore verso il proprio destino, confortati dall’attempata infermiera napoletana che si fa in quattro per descrivere con gentilezza squisita tutte le fasi dell’operazione. La pressione arteriosa sale rapidamente.
Nell’anticamera della sala operatoria un’altra infermiera, efficiente ma un po’ cinica, calca ancor di più la mano sulle descrizioni, fra gocce di colliri vari nell’occhio interessato, chiacchiere con le altre infermiere sui rispettivi mariti egoisti e fannulloni. A domanda umilmente posta sul contenuto dei colliri rispondono che si tratta d’anestesia, ma siamo propensi a credere che si tratti invece d’acqua di rubinetto o d’innocui normali colliri contro il prurito.
Si fa vivo il chirurgo il quale chiede a tutti se dopo l’operazione intendono vederci meglio di prima. La risposta è quasi sempre positiva. Un tale dice che preferirebbe non vedere più sua moglie, un altro dice che vorrebbe vederla un po’ più magra.
Poi viene il turno della tortura, con le solite infermiere che parlano del più e del meno e che di tanto in tanto si ricordano di te, supino su uno stretto lettino sovrastato da macchine infernali, forse inventate dal dottor Mengele, famoso medico di Hitler.
Il chirurgo ti fruga nell’occhio e continua a dirti di star fermo e tu ribatti stizzito che sei come un pezzo di marmo, irrigidito e rattrappito dalla paura.
Poi, finalmente, la tortura fisica e morale e la profonda umiliazione finiscono e senti un ordine: “Dentro un altro!” Quasi fosse una catena di montaggio.
Acqua passata, dici. Il ritorno in camera dalle mogli e figlie trepidanti, è trionfale. E’ vero, con il senno di poi, si può dire che la goduria c’è. E’ il sollievo d’averla passata liscia.  


Giacomo Morandi