'A MORTI CULL'OCCHI

Sempre in quel periodo, poco prima cioè che le truppe alleate sbarcassero in Calabria, ricevemmo la visita, improvvisa e graditissima, di mio fratello Giamba che era imbarcato come sottufficiale infermiere su una nave ospedale.
Questa nave, in virtù dei compiti umanitari, aveva libertà di navigazione fra i porti dei contendenti. Ora era ormeggiata davanti alla spiaggia di Gioia Tauro dove avrebbe scaricato un certo numero di soldati feriti nei combattimenti in Sicilia.
Giamba stette con noi poche ore, il tempo di abbracciare i familiari, i parenti e gli amici e consumare il pasto in allegria.
Alle due del pomeriggio sarebbe ripartito col treno. Gli dissi che l'avrei accompagnato e che sarei rientrato a casa in serata.
Il treno arrivò puntuale e partimmo.
Dopo la fermata a S. Anna, il viaggio riprese fra gli ulivi. In certi tratti sembrava di viaggiare in galleria, tanto fitti erano gli alberi. Il pennacchio di fumo nero si ergeva sopra la folta vegetazione come un enorme periscopio di sommergibile che viaggi sotto il calmo ondeggiare di un mare argentato.
Giamba mi raccontava delle sue peripezie con la nave ospedale, degli orrori della guerra e dei giovani militari feriti che avevano trasportato fin qui per essere avviati chi a casa e chi agli ospedali. Intanto s'erano avvicinate alcune persone anziane che gli chiedevano notizie dei loro congiunti.
Prima di Seminara, al termine del ponte che immette nella galleria che precede la stazione, il macchinista cominciò a fischiare insistentemente e rallentò di colpo l'andatura fino a portarla quasi a passo d'uomo.
La galleria difatti rigurgitava letteralmente di sfollati. Ce n'erano del luogo e perfino di Cassino. Ogni gruppo familiare aveva preso posto nelle nicchie laterali, ma una buona parte di persone bivaccava sullo stretto marciapiede che separa le pareti dalla massicciata.
Il frastuono del treno eccitò i bambini e impaurì gli adulti. Vi fu un fuggi fuggi generale, uno strillare concitato per richiamare ognuno i propri cari, un accalcarsi affannoso dentro i ricoveri illuminati da candele e da fuocherelli, mentre il treno, non riuscendo a procedere, si dovette fermare.
A questo punto successe il finimondo.
Quando il macchinista si accorse che i binari erano finalmente sgombri, spinse la leva a tutto vapore per ripartire. Ma si dimenticò forse che la linea ferroviaria in quel punto è in leggera salita, cosicché il treno non solo non si mosse, ma cominciò a vomitare fumo nero dall'alto e vapore bianco dal basso in tale quantità che in un batter d'occhio la galleria ne divenne satura.
I primi a subirne le conseguenze furono gli sfollati. Chi si trovava vicino all'imbocco guadagnò subito l'uscita. Quelli che si trovavano verso il centro si misero a gridare e chiamare aiuto con quanta voce avevano e tentarono di scappare verso le uscite trascinandosi, chi per mano e chi in braccio, i figli che ormai piangevano disperatamente.
Intanto il macchinista forzava ancora la locomotiva con ulteriori strappi della leva per farla ripartire e altra quantità di fumo si riversava nella galleria e invadeva anche le vetture.
II panico divenne generale. Cercammo di scappare dalla trappola ma le uscite erano precluse dalla calca che, in preda al panico, si dirigeva verso gli imbocchi.
Io cominciavo già a sentire i primi sintomi di soffocamento e a smaniare.
Giamba mi incoraggiava a resistere e mi porse un fazzoletto da mettere davanti alla bocca. Tentò anche di distrarmi dicendomi che se il treno non si sbrigava a ripartire la nave se ne sarebbe andata e lui sarebbe stato dichiarato disertore, proprio lui che si era guadagnata una medaglia di bronzo al valore e una croce di guerra.
La confusione e il terrore guidavano ormai i nostri gesti.
Ora il macchinista non forzava più, così gli urli di disperazione, i lamenti, le bestemmie e le invocazioni di aiuto si impastavano col fumo nero che, come coltre mefitica, minacciava di coprirci e soffocarci tutti quanti.
Quel poco che dal terrazzino del vagone dov'eravamo im-prigionati riuscivamo a scorgere nel movimento molle, appiccicoso e nauseante del fumo e fra le grida disperate della gente, rihiamava alla memoria le drammatiche illustrazioni dell'inferno dantesco di Gustavo Doré o l'impressionante opera di Henry Moore «Rifugiati in una ferrovia sotterranea».
Quando il treno finalmente si alleggerì di tutti i passeggeri, il macchinista diede un ultimo colpo di leva e il convoglio cominciò a muoversi lentamente. Fu come una liberazione.
Qualcuno, col fazzoletto in bocca, tentò perfino di aggrapparsi ai vagoni per spingerli in avanti e affrettarne l'uscita all'aria aperta.
La folla, stravolta e urlante, si precipitava all'imbocco della galleria verso la stazione per liberarsi dall'incubo del fumo che ora si diradava sonnolento.
Altra gente, fuori dall'imboccatura opposta, si affrettava sul ponte, come a fuggire dalla lava di un vulcano in eruzione, per respirare l'aria pulita a pieni polmoni.
Sul piazzale della stazione, cessato il lamento dei bambini e di qualche persona che aveva maggiormente sofferto dell'incredibile avventura, la gente si abbracciava incredula e con le lacrime agli occhi per lo scampato pericolo.
La frase che, più di altre, sentii ripetere in quella circostanza allucinante fu «vittimu 'a morti cull'occhi» ( Abbiamo visto la morte con gli occhi).
Ripartimmo verso Gioia con più di un'ora di ritardo.
L'uniforme estiva di Giamba era particolarmente sporca di nero. Anch'egli era sudato, come tutti del resto e, ora che il treno aveva ripreso il viaggio, se ne uscì con una frase che, dato il momento, ebbe il pregio di allentare definitivamente la tensione accumulata.
Disse: «Stai a vedere che con tutto quello che ho passato in guerra, ferite e naufragio compresi, ancora un po' faccio la fine del topo in una galleria soffocato dal fumo».
Dopo S. Fantino si cominciò a vedere il mare. Al largo, davanti a Gioia, era ormeggiata la nave ospedale. Era tutta bianca con grosse croci rosse sulle fiancate e in coperta. Non sembrava vero che una nave così bella si portasse dietro un carico di do-lore tanto grande.
Dal ponte sul Petrace ora si poteva scorgere l'immensa di-stesa verde degli aranceti che stringeva la cittadina in un abbraccio profumato. Perfino il greto del fiume era ricco di alberi e di orti.
Scesi dal treno, imboccammo la strada che porta alla marina. La poca gente, le povere case, l'atmosfera, tutto era in tono dimesso, quasi squallido, come da prologo a quello che di lì a poco si sarebbe offerto ai miei occhi.
Sulla lunga spiaggia una innumerevole quantità di militari feriti, adagiati su brandine in fila una dopo l'altra, sotto il sole estivo, offrivano inconsapevolmente un'immagine vivente e dolente delle condizioni nelle quali era ridotto il nostro Paese.
Si vedevano giovani di tutte le armi con braccia e gambe fasciate, con bende sul viso, sul capo, dappertutto. Lamenti giungevano da ogni parte. Uno spettacolo tristissimo e allucinante che, se non fosse stato sotto i miei occhi impietriti, avrei stentato a credere possibile.
Pensai: «Loro sì che hanno visto la morte con gli occhi».
Mio fratello capì che ero smarrito e sconvolto e mi consigliò di anticipare il rientro.
Ci abbracciammo forte forte e ripercorsi il tragitto fino alla stazione con l'animo avvilito e con una indescrivibile sensazione di pietà e di impotenza e un fortissimo desiderio di ritrovarmi al più presto fra le pareti di casa.
Anziché il treno, presi la littorina. Non me la sentii di fare il viaggio di ritorno con il medesimo mezzo col quale poche ore prima avevamo rasentato una vera e propria strage.

Lorenzo Milanesi
(da Carmela Cuda - Rubbettino Editore)