Un fiore tra i reticolati

 

  da EMOZIONI - racconti (DELTA3 edizioni) di Giovanni Noera 

 

 

Avevo scoperto l'amore per la musica sin da quando ero ragazzino. La mia inclinazione era stata così evidente che i miei genitori erano stati indotti a prendere una decisione di cui continuo sempre ad essere loro grato.
Avevo da poco compiuto dieci anni quando mi mandarono a frequentare lezioni di pianoforte dalla

brava signora Marchi. Non potevo immaginare quale importanza avrebbe avuto la musica in un periodo tremendamente difficile della mia vita da lì a qualche anno.
A quel tempo seguivo con passione i concerti trasmessi dalla radio, dai quali traevo ispirazione per le esercitazioni con il vecchio pianoforte lasciatoci dalla zia Teresa insegnante di musica.
Quello strumento rimasto inutilizzato per diversi anni si era rivelato preziosissimo per me.
Era sistemato in una piccola stanza, una volta adibito a salottino, ove vi era un caminetto che, anche se spento, contribuiva a creare un'atmosfera di intimità adatta per il raccoglimento e lo studio.
Dopo il liceo quando i miei coetanei si dibattevano fra angosciosi dubbi circa il seguito degli studi, io avevo una certezza: dedicarmi alla musica.
Così mi iscrissi al conservatorio.
Trascorsi ore ed ore nella stanzetta con il caminetto cercando di perfezionare sempre più l'esecuzione delle opere dei grandi musicisti del passato.
A quel tempo frequentavo pochi amici e specialmente Oreste per affinità culturali e propensione ai sogni sul nostro futuro.
Talvolta, nelle serate d'estate, egli accompagnava con la chitarra i cori che, con gli amici, intonavamo nel mio giardino ricco di piante e fiori curati dalla mamma ma anche dal papà nelle sue poche ore libere.
Una vita serena non insidiata da cattiverie né difficoltà economiche e senza le malinconie dell'età matura. Certo avevo delle malinconie giovanili dalle quali scaturiva poesia e musica.
Poi arrivò la tragedia della guerra. Era cominciata come un brontolio di un temporale lontano poi sempre più vicino e violento. Vecchi equilibri sconquassati, piani per l'avvenire annientati, sostituiti dalla precarietà.
Avevo appena conseguito il diploma che mi trovai in divisa in una caserma: chiamata alle armi. Seconda guerra mondiale.
Nel settembre del '43 fui fatto prigioniero dai tedeschi, caricato su un carro bestiame ed inviato in un campo di concentramento.
Dai ricordi del tempo felice traevo consolazione e forza d'animo. Anche quella mattina nella sala d'aspetto della palazzina ove abitava il comandante del campo.
Avevo avuto diverse volte occasione di incontrare il capitano Ditrich. Mi aveva colpito, pur nella rigidità militare, il modo umano di trattare. Cosa assai rara in quel campo ove gli ordini venivano urlati con le minacce annunciate per la minima infrazione.
Quando mi presentai ero pieno di dubbi e non lieti pensieri affollavano la mia mente.
Il capitano era in piedi dietro la sua scrivania. Alto, magro, con i capelli brizzolati tagliati a spazzola e l'aspetto marziale che incuteva timore.
Dovette leggere nella mia espressione i pensieri che mi agitavano perché cambiò subito atteggiamento e finanche sorrise consentendomi di abbandonare la posizione di attenti.
Entrò subito in argomento.
“Avrei bisogno di qualcuno che aiuti mia figlia a tenere in ordine la casa. Potrei obbligare ma non lo faccio mai. Saresti disposto? Se accetti ci metteremo d'accordo”. Figurarsi se non avrei accettato.
Quando entrai per la prima volta nella palazzina sita fuori dal campo (“vai pure tanto non puoi scappare” fu il beffardo lasciapassare della sentinella) in attesa di essere ricevuto sostai nella sala d'aspetto.
Rimasi affascinato, quasi commosso dal suono di un pianoforte proveniente dal salone adiacente.
L'aria era pervasa dalle note alte di Beethowen. Conoscevo bene quel pezzo, l'avevo suonato tante volte. Entrai in uno stato quasi di estasi per quella musica amata che mi accoglieva in una situazione così difficile. Pensai al mio pianoforte vicino al caminetto, l'angolo della casa che più amavo, ove mi ritiravo per scrivere ed esercitarmi. Oh quel caminetto di casa mia come era lontano!
Come in tutti i momenti di sconforto mi apparve il volto di mia madre. Pensavo “povera mamma chissà come soffrirà sapendomi in un punto per lei sconosciuto della Germania”. La vidi inginocchiata dinanzi all'immagine della Madonna con le mani unite in atteggiamento di supplica e le lacrime agli occhi. Fui afferrato da una nostalgia cocente che quasi mi fece dimenticare la frustrazione del vivere quotidiano, del pezzetto di pane duro atteso con ansia per quella fame senza fine.
La musica cessò di colpo e poco dopo una voce argentina e gentile mi salutò “Her Galleani?” Qualcuno mi si rivolgeva chiamandomi “Signore”. Da una emozione passavo ad un'altra e non era che il principio. Conoscevo il tedesco ed intavolai il discorso con una disinvoltura inimmaginabile solo un momento prima dinanzi a quella ragazza che a me parve di una bellezza straordinaria. Da quanto tempo non vedevo e parlavo con una donna?
Incoraggiato dissi che amavo la musica e che quel pezzo che avevo udito lo conoscevo bene.
Parlando eravamo giunti nel salone. Indicandomi il pianoforte ella mi disse “provi a suonare qualche cosa”. L'invito mi era stato fatto per controllare quanto avevo asserito o per pura cortesia o simpatia a prima vista? Non lo so. Attaccai con il “chiaro di luna”.Trasfusi in quelle note il mio stato d'animo, la mia solitudine, le mie incertezze. Suonai sfiorando i tasti rapito da un'altra dimensione: la mia, l'autentica mia identità.
“Lei suona molto bene. La ringrazio”.
Era dolce e umanissima. Mi trasmise subito il senso della dignità. Non ero più un semplice prigioniero affamato.
Ero un musicista capace di suscitare emozioni.
Appena finiti i lavori, talvolta anche prima, Ellen mi chiedeva di suonare per lei. Mi cimentai con le “lè preludes” di Listz.
Un giorno mi venne d'istinto di attaccare con l'aria del Nabucco “oh mia patria si bella e perduta...”. Ero esaltato, commosso. Ci misi l'anima. Fra noi si era stabilita un'intesa, la capacità di capirsi e attraverso la musica parlare delle nostre vite. Un giorno mi chiese di parlare dell'Italia.
Poi sempre più incuriosita, della mia casa.
Toccammo il culmine della confidenza quando mi disse “mi parli della sua mamma. Io l'ho perduta assai presto”.
Poi aggiunse con una nota di profonda malinconia “troppo presto”.
Ellen era sensibile e colta, amava la musica e la poesia. Un giorno la mandai in estasi recitando una poesia di Hermann Hesse: “Den flugen du, die Geige ich... (il pianoforte tu, il violino io, così suoniamo e non finiamo mai ed aspettiamo ansiosi, tu ed io, chi romperà per primo l'incantesimo”. Quando finii di recitare vidi i suoi occhi lucidi che mi guardavano con una espressione dolcissima.
Mi sentii attratto da lei. L'avrei voluta abbracciare. Seppi fermarmi, “non sono altro che un prigioniero”.
Forse lei comprese.
Non lo so ma mi disse qualcosa di straordinario: “Tu sei il primo uomo che mi fa intravedere gli aspetti più belli della vita”.
Io, il prigioniero lontano dalla sua casa, dai suoi affetti con una nostalgia corrosiva da mane a sera, avevo trasmesso ad una straniera gli aspetti più belli della vita?
Un'assurdità, un contrasto, una involontaria sottolineatura della mia condizione che tuttavia mi riempì di gioia ed orgoglio.
Ellen viveva al campo con il padre. Pensai che una donna giovane dovesse sentirsi una reclusa e che io rappresentavo un diversivo qualsiasi.
Mi accorsi con il passare dei giorni che mi sbagliavo.
Fu lei stessa a chiarire: “Mia madre era francese quindi il mio sangue non è tutto tedesco. Ho tanta sensibilità e amore per l'arte. Tu sei il primo uomo che mi ha rivelato una capacità di sentimenti mai provati. Come quello che provo per te”.
Una volta, forse presaghi, ci eravamo detti: “Non importa se non ci rivedremo: basterà pensarci intensamente... qualcosa arriverà”.
Sì stasera suonerò per lei.
La rivedrò in piedi vicino a me quando suonai per la prima volta da prigioniero nella sua casa fra i reticolati.
Questo primo concerto, il primo del mio dopoguerra, lo dedicherò a lei riversando nelle note l'amore di cui fummo capaci rinnovando la speranza di rivederci e la ringrazierò ancora per tutto il bene che da lei ho ricevuto: “Ovunque ella si trovi qualcosa le arriverà”.
 

Giovanni Noera

 

 


 

 

 

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