tratto da "Duemila e più" del novembre 2011 (a cura del collega Carmelo Profeta)  

 

 

La Guerra vista da una particolare angolazione: quella dei ragazzi degli Anni ‘40


La guerra, quando ci riuniamo un gruppo di quelli che la guerra la vissero realmente, anche se in età giovanile o addirittura infantile, facciamo a gara a citare di essa episodi tragici, terrificanti, di quelli che non si dimenticano mai, come non si dimenticano i nomi di tanti amici perduti. Spesso queste discussioni si chiudono quasi sempre allo stesso modo: “in verità, cosa orrenda è la guerra, speriamo che i nostri figli non la conoscano mai”. Ma non tutti la pensiamo così, a quanto pare; da noi, come in altre parti del mondo tanti spingono i giovani a ribellarsi ed a combattere, chiamando ideali le ambizioni dei vari dittatori, avidi di ricchezze e di potere. Però se penso a quei giorni terribili di guerra, ricordo anche che il nostro atteggiamento di ragazzini era particolare: ora avevamo paura, ora cantavamo le canzoni del regime che esaltavano la guerra e spingevano all'odio contro il nemico.
Ma quale nemico? “Marceremo contro l'oppressore, torneremo vincitori!” Ma quale era il vero oppressore, chi dovevamo realmente vincere? In verità riandando alla vita di quei giorni ricordo, per esempio, che noi eravamo tutti molto tristi, perché non potevamo andare a mare, le spiagge erano deserte a causa della guerra, era vietato anche
avvicinarsi al filo spinato. Se si andava verso il porto, vietato anche quello, si vedeva il cielo pieno di dirigibili antiaerei che sembravano i palloni delle feste, ma che dovevano impedire agli aerei nemici di avvicinarsi e bombardare. Per le strade non si notavano più tante automobili private, non si doveva consumare benzina! Molte di queste venivano requisite; a molte altre venivano requisite le ruote. E l'oscuramento? La tristezza di quelle lampade spente, della gente che tornava precipitosamente a casa; e l'urlo delle sirene che......... seminavano il terrore. A proposito di sirene voglio raccontare un episodio che ricordo bene come tragico e buffo insieme, e di cui fui protagonista.
Un giorno un aereo degli Alleati, partì da Malta alla volta di Catania, sicuramente per ricognizione; volava ad alta quota, ma le sirene presero a suonare per avvertire la popolazione. La gente terrorizzata per la facilità con cui l'aereo aveva superato ogni nostro sbarramento, non credeva ai propri occhi: molti dicevano che il nemico aveva studiato con attenzione gli obiettivi militari, altri che presto sarebbero arrivati i bombardieri. Altri, fatalisti, non drammatizzavano.
Ma molta gente, raccolto il necessario, si precipitò fuori città con ogni mezzo, con le macchine, con le bici, con i carretti.
Un mio zio aveva un nipote ufficiale d'Aeronautica comandante di una delle squadriglie che partivano in ricognizione. Lo zio gli telefonò, quello s'informò con il suo staff, confermò che c'era del movimento all' aeroporto di Malta e addirittura gli consigliò di lasciare la casa, troppo vicina in linea d' aria all' Aeroporto, e di andare dai parenti di sua moglie che abitavano nella parte alta della città. Detto fatto: la zia cominciò a pregare il marito di mettersi in salvo. Così, dopo aver telefonato a mio padre e mia madre, verso le ventitré arrivarono gli zii, e per poter parlare senza disturbare, si riunirono nel soggiorno.
Io e mia sorella dormivamo nella camera attigua a quella dei miei genitori e la mamma lasciava la porta socchiusa per darci più sicurezza.
Noi abitavamo in una bella villa tra orti e giardini, un po' fuori mano, dove durante la guerra fu costruita una caserma, ma in quei tempi spesso avevamo paura, ci sentivamo un po' isolati.
Accolti gli zii, papà e mamma si riunirono nel soggiorno, parlando della guerra, del rischio terribile che forse stavamo correndo; noi due ragazzine dormivamo tranquille e non ci eravamo accorte di nulla.
D'altronde tutto, apparentemente, era calmo; ma, dopo un paio d'ore sentimmo il rombo di un aereo e, senza accorgersi che si trattava di un piccolo aereo italiano da ricognizione, tutti credettero che era arrivata la guerra. Ad un certo punto mio zio si precipitò nella camera dei miei che dava a sud e da cui si poteva scorgere se all'aeroporto si era in allarme e se le luci dei riflettori cercavano di illuminare l'aereo e segnalarlo alla contraerea; ma tutto era buio e lo zio lo disse ad alta voce. Io mi svegliai nell'attimo in cui lo zio correva verso il balcone e intravidi una figura maschile dal vano della mia porta di comunicazione e sentii parlare ad alta voce; temetti che fossero i ladri che erano entrati a casa nostra, perciò, terrorizzata, chiamai mio padre; lo zio tentò di calmarmi e di farsi riconoscere ed entrò in camera mia e di mia sorella che si era svegliata nel frattempo; ma in quel momento mi accorsi di essere mezza nuda, con il mio leggero pigiamino estivo che mi lasciava scoperta più di quanto avessi pensato; allora, vergognatissima piangendo e gridando saltai dal letto e mi nascosi dietro l'armadio da dove mi rifiutai di muovermi per tutta la nottata, malgrado le esortazioni degli zii. Soltanto quando essi andarono via mi decisi ad ascoltare le spiegazioni di mio padre, ma restava in me la vergogna per la mia nudità.
“D'ora in poi” dissi a mia sorella, “finché ci sarà la guerra mi coricherò vestita, e ti consiglio di fare altrettanto.” Ma questa non era ancora guerra, purtroppo il peggio doveva ancora venire; infatti la guerra con i suoi orrori arrivò in Sicilia dopo lo sbarco degli Alleati. L'America era entrata (dicembre 1941) in guerra e i suoi aerei affiancarono quelli degli Alleati per colpire le nostre città e seminare il terrore. I bombardamenti si intensificarono, io fui testimone di uno di questi al centro di Catania: eravamo fuori io e mia madre, per cercare stoffe per noi ragazzi che crescevamo, ma i negozi erano semivuoti, pieni di residui di “residuati”; in mancanza di meglio, la mamma faceva strisce per allungare i nostri vestiti. Era la tarda mattinata del 16 aprile 1943 quando udimmo un rombo agghiacciante e, dietro Porta Uzeda, bassissimo, apparve un bombardiere nemico. Le sirene già suonavano disperatamente e tutti fuggimmo, molti verso i rifugi, altri, come noi, per allontanarci dal centro. L'aereo sganciò una, due bombe, non so, centrò in pieno il bellissimo
palazzo S. Demetrio nel cui androne si erano rifugiate tante persone: molte di queste morirono, molte furono gravemente ferite e, cosa terribile, da non dimenticare, i componenti di una famiglia, che aveva un elegante negozio di vestiti per bambini, rimasero tutti sepolti vivi sotto le macerie; coloro che lavoravano febbrilmente per raggiungerli sentirono a lungo le loro grida, ma non riuscirono a salvarli. Grazie a Dio noi ci allontanammo e, voltandoci di tanto in tanto, piangevamo davanti all'allucinante spettacolo dei “Quattro Canti” distrutti.
Giunti a casa trovammo mio padre che si era precipitato per stare con noi ed era disperato assieme a mio fratello per non averci trovato. Che gioia quando fummo tutti riuniti! Purtroppo i bombardamenti degli Alleati non si fermarono, le sirene suonavano spesso e spesso si sentivano paurosi boati. Papà allora decise di portarci via da Catania, tanto più che le scuole erano chiuse. Ci rifugiammo in una grande villa a Mascalucia, assieme a un fratello di mia madre (gli altri due, uno medico, l' altro ufficiale di fanteria erano sotto le armi), la sua famiglia, i suoceri, la nostra nonna Maria assieme alla figlia maggiore. A Mascalucia ci fermammo fino alla fine della guerra. I maggiori disagi li avevano mio padre e mio zio, i quali, assieme alla sorella maggiore di mia madre, per diversi mesi dovettero scendere a Catania per andare al lavoro. Era molto difficile trovare dei mezzi, pubblici o privati, allora decisero di comprare un vecchio carrozzino e.......... un asinello, e con questo mezzo andavano e venivano dalla Città. Quanto a noi...eravamo insieme ai cugini tutti i giorni, la scuola era...... lontana, ci divertivamo un mondo, grazie a quella beata incoscienza che ci difendeva in parte di ogni cosa triste, ed alla innata fiducia nella vita. Pensandoci ora io mi meraviglio ancora, e proprio per questo ho voluto scrivere questo articolo, per otto ragazzi che per mesi erano felici ignorando il dolore e la morte vicini. D'altronde il problema più importante era procacciarsi da mangiare per tutti, specie per noi ragazzi. Papà da molto tempo aveva affittato un campicello al suo paese e lo aveva seminato a frumento; come tale egli aveva diritto a trattenersi una quota per sè, proporzionata alla sua famiglia, tutto il resto si consegnava al comune. Lo zio era geometra ed aveva molti clienti i quali coltivavano frumento e gli davano discrete quantità dalla loro quota. In verità avevamo tutti una pagnottina di pane razionato al giorno, ma quella per noi ragazzi serviva per... la merenda.. .Il frumento si doveva macinare; a Mascalucia c'era un solo mulino che lavorava a tempo pieno da quando erano arrivati gli “sfollati” come noi, inoltre tanta gente come lo zio si presentava spesso con il suo sacco prezioso, e c' erano tanti che avevano comprato il frumento al “mercato nero” e supplicavano il mugnaio di macinarglielo. Come dire di no? Ed allora, nelle ore meno pericolose egli macinava il frumento anche a loro. Ma a piccole dosi, per non dare nell' occhio. Ogni giorno si formavano lunghe code. A papà degli amici lo mandavano talvolta già macinato dal suo paese, ma per lo zio era una fatica immensa, così egli decise di farsi aiutare dal figlio maggiore, un ragazzino di tredici anni; lo condusse con sé al mulino, lo mise in fila col sacco e gli raccomandò di non muoversi, lui lo avrebbe raggiunto appena poteva e gli avrebbe dato il cambio. Ma mio cugino non se la sentiva di stare a lungo in piedi, e si annoiava: così un giorno lo zio, dopo quasi un'ora, se lo vide tornare a casa con il frumento macinato; “cosa hai fatto?” gli chiese sbalordito, e lui: “Niente di male, papà, ho cominciato ad andare avanti nella fila, e se qualcuno mi rimproverava io rispondevo con aria innocente che avevo fretta di tornare a casa per non lasciare a lungo soli i miei fratelli più piccoli, dato che papà e mamma erano a Catania a lavorare.” Lo zio sbalordito, da un canto lo rimproverò per tante bugie, dall'altro lo ringraziò per avergli evitato la lunga fila. dopo una giornata di lavoro. Ma ben presto i trucchetti di mio cugino furono scoperti, lo zio si rese conto che doveva trovare un rimedio: così chiese ad un amico che già la usava, di procurargli una macina a mano. Era veramente un aggeggio primordiale, ma il suocero, ansioso di rendersi utile, accettò volentieri di farla funzionare: così ogni giorno, dopo colazione, egli portava la macina fuori, in giardino e si accingeva a farla funzionare, per ore e ore, senza stancarsi (apparentemente). I maschi, mio fratello ed i miei cugini, tentarono dapprima di aiutarlo, più che altro per gioco, ma ben presto tornarono agli amati giochi. Però gli stavano vicino, gli portavano acqua da bere, dei biscotti comprati presso i nostri soldati, insomma gli facevano un poco di compagnia. Povero zio! Comunque, la vita scorreva abbastanza serena a Mascalucia, per noi ragazzi,e la lontananza della incredibile tragedia che il mondo stava vivendo era sentita con un certo distacco. Anche oggi, parlandone, noi forse, di quei mesi, ricordiamo gli episodi più allegri.
Ad esempio, un giorno, a Catania, suonarono le sirene, e un aereo sorvolò il paese, non c'erano i papà, solo le mamme, i nonni e noi ragazzi: che fare? Rifugiarsi in casa? no. All'aperto? pericoloso: ma alla fine si preferì riunirsi tutti, sotto la fitta chioma di un grande albero. Cominciammo a pregare, e nonna Maria iniziò il Santo Rosario. Dalla città giungevano i fragori delle contraerei, e allora la nonna alzava la voce per non farceli sentire; restammo così circa un paio d'ore, ma alla fine l'aereo non tornò a girare e tutto si calmò. La nonna si alzò in ginocchio per recitare la Litania. E allora successe una cosa così comica che ci fece scordare la preghiera. Con nostro grande stupore la nonna aveva la parte posteriore della sua gonna tutta bagnata, si era fatta addosso? La nostra fiera nonna Maria? Scoppiammo a ridere, le mamme indignate alzarono lo sguardo dal libro di preghiere e...videro la nonna in preghiera con la gonna più che umida, “Mamma, che hai fatto? Cosa é successo?” Ella si alzò.... e si accorse che era stata seduta su una grossa pianta grassa, succosa, che cresceva ai piedi di quell' albero. Il succo spremuto dalla pianta la aveva conciata così. Allora, senza dire una parola tra le nostre risate, la nonna, dignitosamente, si alzò e riprese a recitare la Litania.
Purtroppo in quei giorni gli alleati decisero di riprendere con maggior furore le ostilità, ogni quartiere aveva il suo cumulo di macerie, fu colpita anche la Cattedrale, e in quella occasione fu distrutto il rifugio dove si trovava S. Agata e il bellissimo Fercolo d'oro e d'argento che fu ridotto in pezzi. Lo sgomento dei Catanesi fu enorme: anche la Amata Patrona!
Non c'era più speranza? Si aspettava l' invasione. Allora molti che resistevano ancora tra rifugi e tende all'aperto per non lasciare completamente la casa, decisero di sfollare. A Mascalucia ne arrivarono in molti con tutti i mezzi possibili, alcuni a piedi. Noi con la nonna andavamo loro incontro per chiedere notizie sui quartieri colpiti, nel timore che fossero state colpite le nostre case. Quella dello zio, purtroppo, andò distrutta; ricordo un anziano, ricoperto di polvere delle macerie, che arrancava verso il paese: la gente lo avvicinava e gli chiedeva da dove venisse, se in quella zona erano cadute bombe, “Bombe?” gridò, “su casa nostra é caduto un aereo nemico!” La gente inorridì: qualcuno ebbe il coraggio di chiedere se ci fossero state vittime, “Vittime?” gridò “io solo sono fuggito, tutti morti, tutti morti! Lasciatemi andare, per carità”.
L'esodo si calmò quando si seppe degli sbarchi in forma massiccia degli Alleati, e i tedeschi senza più rinforzi cominciarono a indietreggiare, con carri armati, armi e soldati verso Messina, per imbarcarsi e raggiungere le linee dove ancora si combatteva. La notte, anche da Mascalucia si sentivano i fragori paurosi dei loro massicci camion e dei carri
armati, e noi pregavamo il Signore di farli traghettare senza rischi per nessuno e ….. di non rivederli più. A volte mi alzavo per andare in cucina, a bere, e trovavo nonna Maria che pregava per i due figli che erano sotto le armi, e di cui aveva notizie molto raramente.
Poi, nel luglio del ’43, giunsero i “Liberatori”, acclamati da tutti con fiori e battimani: portavano finalmente la speranza di un po' di pace, e ci offrivano cibo, vestiario e biscotti.
I nostri genitori tornarono a lavorare in città, e a poco a poco ritornammo in città anche noi. Ci servimmo del nostro carrozzino e di un carretto! Noi ragazzi eravamo felici, cantavamo di gioia, scherzavamo, facevamo a gara per raccontare barzellette; a un certo punto, però, una barzelletta la vissero loro: il cavallo del carretto alzò la coda e..... riempì di sterco le gambe dei maschi che si erano seduti accanto al carrettiere.
Che tristezza la città! Vuoti i pochi negozi che erano in piedi, rare medicine, pane ancora razionato, inesistenti i nostri bellissimi dolci; la gente per le strade andava avanti come stranita, era una gioia grande incontrare un amico, una parente, salvi, erano salvi anche loro, grazie a Dio. Noi trovammo la casa salva, ma nel giardino c'erano ammucchiate grosse quantità di fucili abbandonati dai tedeschi.
Mio padre inorridì, e si accingeva ad andare dai carabinieri, ma gli autori di quella raccolta, avuto sentore del nostro ritorno, li fecero subito sparire. Dove?.... Accanto a noi la caserma nuova era adibita ad ospedale e vi giungevano i feriti tra quelli che combattevano a nord ancora; c'erano due sale adibite a sale operatorie, purtroppo erano sempre in funzione. Spesso venivano asportati arti, cioè braccia, gambe, piedi inservibili, e poi, in un forno nella stessa caserma questi arti venivano bruciati. Allora un orribile odore di carne bruciata ammorbava l'aria e noi ci otturavamo il naso, e nello tempo ci disperavamo per quei poveri soldati, nostri o nemici, Ma il nostro giardiniere ci rincuorava: “Ma se li operano vuol dire che sono vivi, e che possono salvarsi, e con una bella pensione per giunta.” Mio padre intanto era preoccupato perché si diceva che i soldati stranieri, se ubriachi, e lo erano spesso, andavano in cerca di donne, e se non ne trovavano in giro entravano nelle case private. Allora ordinò a mia madre di non farsi vedere mai di giorno, e neppure noi ragazze; dovevamo stare chiuse in casa fino a tarda sera. Solo allora uscivamo in terrazza. Mio fratello non doveva uscire di casa e farci la guardia. In caso di pericolo doveva chiamare lui che aveva lo studio poco lontano. Noi ubbidivamo, ma eravamo scettici.
E invece il pericolo si presentò: un soldato inglese convalescente, ubriaco, scavalcò il nostro muro, pare, in cerca di altro vino, non di donne. Mio fratello telefonò subito a papà.
Nella palazzina in cui egli lavorava c'era un appartamento requisito per residenza di alcuni ufficiali inglesi: uno di questi era molto cortese e gentile con gli italiani. Saputo da papà del soldato, egli subito avvertì la polizia inglese di turno, e lui e papà con la sua macchina vennero a casa. Già tutto era finito, il soldato era stato portato via. Papà non poté fare a meno di presentarci al salvatore, il “bellissimo” ufficiale inglese, il quale, accettò il Rosolio fatto in casa (il buon caffè era ancora un sogno) e si profuse in tanti complimenti per me e mia sorella e tutto finì lì.

MARGHERITA DI MATTIA SANTOCONO - Catania
 

 

 

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