La voce continua a incalzarmi: Fallo fuori! Dipende solo da te.
Mi alzo al mattino ancora intontito ed essa è sveglia da tempo,limpidissima:
Non far finta di niente. Non hai molto tempo.
Allora me ne vado al parco. Compro un cartoccio di noccioline e raggiungo la
gabbia delle scimmie, laggiù dove il verde si ferma sul muro di cinta col
traffico a grugnire dietro.
Compro anche un quotidiano che non leggo perché comincio subito a guardarmi
attorno. Non sono molti i nullafacenti che a quell'ora si siedono sulle
panchine. Alcuni le lucidano prima con un fazzoletto o depositano un pezzo
di carta sulle doghe di ferro se la pulizia è sospetta. Nel rado muoversi
delle persone frugo meglio, osservo abiti e cadenze e mi figuro le beghe
quotidiane, i fastidi, le acrimonie che
costellano le loro piccine esistenze.
La domenica, per lo più, intavolo un simulacro di conversazione con chi
capita, per lo più famigliole con bimbi che trovano divertente lo spettacolo
delle bestie chiuse in gabbia. Mi sono spesso domandato come siano finite
qui queste cinque scimmie, della specie forse più bella. Se ho guardato bene
sulla mia enciclopedia dovrebbero
chiamarsi guereza, come mi suggerisce il loro alluce a tubercolo e la
pelliccia sfumata.
E tuttavia non porterei un figlio davanti alla cattiveria di questa
segregazione, come non lo porterei allo zoo comunale dall'altra parte del
centro abitato.
Le scimmie non badano a noi se non il tempo di arraffare una banana o altri
generi commestibili, riprendendo a spidocchiarsi o a coccolarsi subito dopo.
Quando sollevano gli occhi, le fronde degli alberi si ritrovano nel loro
sguardo.
Ho bisogno di tenere occupata la mente per non lasciarmi sorprendere da
quell'imperativo che mi sconvolge : Muoviti, ho detto!
Mi agghiaccia il tono perentorio e violento con cui la voce mi incalza. Dopo
me ne resto afflosciato come un sacco che ha perso il carico, con un filo di
respiro, quasi sull'orlo di un collasso. Temo di perdere il confronto con
questa volontà estranea. Temo di trasformarmi in un suo strumento e di
compiere atti spaventosi. Non so fino a che punto ci si può fidare della
propria mente quando si lascia infettare da pensieri che sembrano venire da
fuori.
Di solito però sono abbastanza quieto da rivolgere un sorriso ad un bimbo:
Come sei carino, vai all'asilo?…per poi domandare ai più grandi: Davvero
complimenti, quanti anni ha?
È disarmante il bisogno che ha la gente di chiacchierare. Lo vedo da come si
aggrappano ai miei modi poco affabili e a quella specie di grugnito che mi
esce dalla bocca. Dopo un istante piagnucolano sul costo della vita, la baby
sitter, perché la moglie è costretta a lavorare.
Altro chiodo fisso è la suocera, che viene a far visita senza telefonare e
ficca il naso dove non dovrebbe e parla e straparla di come tratti la
figlia. Ma di che s'impiccia quella?
E poi l'assicurazione della macchina arrivata alle stelle, una riparazione
che costa uno sproposito. Naturalmente serve una casa più grande, ma come si
fa ad accollarsi un mutuo per trent'anni. Beato chi resiste per i prossimi
trent'anni!
A quel punto l'interlocutore si aspetta di essere contraddetto.
Suvvia, lei è così giovane…
Preferirei dire la verità: Basta, per carità, non mi interessa la sua
disfatta. Mi ha preso per il suo terapeuta?
Non lo faccio. Mi limito a non ascoltare più e mi tengo dentro il mio
disprezzo.
L'umanità non sa vivere. Spreca. Si impegola in questioni ridicole come se
fosse immortale, si logora giorno dopo giorno in uno stillicidio di gocce di
sangue, ecco perché non mi piace.
Ho provato a parlare con qualcuno, in realtà. L'altro giorno, un giovane,
che cambiava posizione di continuo, era concentrato su un testo di
filosofia, proprio sulla mia consueta panchina. Mi sedetti al suo fianco e
sbirciando mi accorsi che si occupava di Essere e tempo di Heidegger.
Caspita, ho mormorato.
All'università qualcuno aveva cercato di appioppare anche a me una lettura
così complicata, ma ne avevo fatto a meno. Avevo chiuso libro e libretto e
il mio corso di laurea era finito in quel punto.
Naturalmente ci stavo già pensando da un pezzo, ma è indubbio che quel testo
mi diede il colpo di grazia.
Nessuno più di lui, pensai, impegolato a riflettere sul significato
complessivo del nostro trovarci sulla schiena della terra, poteva discutere
le mie perplessità.
Gli dissi subito che spesso mi domandavo dove andassero con tanta fretta i
miliardi di formiche che si alzano la mattina e fanno esattamente i gesti
del giorno prima, accumulando giorni sovrapponibili. Domanda legittima,
pensai, se solo ci si guarda
intorno.
L'imbecille non mi degnò di una risposta e allora ripetei la medesima
osservazione e poi mi fermai a guardare i suoi capelli ad anelli che si
muovevano al vento, il collo fuori della maglia scura, finché girò la testa
verso di me ma la riportò di nuovo sulle pagine prima di dire infastidito:
Lei è matto, mi creda.
Quando cercai di ribattere, si alzò e si avviò verso l'uscita: Mi scusi, ma
proprio non capisce?
In realtà non dovrei disprezzare i miei simili perché fino a ieri mi sono
comportato alla stessa maniera. Procedevo a rotta di collo anch'io.
Avevo una famiglia anch'io. La mia aveva il sorriso a specchio di Gianna, la
sua voce squillante come gocce d'acqua.
Si muoveva con i suoi capelli indisciplinati nelle mie sicurezze, nel mio
orgoglio come se fosse una parte indistinguibile del mio corpo, della mia
presunta intangibilità.
Smise di ridere quando mi vide abbracciata a Nadia.
Era buio da un pezzo, a novembre. Mi ero trattenuto in ufficio perché avevo
fatto una promessa alla mia recente conquista, una collega appena trasferita
da un altro piano.
-Resta, stasera. Non te ne farò pentire.
Alle mie evasioni non concedevo spazi ampi, programmavo tutto con la
necessaria prudenza perché non valeva la pena rischiare il mio matrimonio,
quindi mai un bigliettino affettuoso, una telefonata, una camera d'albergo.
Gianna era al centro di tutti i centri, non aveva nulla a che fare con le
mie relazioni senza senso, messe in atto per superficialità, abitudine,
senza riflettere.
Quella sera Nadia era seduta sulla mia scrivania e aveva la gonna sollevata
in vita. Nel silenzio degli uffici vuoti avrei potuto avvertire il cigolio
dell'ascensore oltre il corridoio ma era già troppo eccitato per prestare
l'orecchio e così mi trovai negli occhi gli occhi di Lara diventati tanto
neri da invaderle la cornea, quasi parevano sul punto di sgusciare dalle
orbite.
Non disse nulla. Si portò una mano sulla bocca e indietreggiò scuotendo la
testa. Prima di girarsi sulla soglia e scomparire, si appoggiò a un tavolino
per non cadere.
Non tentai nemmeno di ricomporre lo squarcio.
Se Gianna lo avesse voluto avrei parlato a cuore aperto, le avrei chiesto
perdono, mi sarei gettato ai suoi piedi ed è sicuro che sarei diventato un
marito modello, ma non appena aprii la bocca Gianna mi fermò laconica:
Alt, non m'importa.
Quando ho smesso di leccarmi le ferite e di avere pietà di me, ho notato che
neanche gli altri si rendono conto che le crepe che noi stessi disegniamo
possono allargarsi tanto da inghiottire la nostra vita. La faciloneria e la
furia con cui ci si muove devastano il nostro tempo.
Nessuno che si fermi a considerare il miracolo dell'incastro di affetti,
salute, lavoro e tutto il resto che si sveglia con noi la mattina quando
mettiamo i piedi fuori dal letto. Esattamente come ho sempre fatto io.
Ho cominciato ad odiare gli esseri umani con la stessa intensità con cui
odio me stesso. Questa zoppa gente che mi accerchia, a parte i bimbi non
ancora contaminati, vorrei vederla morta. Per questo ho paura di commettere
una sciocchezza. Non trovo più un senso a stare qui, voglio morire e vorrei
farlo in maniera eclatante, portando con me qualcuno degli stupidi che mi
stanno intorno.
Ne basterebbe uno. |