VOCI

 

   Da LABIRINTI di Fortuna Della Porta

 

Vi presentiamo "VOCI", un altro racconto di Fortuna Della Porta (apprezzata poetessa e scrittrice, Fortuna è la moglie di Catello Califano, ex Comit).
Il pezzo è tratto dalla raccolta "Labirinti", che abbiamo già portato alla vostra attenzione nelle precedenti puntate delle News.

 

La voce continua a incalzarmi: Fallo fuori! Dipende solo da te.
Mi alzo al mattino ancora intontito ed essa è sveglia da tempo,limpidissima: Non far finta di niente. Non hai molto tempo.
Allora me ne vado al parco. Compro un cartoccio di noccioline e raggiungo la gabbia delle scimmie, laggiù dove il verde si ferma sul muro di cinta col traffico a grugnire dietro.
Compro anche un quotidiano che non leggo perché comincio subito a guardarmi attorno. Non sono molti i nullafacenti che a quell'ora si siedono sulle panchine. Alcuni le lucidano prima con un fazzoletto o depositano un pezzo di carta sulle doghe di ferro se la pulizia è sospetta. Nel rado muoversi delle persone frugo meglio, osservo abiti e cadenze e mi figuro le beghe quotidiane, i fastidi, le acrimonie che
costellano le loro piccine esistenze.
La domenica, per lo più, intavolo un simulacro di conversazione con chi capita, per lo più famigliole con bimbi che trovano divertente lo spettacolo delle bestie chiuse in gabbia. Mi sono spesso domandato come siano finite qui queste cinque scimmie, della specie forse più bella. Se ho guardato bene sulla mia enciclopedia dovrebbero
chiamarsi guereza, come mi suggerisce il loro alluce a tubercolo e la pelliccia sfumata.
E tuttavia non porterei un figlio davanti alla cattiveria di questa segregazione, come non lo porterei allo zoo comunale dall'altra parte del centro abitato.
Le scimmie non badano a noi se non il tempo di arraffare una banana o altri generi commestibili, riprendendo a spidocchiarsi o a coccolarsi subito dopo.
Quando sollevano gli occhi, le fronde degli alberi si ritrovano nel loro sguardo.
Ho bisogno di tenere occupata la mente per non lasciarmi sorprendere da quell'imperativo che mi sconvolge : Muoviti, ho detto!
Mi agghiaccia il tono perentorio e violento con cui la voce mi incalza. Dopo me ne resto afflosciato come un sacco che ha perso il carico, con un filo di respiro, quasi sull'orlo di un collasso. Temo di perdere il confronto con questa volontà estranea. Temo di trasformarmi in un suo strumento e di compiere atti spaventosi. Non so fino a che punto ci si può fidare della propria mente quando si lascia infettare da pensieri che sembrano venire da fuori.
Di solito però sono abbastanza quieto da rivolgere un sorriso ad un bimbo: Come sei carino, vai all'asilo?…per poi domandare ai più grandi: Davvero complimenti, quanti anni ha?
È disarmante il bisogno che ha la gente di chiacchierare. Lo vedo da come si aggrappano ai miei modi poco affabili e a quella specie di grugnito che mi esce dalla bocca. Dopo un istante piagnucolano sul costo della vita, la baby sitter, perché la moglie è costretta a lavorare.
Altro chiodo fisso è la suocera, che viene a far visita senza telefonare e ficca il naso dove non dovrebbe e parla e straparla di come tratti la figlia. Ma di che s'impiccia quella?
E poi l'assicurazione della macchina arrivata alle stelle, una riparazione che costa uno sproposito. Naturalmente serve una casa più grande, ma come si fa ad accollarsi un mutuo per trent'anni. Beato chi resiste per i prossimi trent'anni! 
A quel punto l'interlocutore si aspetta di essere contraddetto.
Suvvia, lei è così giovane…
Preferirei dire la verità: Basta, per carità, non mi interessa la sua disfatta. Mi ha preso per il suo terapeuta?
Non lo faccio. Mi limito a non ascoltare più e mi tengo dentro il mio disprezzo.
L'umanità non sa vivere. Spreca. Si impegola in questioni ridicole come se fosse immortale, si logora giorno dopo giorno in uno stillicidio di gocce di sangue, ecco perché non mi piace.
Ho provato a parlare con qualcuno, in realtà. L'altro giorno, un giovane, che cambiava posizione di continuo, era concentrato su un testo di filosofia, proprio sulla mia consueta panchina. Mi sedetti al suo fianco e sbirciando mi accorsi che si occupava di Essere e tempo di Heidegger.
Caspita, ho mormorato.
All'università qualcuno aveva cercato di appioppare anche a me una lettura così complicata, ma ne avevo fatto a meno. Avevo chiuso libro e libretto e il mio corso di laurea era finito in quel punto.
Naturalmente ci stavo già pensando da un pezzo, ma è indubbio che quel testo mi diede il colpo di grazia.
Nessuno più di lui, pensai, impegolato a riflettere sul significato complessivo del nostro trovarci sulla schiena della terra, poteva discutere le mie perplessità.
Gli dissi subito che spesso mi domandavo dove andassero con tanta fretta i miliardi di formiche che si alzano la mattina e fanno esattamente i gesti del giorno prima, accumulando giorni sovrapponibili. Domanda legittima, pensai, se solo ci si guarda
intorno.
L'imbecille non mi degnò di una risposta e allora ripetei la medesima osservazione e poi mi fermai a guardare i suoi capelli ad anelli che si muovevano al vento, il collo fuori della maglia scura, finché girò la testa verso di me ma la riportò di nuovo sulle pagine prima di dire infastidito:
Lei è matto, mi creda.
Quando cercai di ribattere, si alzò e si avviò verso l'uscita: Mi scusi, ma proprio non capisce?
In realtà non dovrei disprezzare i miei simili perché fino a ieri mi sono comportato alla stessa maniera. Procedevo a rotta di collo anch'io.
Avevo una famiglia anch'io. La mia aveva il sorriso a specchio di Gianna, la sua voce squillante come gocce d'acqua.
Si muoveva con i suoi capelli indisciplinati nelle mie sicurezze, nel mio orgoglio come se fosse una parte indistinguibile del mio corpo, della mia presunta intangibilità.
Smise di ridere quando mi vide abbracciata a Nadia.
Era buio da un pezzo, a novembre. Mi ero trattenuto in ufficio perché avevo fatto una promessa alla mia recente conquista, una collega appena trasferita da un altro piano.
-Resta, stasera. Non te ne farò pentire.
Alle mie evasioni non concedevo spazi ampi, programmavo tutto con la necessaria prudenza perché non valeva la pena rischiare il mio matrimonio, quindi mai un bigliettino affettuoso, una telefonata, una camera d'albergo.
Gianna era al centro di tutti i centri, non aveva nulla a che fare con le mie relazioni senza senso, messe in atto per superficialità, abitudine, senza riflettere.
Quella sera Nadia era seduta sulla mia scrivania e aveva la gonna sollevata in vita. Nel silenzio degli uffici vuoti avrei potuto avvertire il cigolio dell'ascensore oltre il corridoio ma era già troppo eccitato per prestare l'orecchio e così mi trovai negli occhi gli occhi di Lara diventati tanto neri da invaderle la cornea, quasi parevano sul punto di sgusciare dalle orbite.
Non disse nulla. Si portò una mano sulla bocca e indietreggiò scuotendo la testa. Prima di girarsi sulla soglia e scomparire, si appoggiò a un tavolino per non cadere.
Non tentai nemmeno di ricomporre lo squarcio.
Se Gianna lo avesse voluto avrei parlato a cuore aperto, le avrei chiesto perdono, mi sarei gettato ai suoi piedi ed è sicuro che sarei diventato un marito modello, ma non appena aprii la bocca Gianna mi fermò laconica:
Alt, non m'importa.
Quando ho smesso di leccarmi le ferite e di avere pietà di me, ho notato che neanche gli altri si rendono conto che le crepe che noi stessi disegniamo possono allargarsi tanto da inghiottire la nostra vita. La faciloneria e la furia con cui ci si muove devastano il nostro tempo.
Nessuno che si fermi a considerare il miracolo dell'incastro di affetti, salute, lavoro e tutto il resto che si sveglia con noi la mattina quando mettiamo i piedi fuori dal letto. Esattamente come ho sempre fatto io.
Ho cominciato ad odiare gli esseri umani con la stessa intensità con cui odio me stesso. Questa zoppa gente che mi accerchia, a parte i bimbi non ancora contaminati, vorrei vederla morta. Per questo ho paura di commettere una sciocchezza. Non trovo più un senso a stare qui, voglio morire e vorrei farlo in maniera eclatante, portando con me qualcuno degli stupidi che mi stanno intorno.
Ne basterebbe uno.


 

Piazza Scala - gennaio 2010