TEMPO ALTO SUI RICORDI
Racconto di Lella Rocchi Madoni - CAE Parma (dal Notiziario n.ro 67
(agosto 1976)
Una manciata di ricordi masticati nel tempo. Borgo S. Giuseppe... qui
sono nata, qui ho vissuto la mia infanzia.
Sono incerta, oggi, se fermarmi o meno... temo le mie reazioni, i miei
impulsi, i ritorni del tempo. A volte capita d'aver paura di un'ombra, a
volte ci si sente estranei a se stessi. Eppure voglio assaggiare ancora
un poco il sapore dell'antica spensieratezza, di cose irrimediabilmente
perdute. La mattina che accoglie i miei pensieri è uggiosa e gli alberi
che fiancheggiano il borgo gocciolano malinconia. Non proiettano ombre,
solo silenzi...
Allora gli alberi non c'erano, ma il mio borgo era verde, come verdi
erano gli orticelli che nel cortile dietro casa, io, mio fratello e gli
altri amichetti del quartiere, coltivavamo con tanta cura. Quando a
primavera spuntavano le prime pianticelle era una festa perché era la
vita che ogni anno si rinnovava. Poi, all'inizio dell'estate, ci
scambiavamo i prodotti delle coltivazioni: prezzemolo, radicchi,
insalata. Era un gesto meraviglioso ed antico che ci faceva amare la
terra e ci aiutava a sentirci amici.
Io e Mino, mio fratello, avevamo sempre avuto tanto amore per ogni
forma di vita, quasi inconsciamente capivamo che la vita è un mistero e
che il mistero è cosa sacra e che a tutto ciò che è sacro ci si deve
avvicinare con rispetto, devozione, amore.
Allora tutti i gatti randagi trovavano cibo e ospitalità nel nostro
cortile. Lillino invece morì e fu il primo grande dolore della mia vita.
Era un uccellino caduto dal nido. Io lo curai come meglio potevo
catturando anche insetti di vario genere, ma pigolò soltanto due giorni.
Tutti dicevano che Lillino era molto brutto, ma io sostenevo che un
giorno sarebbe diventato un magnifico uccellino a piume colorate. Il
brutto anatroccolo della fiaba della mamma quasi per magia, un giorno,
divenne cigno. Anche Lillino volò in cielo ricoperto di piume tutte
d'oro: il grande cielo sereno che sempre accoglie il cammino dell'uomo e
l'ansia di vita in tutte le sue forme.
Così mi ritrovai, ad un tratto, dinanzi alla mia casa, senz'altro più
curata di come era una volta, ma diversa, più fredda e opaca. Anche la
casa della Mariuccia è tutta cambiata. La Mariuccia era la bellona del
borgo, sembrava la controfigura di "Gilda "; credo che tutti gli uomini
del quartiere ne fossero segretamente innamorati. Quando, dopo la
Liberazione, tutti ballavano nelle vie e nei cortili, quasi impazziti di
felicità perché finita la guerra l'allegria è più allegra, la voglia di
vivere più sfrenata, la Mariuccia scendeva fatalissima in vestaglia
lunga, coi capelli color rame sciolti sulle spalle e ballava come se
volesse disegnare nell'aria frammenti di vita... e quanta se n'era
perduta durante la guerra!
Noi bambini ci divertivamo, invece, a rincorrere le lucciole, che
illuminavano a sprazzi le calde serate estive. Raramente mi riusciva di
catturarne qualcuna, mi sfuggivano sgusciando nel buio, irraggiungibili
come i bei sogni giovanili che spesso esistono finché li rincorri.
Anche la "casa dei misteri" non c'è più, sostituita da un'anonima
costruzione moderna. Era una casa di sassi, vecchia, un poco diroccata,
che esercitava un fascino irresistibile su tutti noi. Ci attirava e
nello stesso tempo ci impauriva con quei lunghi corridoi, stretti e
tanto bui: si diceva che durante i violenti temporali estivi i pavimenti
e le pareti tremassero come se fosse abitata da forze soprannaturali.
Allora correvamo in casa timorosi e, se il tuono brontolava in cielo,
era il diavolo che andava in carrozza.
Il portone di casa dell'Annamaria, di lato alla mia abitazione, è
aperto. Riconosco in quelle scale il nostro salotto di lettura.
Diventati più grandicelli, quando ormai il diavolo in carrozza non ci
spaventava più, passavamo interi pomeriggi a leggere i libri di Salgari,
i fumetti d'allora, identificandoci negli eroi protagonisti delle nostre
letture e abbandonandoci a carrellate fantasmagoriche in cui il mito si
perdeva nella realtà. Ma il tempo ha fretta e il passaggio dalla
fanciullezza, il periodo evanescente della vita, alla adolescenza fu
così rapido che ormai non me ne ricordo. So che improvvisamente le
esperienze che vivevo mi parvero insufficienti e lo sguardo cominciò a
spaziare, ansioso, oltre i confini del mio borgo e della mia città. Così
mi ritrovai a Firenze, in cui soggiornai per circa due anni. Fu
un'occasione interessante e quanto mai ricca. Ad ogni mio rientro gli
amici mi chiedevano di raccontare la vita di quella meravigliosa città,
sollecitavano le mìe impressioni sugli studenti di colore, miei compagni
di studi.
Rispondevo che erano ragazzi come noi, che soffrivano e piangevano come
noi, avevano soltanto la pelle più scura o gli occhi più tirati. Erano,
quelli, gli anni della crisi di Suez; ricordo con quanta apprensione gli
studenti egiziani ascoltavano la radio per avere notizie.
Il tempo è ormai alto sui ricordi: uno stropiccio di passi mi riporta,
scuotendomi, alla verità della mia dimensione umana. La chiesa è lì,
gelida, anche se il riscaldamento funziona; poi non sento più il freddo
che prima mi penetrava nelle ossa, dimentico tutto, ascolto solo lui,
Don Dagnino, "al pret di povrett". Lo sento che è un uomo superiore non
perché è prete, ma perché è un uomo che vive da uomo del suo tempo. Sono
passati tanti anni dall'ultima volta che lo vidi, ma è sempre uguale:
lo stesso sguardo, le stesse rughe forse più profonde, una forza sempre
più vigorosa, solo le spalle si sono fatte più pesanti: capita così
quando si vive addossandosi gli altri. È un uomo che pur condannando la
violenza ha scelto una lotta di amore e di denuncia, costi quel che
costi, pronto a pagare in proprio. Certo è una persona scomoda per chi
non ama la verità, per chi non vuole la verità. La sua parola mi induce
a pensare, a ripiegarmi su me stessa, a riflettere: i ricordi cedono il
posto agli ideali, a quelle aspirazioni a cui un giorno rinunciai, ma
che tuttavia premono sulla soglia della mia coscienza, pronti a
riemergere, anche se a volte preferirei il silenzio. Il silenzio per
mascherare la rabbia di un tradimento, perché ad un certo momento della
mia vita ho dimenticato tutto e non mi sento realizzata come avrei
voluto o potuto. Le attenuanti sono sempre all'erta per giustificare
cose non fatte, evoluzioni troncate a metà.
Parla tuonando, Don Dagnino, ma ormai non lo sento più. Vorrei, in
silenzio, poter piegare la testa e credere che tutto, anche se non
voluto, ha un senso: il senso, antico e nuovo, del mio borgo.