Piazza Scala News  aprile 2009

TEMPO ALTO SUI RICORDI
Racconto di Lella Rocchi Madoni - CAE Parma (dal Notiziario n.ro 67 (agosto 1976)

Una manciata di ricordi masticati nel tempo. Borgo S. Giuseppe... qui sono nata, qui ho vissuto la mia infanzia.
Sono incerta, oggi, se fermarmi o meno... temo le mie reazioni, i miei impulsi, i ritorni del tempo. A volte capita d'aver paura di un'ombra, a volte ci si sente estranei a se stessi. Eppure voglio assaggiare ancora un poco il sapore dell'antica spensieratezza, di cose irrimediabilmente perdute. La mattina che accoglie i miei pensieri è uggiosa e gli alberi che fiancheggiano il borgo gocciolano malinconia. Non proiettano ombre, solo silenzi...
Allora gli alberi non c'erano, ma il mio borgo era verde, come verdi erano gli orticelli che nel cortile dietro casa, io, mio fratello e gli altri amichetti del quartiere, coltivavamo con tanta cura. Quando a primavera spuntavano le prime pianticelle era una festa perché era la vita che ogni anno si rinnovava. Poi, all'inizio dell'estate, ci scambia­vamo i prodotti delle coltivazioni: prezzemolo, radicchi, insalata. Era un gesto meraviglioso ed antico che ci faceva amare la terra e ci aiutava a sentirci amici.
Io  e Mino, mio fratello, avevamo sempre avuto tanto amore per ogni forma di vita, quasi inconsciamente capivamo che la vita è un mistero e che il mistero è cosa sacra e che a tutto ciò che è sacro ci si deve avvicinare con rispetto, devozione, amore.
Allora tutti i gatti randagi trovavano cibo e ospitalità nel nostro cortile. Lillino invece morì e fu il primo grande dolore della mia vita. Era un uccellino caduto dal nido. Io lo curai come meglio potevo catturando anche insetti di vario genere, ma pigolò soltanto due giorni.
Tutti dicevano che Lillino era molto brutto, ma io sostenevo che un giorno sarebbe diventato un magnifico uccellino a piume colorate. Il brutto anatroccolo della fiaba della mamma quasi per magia, un giorno, divenne cigno. Anche Lillino volò in cielo ricoperto di piume tutte d'oro: il grande cielo sereno che sempre accoglie il cammino dell'uomo e l'ansia di vita in tutte le sue forme.
Così mi ritrovai, ad un tratto, dinanzi alla mia casa, senz'altro più curata di come era una volta, ma diversa, più fredda e opaca. Anche la casa della Mariuccia è tutta cambiata. La Mariuccia era la bellona del borgo, sembrava la controfigura di "Gilda "; credo che tutti gli uomini del quartiere ne fossero segretamente innamorati. Quando, dopo la Liberazione, tutti ballavano nelle vie e nei cortili, quasi impazziti di felicità perché finita la guerra l'alle­gria è più allegra, la voglia di vivere più sfrenata, la Mariuccia scendeva fatalissima in vestaglia lunga, coi capelli color rame sciolti sulle spalle e ballava come se volesse disegnare nell'aria frammenti di vita... e quanta se n'era perduta durante la guerra!
Noi bambini ci divertivamo, invece, a rincorrere le lucciole, che illuminavano a sprazzi le calde serate estive. Raramente mi riusciva di catturarne qualcuna, mi sfuggivano sgusciando nel buio, irraggiungibili come i bei sogni giovanili che spesso esistono finché li rincorri.
Anche la "casa dei misteri" non c'è più, sostituita da un'anonima costruzione moderna. Era una casa di sassi, vecchia, un poco diroccata, che esercitava un fascino irresistibile su tutti noi. Ci attirava e nello stesso tempo ci impauriva con quei lunghi corridoi, stretti e tanto bui: si diceva che durante i violenti temporali estivi i pavimenti e le pareti tremassero come se fosse abitata da forze soprannaturali. Allora correvamo in casa timorosi e, se il tuono brontolava in cielo, era il diavolo che andava in carrozza.
Il portone di casa dell'Annamaria, di lato alla mia abitazione, è aperto. Riconosco in quelle scale il nostro salotto di lettura. Diventati più grandicelli, quando ormai il diavolo in carrozza non ci spaventava più, passavamo interi pomeriggi a leggere i libri di Salgari, i fumetti d'allora, identificandoci negli eroi protagonisti delle nostre letture e abbandonandoci a carrellate fantasmagoriche in cui il mito si perdeva nella realtà. Ma il tempo ha fretta e il passaggio dalla fanciullezza, il periodo evanescente della vita, alla adolescenza fu così rapido che ormai non me ne ricordo. So che improvvisamente le esperienze che vivevo mi parvero insufficienti e lo sguardo cominciò a spaziare, ansioso, oltre i confini del mio borgo e della mia città. Così mi ritrovai a Firenze, in cui soggiornai per circa due anni. Fu un'occasione interessante e quanto mai ricca. Ad ogni mio rientro gli amici mi chiedevano di raccontare la vita di quella meravigliosa città, sollecitavano le mìe impressioni sugli studenti di colore, miei compagni di studi.
Rispondevo che erano ragazzi come noi, che soffrivano e piangevano come noi, avevano soltanto la pelle più scura o gli occhi più tirati. Erano, quelli, gli anni della crisi di Suez; ricordo con quanta apprensione gli studenti egiziani ascoltavano la radio per avere notizie.
Il tempo è ormai alto sui ricordi: uno stropiccio di passi mi riporta, scuotendomi, alla verità della mia dimensione umana. La chiesa è lì, gelida, anche se il riscaldamento funziona; poi non sento più il freddo che prima mi penetrava nelle ossa, dimentico tutto, ascolto solo lui, Don Dagnino, "al pret di povrett". Lo sento che è un uomo superiore non perché è prete, ma perché è un uomo che vive da uomo del suo tempo. Sono passati tanti anni dall'ul­tima volta che lo vidi, ma è sempre uguale: lo stesso sguardo, le stesse rughe forse più profonde, una forza sempre più vigorosa, solo le spalle si sono fatte più pesanti: capita così quando si vive addossandosi gli altri. È un uomo che pur condannando la violenza ha scelto una lotta di amore e di denuncia, costi quel che costi, pronto a pagare in proprio. Certo è una persona scomoda per chi non ama la verità, per chi non vuole la verità. La sua parola mi induce a pensare, a ripiegarmi su me stessa, a riflettere: i ricordi cedono il posto agli ideali, a quelle aspirazioni a cui un giorno rinunciai, ma che tuttavia premono sulla soglia della mia coscienza, pronti a riemergere, anche se a volte preferirei il silenzio. Il silenzio per mascherare la rabbia di un tradimento, perché ad un certo momento della mia vita ho dimenticato tutto e non mi sento realizzata come avrei voluto o potuto. Le attenuanti sono sempre all'erta per giustificare cose non fatte, evoluzioni troncate a metà.
Parla tuonando, Don Dagnino, ma ormai non lo sento più. Vorrei, in silenzio, poter piegare la testa e credere che tutto, anche se non voluto, ha un senso: il senso, antico e nuovo, del mio borgo.