Piazza Scala

 

 

Sono passati più di sessant’anni dall’inizio della vertenza arabo-israeliana in Palestina e dai primi  conflitti armati che hanno coinvolto i paesi mediorientali limitrofi, mettendo in subbuglio tutta quell’area strategicamente molto importante per la presenza delle maggiori riserve mondiali di petrolio.

Dopo la decisione dell’ONU del 1948 di creare lo Stato d’Israele in una parte di quei territori, allora amministrati come mandataria dalla Gran Bretagna, scoppiò la prima guerra arabo-israeliana che consentì a Israele di allargare una prima volta i suoi confini in terra palestinese e quella successiva del 1967 che estese ulteriormente i confini inglobando anche la città di Gerusalemme, santa per le tre religioni monoteistiche, quella terra non ebbe più pace anche perché i milioni di profughi palestinesi estromessi o fuggiti dal loro paese vissero da allora in campi o in condizioni abitative precarie nei paesi vicini, Giordania, Libano, Yemen, Egitto.

Ai tempi di Clinton e di Arafat fu firmato un compromesso precario, mai riconosciuto da forti minoranze palestinesi come l’organizzazione Hamas, col quale veniva assegnata ai palestinesi una striscia di territorio a Gaza, circa 365 chilometri quadrati (più o meno l’estensione di un comune medio-piccolo italiano) dove si ammassarono circa un milione e mezzo di abitanti. Terra poverissima, priva di risorse e staccata da un’altra parte della Palestina amministrata dall’O.L.P. firmataria del compromesso, non riconosciuta, peraltro, come stato sovrano.

Ho fatto questa premessa perché non vanno dimenticate le origini e le cause prime della situazione esplosiva che va trascinandosi da decenni per la quale non è in vista alcuna soluzione. Due popoli si contendono lo stesso territorio, due religioni, due sistemi di governo, due culture, reciproche recriminazioni sul passato recente e perfino su quello remoto.

Hamas, che governa dopo elezioni la striscia di Gaza, date le condizioni più che precarie della sua popolazione e il blocco marittimo e terrestre delle forze armate israeliane, non cessa di provocarle lanciando missili sui villaggi israeliani riuscendo addirittura a raggiungere, con alcuni di essi, la stessa Tel Aviv. Ovviamente, Israele risponde bombardando gli agglomerati urbani nella striscia, provocando quotidianamente molti morti, anche donne e bambini e, nel momento in cui scrivo queste righe, potrebbe accingersi ad invadere il territorio in questione con forze di terra in caso di fallimento della mediazione egiziana in corso per un cessate il fuoco.

E’ del tutto evidente in ogni caso l’impasse al quale si è giunti e l’interesse che questa spinosa situazione riveste per il mondo occidentale anche perché negli ultimi due anni è del tutto cambiata la geografia politica di molti paesi dell’area, Tunisia, Libia, Egitto, l’instabilità del Libano, la guerra civile in Siria, la minaccia iraniana e forse altro ancora.

Israele si fa forte dell’appoggio, finora incondizionato, dei governi americani, fortemente condizionati dalle lobbies ebraiche, afferma il suo diritto a difendersi e a difendere i confini acquisiti in buona parte con la forza delle armi, e non intende rimetterli in discussione. E’ soltanto disposto a riconoscere uno stato palestinese indipendente, entro gli attuali confini, in cambio di un trattato definitivo che garantisca la sua sicurezza futura, riconosciuto dall’ONU e garantito dalle potenze occidentali. Attualmente, perfino il riconoscimento dell’Autorità palestinese come semplice osservatore all’ONU è fortemente contestata da Israele e non accettata dagli Stati Uniti.

E’ ormai chiaro che a questo punto non è realistico per i palestinesi chiedere, come fanno ancora alcune frange oltranziste, come ad esempio la classe al potere in Iran, la distruzione dello Stato  d’Israele o, almeno, il ritorno ai confini prebellici del 1948, come non è praticamente possibile ottenere da Israele l’abbandono integrale delle conquiste del 1967. Del resto, anche la forzata ripartizione attuale non ha alcun senso ed è profondamente ingiusta perché costringe gli arabo-palestinesi in territori ristretti, privi di risorse, separati fra loro, senza un riferimento storico e religioso rappresentato in particolare da Gerusalemme o da quella parte della città che l’ONU aveva loro assegnata. Non è neppure possibile dimenticare del tutto la sorte dei milioni di profughi che vivono al di fuori dei confini israeliani e palestinesi, in condizioni precarie e mal tollerati dai paesi che li ospitano da decenni.

 Evidentemente, lo statu-quo favorisce Israele e spinge inesorabilmente i palestinesi, o almeno il partito militante, come Hamas e alcune frange dell’O.L.P., a tenere viva la guerriglia e lo stato di tensione nella speranza di indurre quella parte del popolo d’Israele, minoritaria ma influente, a premere sul governo Netanyjahu, dominato dai falchi del partito Likud e dei movimenti religiosi fondamentalisti, perché accetti un compromesso accettabile dalla parte più moderata dei palestinesi stanca di guerre, di morte e di miseria.

Un compromesso sarà possibile se gli Stati Uniti e l’Europa faranno intendere a Israele con forza che la pace e la convivenza fra i due popoli sono anche nel suo interesse. La sopravvivenza di Israele non è più da tempo in discussione.  Fino a quel momento qualunque soluzione, qualunque tregua non potranno che essere temporanei.

 

Giacomo Morandi
24 novembre 2012

 

                                                                                 

 

 

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Piazza Scala - dicembre 2012