UN VIAGGIO ANNI ‘60
Voglio raccontare,
un po’ più in dettaglio di quanto ho fatto in
uno dei miei libri di memorie, un viaggio
effettuato in un mese di luglio dei tardi anni
60 (non ricordo esattamente l’anno, ma doveva
essere il 1967 o il 1968) con la mia famiglia ed
un collega con la moglie (si trattava, per la
precisione, di un mio ex superiore, pensionato
proprio in quell’anno, di nome Savio Gambetta).
Gambetta portava la responsabilità di avermi
convinto a comprare una roulotte e a lanciarmi
nell’esperienza, poi rivelatasi felice, del
campeggio. Lui stesso era passato un paio d’anni
prima dalla tenda alla roulotte.
Teresa, mia moglie, si era giustamente opposta
all’idea d’iniziare pure noi con la tenda, dato
che avevamo tre bambine ed un bel cane da
caccia, un
setter di nome Tom. Effettivamente, sarebbe
stato troppo faticoso.
Inizialmente avevamo comprato, a rate, una
Roller di 3 metri e 80, provvista di toilette,
cucinino, un letto matrimoniali e due cuccette,
ma quell’anno l’avevamo cambiata con una Elnagh
un po’ più grande, più adatta ad ospitare una
famiglia di due adulti e tre bambini. Inoltre
avevamo anche cambiato l’automobile. La nuova
macchina era una Renault 16 di 1400 cc di
cilindrata, adeguata al traino della nostra
roulotte. Quest’ultima era un vero gioiello.
Cucinino con frigo a gas, toilette arredata,
cameretta con separè a soffietto su un lato ed
altro letto matrimoniale sull’altro lato, con
cuccetta sovrastante. Durante il giorno, questo
lato della roulotte si trasformava in una comoda
dinette. Avevamo anche un’efficiente stufetta a
gas che ci permetteva di affrontare anche le
basse temperature delle mezze stagioni. Quando
parcheggiavamo la nostra casetta per periodi un
po’ lunghi, disponevamo anche di una tenda
veranda esterna, arredata con cucinino e
soggiorno.
Gambetta non era mai uscito dall’Italia. Non
aveva figli e le sue vacanze le passava sempre
in qualche campeggio dell’Italia meridionale o
sulle Alpi. Gli proposi di venire con me in
Yugoslavia, dove io ero già stato nei due anni
precedenti, sia pure soltanto nel nord del
paese, in Istria e su un’isola a sud di Fiume.
Preparai io l’itinerario e lui, un po’
riluttante anche perché si trattava di visitare
un paese comunista (Gambetta conservava qualche
nostalgia del ventennio) lo approvò.
Partimmo un sabato mattina, molto presto. Non
c’erano praticamente autostrade, nemmeno in
Italia, ma il traffico, a quei tempi, era ancora
molto limitato. Via Venezia e Trieste, con il
nostro carico viaggiando a non più di 80-90 km
all’ora ed una media di 60 kmh, passammo il
confine e ci dirigemmo verso Fiume (Rijeka in
serbo-croato). Prendemmo poi per la cosiddetta
Magistrala Adriatica, una specie di superstrada
a corsia unica che costeggiava il mare Adriatico
fino a raggiungere, all’estremo sud, il confine
albanese.
La prima sera parcheggiammo liberamente su un
largo spiazzo in riva al mare e, mentre le
nostre mogli si organizzavano per la cena e per
la notte, sfoderammo le nostre canne da pesca e
ci procurammo, in poco più di un’ora, pesci e
pescetti di ogni tipo, abbastanza per le nostre
padelle di quella sera. Incredibile come
abboccassero facilmente quei pesci. In un
piccolo paese a poca distanza ci eravamo
procurati un paio di bottiglie di Muscadet, un
buon vino liquoroso del posto.
Riprendemmo il viaggio la mattina dopo, di
buon’ora. Non avevo previsto una destinazione
precisa. Portavo con me, fra le altre, una guida
dei campeggi attrezzati di tutta la costa
adriatica e dell’interno. L’idea era di trovare
un posto sul mare e sostare lì per almeno una
settimana, poi esplorare la costa,
le
isole e l’interno montagnoso. Dalle parti di
Spalato trovammo un bel campeggio, digradante a
terrazze sul mare, attrezzato modernamente,
troppo per le idee che avevamo per il nostro
viaggio. Avevamo in mente, infatti, di fare
campeggio in modo un po’ diverso da come eravamo
abituati in Italia, più selvaggio, più
primitivo. Così avevamo appreso da conoscenti
che si erano già avventurati su quelle coste.
Ci fermammo tre o quattro giorni. L’acqua del
mare era favolosa ed il clima fantastico. Il
terzo giorno, lasciate nel campeggio le
roulotte, ci spingemmo in esplorazione più a
sud, dopo Dubrovnik (la vecchia Ragusa dei
veneziani) e scoprimmo una piccola baia alla
quale si accedeva per una stradaccia a picco sul
mare, sulla cui riva c’era un rudimentale
campeggio. Un solo servizio, una fontana d’acqua
dolce azionata da una pompa a mano, ma
c’innamorammo del posto che si chiamava
Prapratno. L’acqua del mare era cristallina, di
colore blu e verde. Ad una cinquantina di metri
dalla riva sgorgavano dal fondo del mare alcune
sorgenti d’acqua dolce che si poteva bere
nuotando.
La mattina dopo attaccammo le roulotte alle
macchine e partimmo per la nuova destinazione,
pensando alla difficoltà di far scendere le
roulotte per quella stradaccia. Qualche manovra,
qualche problema nelle curve strette della
strada, con le ruote che rasentavano il burrone,
dopo aver fatto scendere tutte le nostre
passeggere ed arrivammo al campeggio, se così
vogliamo definirlo.
Fraternizzammo subito con i pochi presenti,
gente avventurosa come noi. Tedeschi, olandesi,
belgi e per una decina di giorni ci godemmo
quella vita un po’ primitiva. Io e Savio, che
possedeva un canotto a motore, pescavamo quasi
ogni giorno e procuravamo il pranzo. In una
piccola cascina sulla montagna sovrastante la
baia alcuni contadini ci vendevano prosciutto
affettato a mano, formaggelle di pecora e pane
casalingo, oltre a qualche bottiglione di vino
aspro locale.
Dopo una decina di giorni Gambetta mi comunicò
che desiderava completare le vacanze in Italia e
partì per Spalato dove s’imbarcò sul traghetto
per Ancona. Era stufo di vita selvaggia e
sognava le spiagge e le comodità italiane e la
cucina di casa nostra.
Teresa ed io avevamo invece il desiderio di
visitare l’interno, volevamo proseguire nella
nostra avventura e non ci scandalizzavamo di
essere in un paese “comunista”. Del resto, da
ciò che avevamo visto e sentito fino a quel
momento, non ci sembrava affatto che la gente
fosse oppressa.
Parlavano liberamente contro Tito ed il suo
regime. Ricordo il farmacista di un paese vicino
che mi disse di andare sempre a messa la
domenica nonostante non fosse credente “per fare
un dispetto ai comunisti”. C’era più povertà che
da noi, meno automobili in giro, ma si aveva
l’impressione che la gente apprezzasse anche i
progressi che il paese aveva fatto dalla fine
della guerra ed anche da prima. S’incontravano
anche italiani che avevano deciso di rimanere ed
anche loro, pur mugugnando, sopravvivevano ed
andavano d’accordo con i locali, croati,
bosniaci, serbi, montenegrini.
Dopo un paio di giorni anche noi smontammo le
nostre attrezzature e partimmo verso l’interno,
risalendo dal mare la valle della Neretva, un
grande fiume che scende dalle alte montagne
della Bosnia-Erzegovina. Qualche giorno prima
eravamo saliti, dalle Bocche di Cattaro, fino a
Cettigne, la vecchia capitale del Montenegro,
fra le montagne, ed avevamo visitato la reggia
che era stata dei Petrovic e di Elena, sposata
nel 1896 al futuro re d’Italia Vittorio Emanuele
III.
La prima città che visitammo fu Mostar,
capoluogo dell’Erzegovina, in seguito quasi
completamente distrutta dai croati nel corso
della guerra balcanica degli anni ’90. Lungo la
strada fra Mostar e Serajevo, verso mezzogiorno,
avvistai un kiosko e, su un lato, tre grossi
spiedi alimentati da un fuoco a legna. Sugli
spiedi cuocevano tre montoni che riempivano
l’aria circostante di un profumino d’arrosto che
quasi mi fece svenire. La particolarità degli
spiedi era che la forza motrice che li faceva
girare era rappresentata da una cascata d’acqua
che scendeva dalla montagna. Naturalmente
azionai i freni e quasi bloccai il traffico per
raggiungere il piccolo parcheggio adiacente al
kiosco. Non descriverò l’abbuffata di carne
arrostita, a buon mercato, che ne seguì.
Prima di sera raggiungemmo Serajevo e
parcheggiammo in un moderno campeggio in
periferia. Visitammo la bella città multietnica,
con numerose vestigia ottomane e belle moschee.
Io, la seconda mattina, seguendo le indicazioni
del gestore del campeggio, mi spinsi in una
valle distante una trentina di chilometri per
pescare il salmone. Ricordo un bellissimo fiume
circondato da boschi e campi coltivati nei quali
lavoravano contadini e contadine nei loro
costumi bianchi tradizionali. In alto, un paio
di minareti si stagliavano sulle colline,
circondati da piccole case in pietra. L’acqua,
limpidissima, scorreva lenta formando piccoli
gorghi, nel grande silenzio della campagna. I
contadini cantavano melodie strane e tristi ed
azionavano con perizia larghi rastrelli per la
raccolta del fieno, nei campi digradanti dalle
colline verso il fiume. Catturai alcune trote ed
un bel salmone. Ben presto fui circondato da
quattro o cinque ragazzini, incuriositi dalla
mia attrezzatura di pesca. Uno di loro cavò di
tasca un libriccino scritto in serbo-croato sul
quale erano illustrati i diversi tipi di pesce
presenti nelle acque del fiume, con i loro nomi
latini e mi fecero capire quali esemplari avrei
dovuto rimettere in acqua perché soggetti a
restrizioni o divieti. A mezzogiorno rientrai al
campeggio e Teresa cucinò il salmone, con gran
festa delle mie tre bambine.
Oggi
non riesco a ricordare la Serajevo di allora
senza pensare alle distruzioni della guerra che
seguì circa trent’anni dopo, ai morti innocenti,
agli odi scatenati fra le diverse etnie, di cui,
al tempo del mio viaggio, non c’era sentore.
Dopo una permanenza di tre giorni, una mattina
partimmo per Srebrenica, un’altra bella città
antica, situata alla confluenza di tre fiumi in
pieno centro città. Durante la guerra degli anni
’90, come noto, la città fu teatro di una delle
più crudeli pulizie etniche da parte dei serbi
di Mladic, una strage premeditata per la quale
il generale serbo è stato dichiarato criminale
di guerra e recentemente arrestato.
Il nostro viaggio continuò verso Zagabria,
attraverso paesi e verdi colline, fino
all’imbrunire, quando ci fermammo in un
campeggio alle porte della città, cenammo nella
nostra roulotte e pernottammo, un po’ stanchi ma
felici per la bella avventura. Il mio piano
prevedeva di visitare rapidamente Zagabria, che
peraltro io già conoscevo. Sostammo in un
campeggio fuori città e, con la macchina,
raggiungemmo il centro per una panoramica veloce
ed una cena frugale in un localino tipico (e
piuttosto economico). La prima volta ero stato a
Zagabria in occasione di una gita della banca
per la quale lavoravo, organizzata da me stesso
nella mia doppia qualità di responsabile della
Commissione Interna aziendale e di console del
Touring Club. Fu anche l’occasione per tutti i
colleghi di assistere ad uno spogliarello in un
night club sulla piazza centrale della città,
spettacolo che allora, in Italia, non era ancora
disponibile.
La nostra prossima meta era Postumia con le sue
celebri grotte che pure io avevo già visitato un
paio di volte. Il tour delle grotte occupò quasi
un’intera giornata, ma riuscimmo a ripartire nel
tardo pomeriggio ed a raggiungere l’Italia ed un
bel campeggio sulle colline che sovrastano
Trieste, sul Carso, prima di notte.
A Trieste avevo un cugino, Segretario Generale
della Provincia. Gli telefonai e lui arrivò al
campeggio in un paio d’ore, ma volle
rimorchiarci a casa sua, in collina e poi ci
invitò in un famoso ristorante di Piazza
dell’Unità.
Era ormai giunto il tempo di ritornare a casa.
Il periodo di ferie volgeva al termine. Decisi
di trascurare le strade principali e prendere
invece per le provinciali e le strade
secondarie. Partimmo di mattina e, macinando
chilometri a velocità costante, arrivammo a
Piacenza la stessa sera, stanchi ma felici per
la bella avventura che non abbiamo più
dimenticato.
Giacomo Morandi - aprile 2009