Lorenzo Milanesi ha pubblicato presso www.rubbettino.it:

  • “CARMELA CUDA – Viaggio d’amore”, con la presentazione di Gaetano Afeltra (recupero della memoria dell’infanzia  e dell’adolescenza)

  • "TIRAMISU’ ossia l’incontenibile desiderio” (tentativo di scandagliare e inquadrare taluni comportamenti umani  tendenti a compensare percepite carenze di varia natura)                                

inoltre ha curato la scelta dei testi, la traduzione, la presentazione e la pubblicazione di:

  • Montaigne : “DELLA SAGGEZZA” ( dai SAGGI)

  • Montaigne : “SOCRATE A CAVALLO” (dal VIAGGIO IN ITALIA)

presso il medesimo editore 

 

 

 

Oggigiorno i media non fanno che parlare dell’olio extra vergine d’oliva, i medici ne raccomandano l’uso per proteggere le coronarie, i cuochi lo sponsorizzano con convinzione e le massaie ne usano per le loro prelibate pietanze. Ma quanti, nati e cresciuti nelle città, conoscono le modalità di ottenimento di questo prezioso condimento?. E quanti, pur conoscendole, hanno avuto l’opportunità di ammirare un vecchio frantoio?. Come al solito, quando si evocano attività antiche, la mente corre alle indescrivibili fatiche dell’uomo. Solo grazie a queste egli ha potuto raggiungere traguardi prestigiosi e porre le basi per ulteriori sviluppi. Il frantoio , insieme al mulino che gli assomiglia, si colloca fra le realizzazioni più utili, da moltissimi secoli a questa parte, nel bacino del mediterraneo dove la pianta dell’ulivo è diffusissima e l’estrazione e la commercializzazione dell’olio hanno sempre rappresentato una fonte non secondaria di sviluppo economico. Prima però di descrivere il frantoio com’era in passato, occorre riferire dei metodi di coltivazione della pianta e della raccolta del frutto così come avvenivano, tanto per citare una zona particolarmente ricca di uliveti, nella punta estrema della nostra penisola, collocata nel cuore del mediterraneo, dove questa pianta secolare raggiunge dimensioni inusitate. Tali metodi differivano notevolmente da quelli praticati in altre zone, a motivo, appunto, dello sviluppo in altezza delle piante. La struttura del frantoio, invece, non presentava diversità di rilievo fra zona e zona.                 

  La pianta. Com’è coltivata da quelle parti, non ha somiglianza con altre: il tronco è grigio e arido, contorto nelle forme più bizzarre, non di rado spaccato e cavo; l’altezza mediamente elevata, in non pochi casi smisurata, fino a conferire alla singola o all’insieme di esse un aspetto a dir poco superbo. La chioma ha un fogliame verde/grigio che al sole si inargenta. Tra le foglioline coriacee e lanceolate nascono le olive, dapprima piccole e chiare, poi più grosse e di un bel verde cupo e alla fine violacee e nerastre. Essa ha bisogno di cure e quindi ciclicamente viene concimata alla base e sfoltita nelle chiome. Il frutto può essere colpito dalla terribile mosca olearia che ha la forza di distruggere interi raccolti. Per scongiurarla si praticano metodi di spargimento di particolari ritrovati chimici. Fiorisce verso Maggio/Giugno e matura le prime olive da Novembre fino a Marzo. Pur fruttificando ogni anno, produce la maggiore quantità di olive ad anni alterni.

 La raccolta delle olive. I metodi attuali prevedono l’impiego di enormi estensioni di reti, ancorate alle piante o affrancate ad esse con altri sistemi, dentro le quali si raccolgono o si fanno cadere le olive mature mediante scuotimento dei rami con mezzi meccanici. Un tempo non era così. La raccolta era affidata unicamente alle donne/raccoglitrici. A gruppi, si mettevano in cammino di buon’ora per essere sul posto alle prime luci dell’alba. Ognuna recava con sé un’adeguata quantità di sacchi, un recipiente con acqua e un paniere o un sacchetto personale che, munito di cordicella, veniva assicurato alla  vita. Le olive dovevano essere raccolte una per una e, per di più, su terreni non sempre sgombri dalle erbe e non di rado fangosi. La fatica, come si può intuire, era logorante per la posizione ricurva e per il peso del sacchetto o del paniere che via via cresceva di peso. Una volta pieni, essi erano rovesciati nei sacchi che, a una cert’ora della giornata, venivano caricati sui muli o sugli asini (che erano i mezzi più idonei per superare le asperità del tragitto) e portati al frantoio per la macinazione.

Il frantoio. Prima dell’elettricità, la forza motrice era assicurata dall’acqua. Il frantoio, perciò, era costruito nelle adiacenze di un corso d’acqua, al quale si attingeva per canalizzare la quantità di volta in volta necessaria a muovere una grossa ruota a vaschette fissata alla parete esterna del frantoio. Il flusso d’acqua e, di riflesso, la velocità di rotazione, erano regolati a mano dall’interno agendo su un sistema di leve ancorato al tratto finale della bocca di caduta dell’acqua. Il movimento della ruota era trasmesso, attraverso un ingegnoso sistema ligneo di ruote dentate e a pioli, rinforzate  - nei punti di maggiore sollecitazione e sforzo - da robuste fasce metalliche, alle due grosse ruote di macina in pietra collocate all’interno d’un invaso circolare, che provvedevano così alla frantumazione delle olive fino all’ottenimento dell’ impasto per la successiva fase di spremitura. Personale esperto riempiva con questo impasto le sporte (grossi dischi di circa 70 cm. di diametro, costruiti a mano con lunghe lamelle di giovani alberi di castagno, munite di piccole aperture su ogni ‘faccia’ )  e le collocava ‘a castello’ nella base della pressa. Le presse in genere erano due e formavano il “ sistema di spremitura” che era costituito da due grosse ‘viti senza fine’ in legno, recanti in basso una placca pure in legno di diametro poco superiore a quello delle sporte, retta lateralmente da grossi sostegni verticali lungo i quali tale placca scorreva. Un palo in legno di ca. 3 mt. e di diametro adeguato, legato con una grossa corda ad un argano verticale poco distante, munito ad altezza d’uomo di due lunghe sporgenze per esercitarvi la spinta rotatoria necessaria ad avvolgervi la corda, era introdotto nel foro della ‘vite senza fine’. In questo modo, ‘richiamando’ la corda verso l’argano mediante la spinta concomitante di due o quattro operai sulle sue sporgenze, si otteneva l’avvitamento, la pressione sulle sporte e quindi la spremitura dell’impasto. L’operazione veniva effettuata più volte fino ad ottenere la massima pressione. Ultimata questa fase, le pressione veniva allentata azionando il palo in senso contrario; le sporte, estratte dal castello e riposizionate sullo stesso ma rovesciate e irrorate con acqua caldissima prelevata da un vicino fornello erano sottoposte alla spremitura finale. Ora si lasciava trascorrere un breve periodo di tempo per la decantazione e l’affioramento e quindi il proprietario delle olive prelevava egli stesso l’olio dalle ‘tine’ di raccolta e lo versava negli otri (la pelle artigianalmente conciata di capre che, in groppa al mulo o all’asino,  portava a casa propria. Nel frantoio, però, il lavoro continuava con la liberazione del contenuto delle ‘tine’ che confluiva nelle vasche esterne di decantazione e con lo svuotamento delle sporte. Il proprietario del frantoio riusciva a trarre vantaggi anche dalla lavorazione dei residui affioranti nelle vasche esterne (da cui otteneva un olio adatto alla produzione di sapone) nonché dalla vendita del residuo delle spremiture contenuto nelle sporte da cui le industrie chmiche ottenevano il furfurolo e altri olii non commestibili. Come dicevamo in esordio, ora i metodi sono completamente cambiati. La raccolta e lo smistamento dei frutti avvengono con mezzi meccanici, il trasporto con i trattori, la frantumazione e la spremitura con l’ausilio dell’energia elettrica, l’imbottigliamento per via automatica. E, quando l’intero ciclo viene svolto con la rigorosa osservanza delle norme, non c’è dubbio che il prodotto ottenuto è davvero eccellente

 

Lorenzo Milanesi - febbraio 2010                                                                          

 

 

 

 

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