da Nuova Realtà giugno 2012 - periodico  ASSOCIAZIONE BANCARI CARIPUGLIA - CARIME 

 

 

Le malattie cardiovascolari costituiscono la preminente causa di morte nei Paesi dell’area comunitaria europea. Circa la metà dei decessi è attribuibile agli esiti della coronaropatia ostruttiva, che provoca una progressiva riduzione del calibro delle arterie coronarie ed un ridotto apporto di sangue al muscolo cardiaco: ne derivano angina pectoris od infarto miocardico.

Nel complesso, quindi, tutto ciò ha consentito un sensibile incremento della sopravvivenza ad un infarto miocardico acuto ed un efficace trattamento della coronaropatia cronica.

Tuttavia, quando il ricovero in una Terapia Intensiva Coronarica non sia stato tempestivo e l’infarto si sia instaurato, la perdita irreversibile (necrosi) di una quota più o meno considerevole di muscolo cardiaco frequentemente comporta, nel tempo, l’insorgenza di uno stato di insufficienza cardiaca progressivamente ingravescente.

Grazie alle innovazioni epocali degli anni ’80 e ’90, la Cardiologia moderna dispone di numerosi mezzi per combattere efficacemente gli effetti della coronaropatia ostruttiva:

_ una terapia medica molto efficace;

_ metodiche incruenti di rivascolarizzazione miocardica, quali l’Angioplastica coronarica per via percutanea (PTCA), che consente la riapertura di un vaso coronarico grazie alla espansione in esso di un palloncino gonfiabile (Fig. A). La procedura può essere completata con il posizionamento di uno stent, una sorta di sostegno alla parete del vaso, applicato allo scopo di prevenire o ritardare una possibile recidiva della stenosi coronarica (Fig. B);

_ la disponibilità di Unità di Terapia intensiva coronarica, dove il paziente affetto da infarto acuto riceve tutti i più avanzati trattamenti del caso. In primis, la PTCA primaria, eseguita cioè nelle prime ore dall’insorgenza dell’infarto; tale procedura, tanto più efficace quanto più precocemente eseguita dall’esordio del sintomo dolore, assicura un rapido ripristino del flusso sanguigno e scongiura così che si instauri un infarto esteso;

_ un’ampia presenza sul territorio di presidi cardiochirurgici ove poter trattare con l’applicazione di by-pass i pazienti che ne abbiano bisogno. L’intervento può oggi essere eseguito anche non a cuore aperto ed, eventualmente, in minitoracotomia, riducendo cioè al minimo l’incisione chirurgica necessaria per visualizzare il cuore.

Un quadro clinico di scompenso cardiaco progressivo può d’altro canto essere il risultato finale, seppur meno frequente, di una cardiopatia ipertensiva; o di un complesso di malattie degenerative, primarie o secondarie, del muscolo cardiaco.

Allo stato, l’unica modalità terapeutica consolidata per trattare pazienti con scompenso cardiaco terminale è il trapianto di cuore, che consente attualmente una sopravvivenza a cinque anni del 65%.

Tuttavia, data la cronica scarsità di donatori, il trapianto di cuore viene effettuato in numero decisamente inferiore alle necessità: in Italia, nell’anno 2008, sono stati eseguiti 222 trapianti, a fronte dei 744 pazienti in lista d’attesa. Inoltre, il trapianto si rivolge solo ai pazienti che abbiano un’aspettativa di vita ridotta a sei mesi, e, quindi, ad un numero molto ridotto. Inoltre, molto più numerosi, dell’ordine di decine di migliaia, sono i pazienti affetti dagli esiti di un infarto miocardico - o di altre patologie degenerative del muscolo cardiaco - che versano in condizioni cliniche intermedie, con una qualità di vita mediocre pur con la migliore terapia possibile.

Tali criticità hanno stimolato la ricerca di interventi preliminari o alternativi al trapianto.

Fra i primi, l‘impianto di pacemaker biventricolari che, inducendo una corretta sequenza nella contrazione ventricolare, migliorano l’efficienza contrattile del cuore insufficiente. Ovvero l’uso di particolari elettrostimolatori, che possiedono anche la capacità di intervenire qualora nel cuore scompensato insorgano aritmie minacciose per la vita, ripristinando il ritmo normale.

In alternativa al trapianto di un cuore prelevato da donatore si è altresì immaginato di impiantare nel paziente gravemente scompensato sostituti meccanici, parziali o totali, del cuore nativo.

Sono così stati introdotti nella pratica clinica i cosiddetti sistemi di assistenza meccanica ventricolare (VAD) (Fig.1) ad impianto intratoracico, alimentati da batterie esterne al paziente ed il cuore artificiale totale (Fig.2).

Entrambi tali sistemi, benchè già introdotti nella pratica clinica, non sono ancora entrati in uso in maniera diffusa.

 

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Ovviamente, l’obiettivo ottimale consisterebbe nella possibilità di ottenere il recupero anatomico e funzionale di un cuore malato: questa è stata a lungo considerata una mera utopia a causa di un dogma, universalmente accettato, secondo il quale il cuore, a differenza di altri organi (ad es., il fegato, che è capace di rigenerarsi a partire da un suo frammento), è un organo postmitotico, cioè definitivamente differenziato, dotato alla nascita di un patrimonio cellulare non rinnovabile e, pertanto, ineluttabilmente destinato alla progressiva riduzione con l’invecchiamento.

Ricerche fondamentali condotte agli inizi degli anni ’90 permisero tuttavia di identificare cellule staminali cardiache presenti in alcune aree dell’organo stesso; esse dovrebbero essere capaci di assicurare il ricambio cellulare e, quindi, il mantenimento dell’equilibrio anatomo-funzionale del cuore, anche dopo eventuali danni provocati dalle malattie citate in precedenza.

Tali riscontri hanno ovviamente fortemente stimolato la ricerca volta all’impiego delle cellule staminali per trattare tutte quelle cardiopatie che fossero caratterizzate da una grave perdita delle cellule cardiache native.

La ricerca sperimentale con l’impiego di cellule staminali è esordita negli anni ’90 e si è fondata sul presupposto di sfruttare le due caratteristiche fondamentali di tali elementi:

_ la capacità di replicare (moltiplicarsi) indefinitamente.

_ la capacità di differenziarsi verso i più disparati stipiti cellulari.

I risultati sin qui conseguiti con l’impiego di cellule staminali in ambito cardiaco sono stati controversi, con alternanza di apparenti successi e cocenti delusioni. E tuttavia, al di là di ogni eccesso, la ricerca di base sin qui condotta autorizza un moderato ottimismo e sprona a proseguire con tenacia e perseveranza nello sforzo per giungere al sospirato giro di boa ed ottenere i risultati auspicati (Fig.3).

A fronte dell’entusiasmo con cui i ricercatori profondono il loro impegno, però, si deve registrare un insufficiente sostegno economico a tale ricerca, sia da parte degli Enti scientifici nazionali che delle Istituzioni, pubbliche o private, particolarmente in una fase di recessione economica quale quella che attualmente si vive.

Inoltre, purtroppo, ad una ricerca di tal genere non sono interessate neanche le aziende farmaceutiche, poichè non potrebbero in alcun modo ritrarne legittimi ritorni economici.

E’ questa la ragione per cui chi è dedito alla ricerca sperimentale, in un ambito talmente importante per il benessere sociale, auspica che le persone comuni, tutti noi, sentano l’obbligo, per sé e per gli altri, di impegnarsi, mobilitandosi a sostegno dell’impegno dei ricercatori.

Il nostro cuore è nelle nostre mani !!! Come nell’immagine con cui mi piace concludere questa presentazione.

D’altronde, “Togliete dalla vita il cuore che vi ama: che cosa vi resta?” [Alphonse de Lamartine]

 

 

 


 

 

 

 

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