da Nuova Realtà settembre 2012 - periodico  ASS. BANCARI CARIPUGLIA - CARIME 

 

 

 

L’infarto miocardico rappresenta, purtroppo, un evento drammatico molto frequente.
E’ causato dalla trombosi con occlusione di un’arteria coronarica e interruzione del flusso di sangue,
con conseguente necrosi del tessuto miocardico che riceve sangue ed ossigeno da quell’arteria.
L’infarto sarà più o meno grave a seconda della sede e dell’estensione della necrosi.
La cardiologia moderna è impegnata da molti anni nel tentativo di ridurre la mortalità e i postumi
derivanti da questa malattia; a tale scopo sono nate le Unità di Terapia Intensiva Coronarica (UTIC).

Molto è stato fatto da quando è stato dimostrato che la causa dell’infarto è la formazione di un trombo: questo si forma all’interno di una arteria coronarica la cui parete è divenuta sede di deposito di colesterolo, ha perso la sua levigatezza e quindi si è ulcerata favorendo l’aggregazione di globuli rossi e piastrine.
Il trombo non si forma istantaneamente come un tappo, ma si accresce progressivamente fino ad occludere completamente il passaggio di sangue.
E’ quindi un fenomeno dinamico ove la percentuale di successo della terapia dipende dalla rapidità
dell’intervento.

Se la causa dell’infarto è il trombo endocoronarico, l’obiettivo della terapia sarà la sua eliminazione e
la riapertura del vaso
. Seguendo questo principio la terapia farmacologica di base è stata per molti anni la trombolisi: lisi del trombo mediante farmaco.
E’ ovvio che un farmaco non può essere efficace al 100% nel raggiungere questo obiettivo, ma esso ci
ha consentito comunque di curare meglio i pazienti e di ridurne la mortalità.
L’avvento dell’angioplastica coronarica (PCI = Percutanens Coronary Intervention) ha migliorato
ulteriormente i risultati
in quanto consente la riapertura completa della coronaria occlusa.
Cerchiamo di illustrare in cosa consiste.
Già da molti anni i cardiologi emodinamisti, nelle procedure diagnostiche, introducono cateteri nel cuore e nei vasi per misurare le pressioni ed iniettare mezzi di contrasto per opacizzare le arterie.
Nel 1977 il dott. Grunzig, un cardiologo svizzero, ebbe l’intuizione di modificare l’estremità distale (quella che penetra nelle arterie coronarie) di tali cateteri con l’aggiunta di un palloncino allungato e di
varie dimensioni. Esso deve essere molto resistente per essere insufflato ad alta pressione e dilatare i restringimenti (stenosi) delle arterie.
Il cardiologo emodinamista, che nel frattempo grazie alle angioplastiche è diventato cardiologo
interventista, con una semplice puntura di una arteria (femorale o radiale) introduce per via percutanea il catetere, lo guida sotto controllo radioscopico e lo immette nell’arteria coronarica responsabile dell’infarto (fig. 1).
A seconda della sede e del calibro del vaso sceglie il catetere ed il palloncino più adatto e procede con
ripetute insufflazioni fino a liberare la stenosi e ripristinare il flusso sanguigno (fig. 2).
Alla fine della procedura impianta uno stent, una specie di retina cilindrica che aderisce alle pareti interne e previene le complicanze (fig.3 - 4).
E’ evidente che, eseguita da mani esperte, tale procedura consente di riaprire la coronaria con mezzi meccanici diretti, ottenendo risultati migliori del farmaco trombolitico che, iniettato endovena, deve giungere alla coronaria e lisare il trombo.

 

 

Con l’angioplastica coronarica si è ridotta ulteriormente la mortalità e l’estensione dell’area infartuata; è quest’ultima che condizionerà pesantemente il domani del paziente infartuato. Il cuore, infatti, è
essenzialmente un muscolo che deve pompare sangue nella circolazione; tale capacità viene  chiamata “frazione di eiezione”. Se dopo un infarto questa è normale o ridotta solo di poco, il paziente condurrà la vita di prima, se invece è molto ridotta potrà avere postumi più o meno gravi.
Da quanto finora detto si capisce che i risultati clinici migliori si hanno quando intercorre poco tempo tra l’inizio dei sintomo e la riapertura del vaso. Purtroppo, ancora oggi si osservano casi in cui i pazienti giungono in ospedale dopo 12 ore dall’inizio dei primi segnali di sofferenza.
Essendo l’infarto un processo dinamico, è evidente che non avremo lo stesso beneficio se l’angioplastica (PCI) viene effettuata dopo 2 ore o dopo 12.
In questo settore la ricerca ha fatto notevoli progressi, ma sono ancora pochi i pazienti che riescono a trarre beneficio da questa procedura interventistica. Ciò dipende da vari fattori:
la diagnosi di infarto viene formulata tardivamente perchè i sintomi vengono sottovalutati; i pazienti ad alto rischio devono essere informati in modo da giungere in un centro attrezzato nel più
breve tempo possibile;
il luogo dove vive il paziente: in un grosso centro abitato con laboratori attrezzati per l’angioplastica coronarica oppure in un paesino isolato;
 l’organizzazione sanitaria di una grande città; sono in via di sviluppo “reti” che collegano molti laboratori di emodinamica; una volta fatta la diagnosi di infarto, scatta subito un’emergenza per individuare in pochi minuti una sala emodinamica disponibile ad accettare direttamente il paziente, evitando così i tempi morti (pronto soccorso, reparto, ecc.). In tal modo l’infartuato sarà sottoposto ad
un’angioplastica primaria entro 60 - 120 minuti.

Fortunatamente anche la Regione Puglia ha attivato un programma di collaborazione tra pubblico e privato per affrontare questo aspetto: dal 1° agosto 2012 alcuni ospedali pubblici e cliniche private convenzionate sono disponibili per 24 ore ad accettare e sottoporre ad angioplastica primaria i pazienti
colpiti da infarto del miocardio. In questo modo la nostra Sanità compie certamente uno sforzo importante per porsi alla pari di altre regioni italiane o estere.
Abbiamo appena detto che i pazienti ad alto rischio devono essere informati sulla loro condizione
e sulla probabilità di un infarto. Sono cioè quelli che hanno una forte familiarità positiva (specie se di sesso maschile), i fumatori, i diabetici, ma anche i soggetti con ipertensione arteriosa e con alto tasso di lipidi del siero.
A parte la familiarità, i fattori di rischio sono modificabili con la volontà del paziente e l’aiuto del medico:
il fumo, specie di sigarette, va assolutamente abolito;
il diabete va controllato (glicemia ed emoglobina glicosilata);
la pressione arteriosa va mantenuta nei range di normalità (bisogna dire che questo messaggio è
stato ampiamente recepito da tutti gli ipertesi e, talvolta, la cura della pressione diviene una nevrosi);
 il colesterolo merita la stessa attenzione e va tenuto sotto controllo; disponiamo oggi di farmaci, come le statine, che hanno drasticamente cambiato la prognosi della colesterolemia, contribuendo a ridurre la mortalità e la morbilità.
Bisogna diffondere la conoscenza dei fattori di rischio, evidenziando l’importanza della loro prevenzione.
I pazienti ad alto rischio dovrebbero anche essere sottoposti a controlli clinici ed a prove da sforzo periodiche affinché si possano individuare i soggetti da indirizzare alla diagnostica invasiva
(coronarografia ed eventuale angioplastica).
Possiamo tranquillamente affermare che negli ultimi 50 anni abbiamo assistito ad incredibili progressi
nella terapia di questi pazienti. I nostri padri o i nostri nonni colpiti da infarto venivano curati a casa perché si riteneva pericoloso il trasporto in ospedale. Poi con l’avvento delle UTIC è stato dimostrata l’utilità di un’ospedalizzazione precoce. Attualmente è ampiamente riconosciuto che l’angioplastica coronarica è il mezzo più efficace per trattare l’infarto. Chissà cosa ci attende in futuro!

 

 


 

 

 

 

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