LA PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI PANSA di Giacomo Morandi

 

In una recente mail Giacomo Morandi mi ha fatto presente che solo ultimamente ha preso visione di uno scritto di Gino Luciani sulla storia ed il revisionismo pubblicato da Piazza Scala nel maggio scorso (visualizza la pagina): per rispondere a Gino ha ripescato un suo articolo sullo stesso argomento che commentava un altro libro di Pansa "Tre inverni di paura", la cui presentazione era stata fatta dall'autore pochi giorni prima alla quale aveva presenziato.
Premesso che abbiamo ritenuto opportuno diluire (senza però escluderli completamente) gli articoli di carattere politico, l'analisi di Giacomo mi sembra interessante, anche se non condivisibile in toto in quanto personalmente ritengo che certi periodi oscuri e ricchi di episodi esecrabili (da entrambe le parti, anche se più evidenti per i nazi-fascisti) andrebbero forse dimenticati.
Alfredo Izeta - novembre 2009

 

 LA PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI PANSA


Non ho ancora avuto modo di leggere l’ultimo romanzo di Gian Paolo Pansa “I tre inverni della paura” e lo farò sicuramente, come per i precedenti, non solo perché ne apprezzo lo stile, ma anche perché difficilmente mi lascio sfuggire le più importanti pubblicazioni che si rifanno al periodo storico di cui sono stato testimone diretto, anche se si tratta di romanzi o storie romanzate, non propriamente testi di storia, come nel caso degli ultimi libri di Pansa.
In queste righe, quindi, mi limito a commentare le presentazioni pubblicate su qualche giornale fra le quali quella dello stesso autore su “Libertà” nei giorni scorsi.
Non posso esimermi dal rilevare, in quest’ultima, diverse gravi inesattezze che, se volessi spingermi ad usare il termine abusato continuamente dal Pansa, potrei forse definire “grandi bugie”.
Per prima cosa Pansa dichiara e ci insiste su, di aver continuamente sentito dire, nelle celebrazioni del 25 Aprile negli ultimi anni, che i partigiani liberarono l’Italia da soli, senza neppure il concorso delle truppe alleate. Confesso di non aver mai sentito panzana più grossa. Ho partecipato, da spettatore, a moltissime celebrazioni in occasione dei vari anniversari, non solo quelle del 25 aprile, ma non ho mai sentito nessun oratore sostenere tale assurdità. Il guaio è che su tale premessa e su altre, Pansa costruisce i suoi teoremi e da tali basi sviluppa le sue discutibili argomentazioni.
Può darsi che qualcuno, spinto da foga oratoria, abbia in qualche occasione parlato dei “partigiani che hanno liberato l’Italia dal fascismo”, ma ciò non significava che l’abbiamo fatto da soli.
La guerriglia armata dei partigiani fu importante per rendere difficile la vita agli occupanti nazisti e per colpire i collaborazionisti fascisti e quindi per accorciare la durata della guerra in Italia, come in Francia, in Jugoslavia, in Grecia e in tutti i paesi invasi, ma la Resistenza non fu solo quella delle formazioni armate. Resistenti furono i soldati internati in Germania che rifiutarono di collaborare, rinunciando ad un immediato ritorno in Italia, resistenti furono le truppe italiane che nel settembre 1943 non vollero deporre le armi, a Celafonia, a Corfù, in Jugoslavia ed in molte città italiane fra le quali Piacenza. Resistenti furono gli operai che boicottarono la produzione bellica, resistenti furono le popolazioni di montagna e delle città che aiutarono in mille modi il movimento resistenziale e perfino gran parte di quella che Pansa definisce zona grigia, attribuendole una neutralità ed un’apatia che invece fu spesso non collaborazione e resistenza passiva. “Le donne non ci vogliono più bene perché portiamo la camicia nera” cantavano i fascisti di Salò.
Nella sua presentazione Pansa si spinge a dichiarare che “i partigiani ed i fascisti commisero le stesse atrocità”. Spero che dica di aver scherzato. Le truppe di Salò, con diverse etichette, Brigate Nere, Guardia Repubblicana, Legione Muti, SS Italiane, Decima Mas, avevano ordini ben precisi dai loro capi di commettere rappresaglie sulla popolazione civile, stragi, incendi di case, cascine ed interi paesi, rastrellarono ebrei, renitenti, familiari di renitenti, semplici operai per essere consegnati ai nazisti. Molti erano torturati nelle carceri, nei campi e in certe strutture che abbiamo conosciuto anche a Piacenza (via Cavour).
I partigiani non commisero tali atrocità nei confronti della popolazione. Se vi furono atti criminali, prima e dopo la Liberazione, e ve ne furono specialmente in alcune province più calde e più toccate dalle rappresaglie, essi furono perpetrati clandestinamente da individui e gruppetti isolati, restii a rinunciare a vendette personali o inclini a farsi giustizia da se.
Onorare alla stessa stregua, come dice Pansa, il coraggio di entrambe le parti, indipendentemente da chi combatteva per una causa giusta e chi la contrastava con la violenza? Questo, sì, non lo capisco. Rispetto per i morti, per tutti i morti, d’accordo. Ma non chiedete di onorare pubblicamente chi combatté per perpetuare la dittatura e l’occupazione nazista.
Del resto, dopo vent’anni di dittatura e di violenza, dopo venti mesi di collaborazione con i nazisti, il nuovo stato democratico fu molto generoso ed anche molti criminali tornarono rapidamente in circolazione, grazie ad amnistie interpretate estensivamente dalla magistratura ed a solleciti reinserimenti dei collaborazionisti nei ranghi dello stato, della polizia, delle forze armate, anche a scapito di chi era stato sacrificato e boicottato dal regime.
Anche la storia che la grande maggioranza del partigianato dipendesse dal Partito Comunista è inesatta. In quegli anni, prima della Liberazione, ben pochi anche fra i comandanti, quasi tutti molto giovani, avevano un credo politico. Le idee in merito erano molto vaghe e se qualche squadra cantava Bandiera Rossa lo faceva perché era un inno antifascista.
Che poi il Partito Comunista Italiano, nei suoi dirigenti, pensasse concretamente di poter impadronirsi del potere in Italia con la violenza, è un’altra favola. I Togliatti, i Longo, gli Amendola, lo stesso Secchia, che non erano stupidi, sapevano benissimo che in base agli accordi fra gli alleati l’Italia era assegnata alla sfera occidentale e che comunque un tentativo del genere sarebbe stato destinato al completo fallimento ed avrebbe solo provocato la messa fuori legge del partito, cosa che in certi ambienti era considerata auspicabile. Se qualche testa calda in Emilia Romagna o altrove sognò per qualche tempo la rivoluzione, fu presto messa in riga dalla dirigenza comunista. Anche gli omicidi di classe, perpetrati in alcune zone da individui o gruppetti isolati, clandestinamente, furono un aspetto o una coda della lotta antifascista dato il coinvolgimento profondo di certi proprietari terrieri con le squadracce che per vent’anni soffocarono con la violenza o il sopruso le aspirazioni dei braccianti e degli altri lavoratori. Ciò non toglie nulla alla condanna di tali atti, ma gli stessi ed anche gli altri vanno studiati nel contesto di quel periodo, di quella guerra sanguinosa e degli antefatti, cosa che i veri storici hanno fatto e stanno facendo (vedi ad esempio la recente ristampa dello studio di Mirko Dondi – “La lunga liberazione – Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano”, completo di 57 pagine di note, richiami, citazioni e bibliografia).
Pansa poi insiste sul revisionismo, attribuendosene la qualifica. E’ vero che, ovviamente, la storia può essere rivisitata, entro certi limiti, sulla base di nuovi documenti, nuove scoperte, nuovi studi. La revisione, tuttavia, va fatta con serietà dagli storici, e, come in tutti i rami della scienza, va dimostrata e va esibita la documentazione relativa. Se poi un autore arriva ad esprimere giudizi suoi (e fa anche dell’ironia sugli storici di mestiere), non dovrebbe esimersi dal giudicare i fatti nel contesto del periodo e dell’ambiente in cui sono avvenuti. Nel nostro caso non è sufficiente un romanzo, per quanto brillante. Si è scritto troppo, in sessant’anni e più, da parte di storici nostrani e stranieri, perché un romanzo possa validamente fornire una nuova verità.

Giacomo Morandi - (Maggio 2008)

 

 

 

 

 

Una recensione reperita sul web

La trama e le recensioni di I tre inverni della paura, romanzo di Giampaolo Pansa edito da Rizzoli.

 

 

Nevica sangue nei tre inverni della paura. Sono le stagioni più dure della guerra civile italiana e dell'interminabile dopoguerra. Tedeschi, fascisti e partigiani combattono con obiettivi diversi, ma compiono le stesse atrocità. È questo disordine crudele a travolgere Nora Conforti. Diciotto anni, ragazza di famiglia ricca, Nora si rifugia con il padre sulle colline fra Reggio Emilia e Parma. Non immagina che proprio lì incontrerà il primo amore e subito dopo gli orrori di due guerre in grado di sconvolgere la sua esistenza. Giampaolo Pansa ci racconta una storia che nasce da lunghi anni di ricerche sulla Resistenza e sulle sue tante zone d'ombra. Un affresco della borghesia agraria emiliana, nell'arco di sei anni infernali, dal giugno 1940 alla fine del 1946. E' una ricostruzione controcorrente di un'epoca feroce. "I tre inverni della paura", vissuti tra il Po e l'Appennino reggiano, narrano il duello brutale fra due totalitarismi. Quello fascista che cerca di sopravvivere con l'aiuto dei nazisti. E quello comunista che prolunga ben oltre il 25 aprile una spietata strategia del delitto. Ma nella memoria del lettore resterà l'umanità dei personaggi che affiancano Nora. Accanto a figure che appartengono alla storia, come Togliatti, De Gasperi, i capi delle bande rosse e nere, il vescovo Socche, il partigiano bianco detto "il Solitario", si muove la gente comune di quegli anni. Le donne chiamate a sopportare il peso più grande della guerra. I bambini messi di fronte al terrore politico. I giovani schierati su trincee opposte. L'asprezza dello scontro fra ricchi e poveri. Le vittime del dopoguerra che emergono dalle fosse segrete, fantasmi capaci di turbarci ancora oggi.