LA
PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI PANSA
Non ho ancora avuto
modo di leggere l’ultimo romanzo di Gian Paolo
Pansa “I tre inverni della paura” e lo farò
sicuramente, come per i precedenti, non solo
perché ne apprezzo lo stile, ma anche perché
difficilmente mi lascio sfuggire le più
importanti pubblicazioni che si rifanno al
periodo storico di cui sono stato testimone
diretto, anche se si tratta di romanzi o storie
romanzate, non propriamente testi di storia,
come nel caso degli ultimi libri di Pansa.
In queste righe, quindi, mi limito a commentare
le presentazioni pubblicate su qualche giornale
fra le quali quella dello stesso autore su
“Libertà” nei giorni scorsi.
Non posso esimermi dal rilevare, in
quest’ultima, diverse gravi inesattezze che, se
volessi spingermi ad usare il termine abusato
continuamente dal Pansa, potrei forse definire
“grandi bugie”.
Per prima cosa Pansa dichiara e ci insiste su,
di aver continuamente sentito dire, nelle
celebrazioni del 25 Aprile negli ultimi anni,
che i partigiani liberarono l’Italia da soli,
senza neppure il concorso delle truppe alleate.
Confesso di non aver mai sentito panzana più
grossa. Ho partecipato, da spettatore, a
moltissime celebrazioni in occasione dei vari
anniversari, non solo quelle del 25 aprile, ma
non ho mai sentito nessun oratore sostenere tale
assurdità. Il guaio è che su tale premessa e su
altre, Pansa costruisce i suoi teoremi e da tali
basi sviluppa le sue discutibili argomentazioni.
Può darsi che qualcuno, spinto da foga oratoria,
abbia in qualche occasione parlato dei
“partigiani che hanno liberato l’Italia dal
fascismo”, ma ciò non significava che l’abbiamo
fatto da soli.
La guerriglia armata dei partigiani fu
importante per rendere difficile la vita agli
occupanti nazisti e per colpire i
collaborazionisti fascisti e quindi per
accorciare la durata della guerra in Italia,
come in Francia, in Jugoslavia, in Grecia e in
tutti i paesi invasi, ma la Resistenza non fu
solo quella delle formazioni armate. Resistenti
furono i soldati internati in Germania che
rifiutarono di collaborare, rinunciando ad un
immediato ritorno in Italia, resistenti furono
le truppe italiane che nel settembre 1943 non
vollero deporre le armi, a Celafonia, a Corfù,
in Jugoslavia ed in molte città italiane fra le
quali Piacenza. Resistenti furono gli operai che
boicottarono la produzione bellica, resistenti
furono le popolazioni di montagna e delle città
che aiutarono in mille modi il movimento
resistenziale e perfino gran parte di quella che
Pansa definisce zona grigia, attribuendole una
neutralità ed un’apatia che invece fu spesso non
collaborazione e resistenza passiva. “Le donne
non ci vogliono più bene perché portiamo la
camicia nera” cantavano i fascisti di Salò.
Nella sua presentazione Pansa si spinge a
dichiarare che “i partigiani ed i fascisti
commisero le stesse atrocità”. Spero che dica di
aver scherzato. Le truppe di Salò, con diverse
etichette, Brigate Nere, Guardia Repubblicana,
Legione Muti, SS Italiane, Decima Mas, avevano
ordini ben precisi dai loro capi di commettere
rappresaglie sulla popolazione civile, stragi,
incendi di case, cascine ed interi paesi,
rastrellarono ebrei, renitenti, familiari di
renitenti, semplici operai per essere consegnati
ai nazisti. Molti erano torturati nelle carceri,
nei campi e in certe strutture che abbiamo
conosciuto anche a Piacenza (via Cavour).
I partigiani non commisero tali atrocità nei
confronti della popolazione. Se vi furono atti
criminali, prima e dopo la Liberazione, e ve ne
furono specialmente in alcune province più calde
e più toccate dalle rappresaglie, essi furono
perpetrati clandestinamente da individui e
gruppetti isolati, restii a rinunciare a
vendette personali o inclini a farsi giustizia
da se.
Onorare alla stessa stregua, come dice Pansa, il
coraggio di entrambe le parti, indipendentemente
da chi combatteva per una causa giusta e chi la
contrastava con la violenza? Questo, sì, non lo
capisco. Rispetto per i morti, per tutti i
morti, d’accordo. Ma non chiedete di onorare
pubblicamente chi combatté per perpetuare la
dittatura e l’occupazione nazista.
Del resto, dopo vent’anni di dittatura e di
violenza, dopo venti mesi di collaborazione con
i nazisti, il nuovo stato democratico fu molto
generoso ed anche molti criminali tornarono
rapidamente in circolazione, grazie ad amnistie
interpretate estensivamente dalla magistratura
ed a solleciti reinserimenti dei
collaborazionisti nei ranghi dello stato, della
polizia, delle forze armate, anche a scapito di
chi era stato sacrificato e boicottato dal
regime.
Anche la storia che la grande maggioranza del
partigianato dipendesse dal Partito Comunista è
inesatta. In quegli anni, prima della
Liberazione, ben pochi anche fra i comandanti,
quasi tutti molto giovani, avevano un credo
politico. Le idee in merito erano molto vaghe e
se qualche squadra cantava Bandiera Rossa lo
faceva perché era un inno antifascista.
Che poi il Partito Comunista Italiano, nei suoi
dirigenti, pensasse concretamente di poter
impadronirsi del potere in Italia con la
violenza, è un’altra favola. I Togliatti, i
Longo, gli Amendola, lo stesso Secchia, che non
erano stupidi, sapevano benissimo che in base
agli accordi fra gli alleati l’Italia era
assegnata alla sfera occidentale e che comunque
un tentativo del genere sarebbe stato destinato
al completo fallimento ed avrebbe solo provocato
la messa fuori legge del partito, cosa che in
certi ambienti era considerata auspicabile. Se
qualche testa calda in Emilia Romagna o altrove
sognò per qualche tempo la rivoluzione, fu
presto messa in riga dalla dirigenza comunista.
Anche gli omicidi di classe, perpetrati in
alcune zone da individui o gruppetti isolati,
clandestinamente, furono un aspetto o una coda
della lotta antifascista dato il coinvolgimento
profondo di certi proprietari terrieri con le
squadracce che per vent’anni soffocarono con la
violenza o il sopruso le aspirazioni dei
braccianti e degli altri lavoratori. Ciò non
toglie nulla alla condanna di tali atti, ma gli
stessi ed anche gli altri vanno studiati nel
contesto di quel periodo, di quella guerra
sanguinosa e degli antefatti, cosa che i veri
storici hanno fatto e stanno facendo (vedi ad
esempio la recente ristampa dello studio di
Mirko Dondi – “La lunga liberazione – Giustizia
e violenza nel dopoguerra italiano”, completo di
57 pagine di note, richiami, citazioni e
bibliografia).
Pansa poi insiste sul revisionismo,
attribuendosene la qualifica. E’ vero che,
ovviamente, la storia può essere rivisitata,
entro certi limiti, sulla base di nuovi
documenti, nuove scoperte, nuovi studi. La
revisione, tuttavia, va fatta con serietà dagli
storici, e, come in tutti i rami della scienza,
va dimostrata e va esibita la documentazione
relativa. Se poi un autore arriva ad esprimere
giudizi suoi (e fa anche dell’ironia sugli
storici di mestiere), non dovrebbe esimersi dal
giudicare i fatti nel contesto del periodo e
dell’ambiente in cui sono avvenuti. Nel nostro
caso non è sufficiente un romanzo, per quanto
brillante. Si è scritto troppo, in sessant’anni
e più, da parte di storici nostrani e stranieri,
perché un romanzo possa validamente fornire una
nuova verità.
Giacomo Morandi - (Maggio 2008)
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