IL NATALE IN CALABRIA

Il Natale ha lasciato certamente dei ricordi inconfondibili, nel fondo del nostro cuore, sia che ab­biamo trascorso la fanciullezza in un ambiente agiato, sia che l'abbiamo trascorsa in un ambiente povero. E tutto questo perché il Natale è la festa dei bambini: festa che attendono con ansia per mesi, e durante la quale si trovano in pace accanto ai loro più intimi congiunti e sentono narrare la storia di un altro bambino, straordinario bambino, figlio di Dio diventato umile uomo. Una storia che affascina e che accende la loro fantasia; come ha acceso la nostra, e ci ha fatto desiderare di essere anche noi come quello, straordinario, nato in una mangiatoia in una delle più lunghe e più fredde notti dell'inverno, perché una stella nel cielo brillasse ap­posta per noi e perché anche noi fossimo capaci di compiere miracoli per il bene dell'umanità. La festa del focolare, della famiglia, il Natale, della rinascita, della speranza e della vita stessa che si ripete sempre. E amata, desiderata; pare che la stessa natura vi partecipi. Ti comunica infatti, anche ora che alle feste guardi con distacco e fastidio, un senso di sovrumana pace, che come un velo invisibile pare si stenda dalle altezze del cielo su ogni lembo di terra e penetri nell'animo di ogni uomo. Ma quanti paesi non abbraccia il Natale con la sua universalità, quanti costumi, usi e problemi diversi! Per un ragazzo del nord il Natale corrisponde certamente a vetrine illuminate e zeppe di giocattoli e di robe di ogni genere, all'albero dove sono appesi dei regali; e forse non avverte la preoccupa­zione dei genitori per la mancanza di soldi o di lavoro o addirittura del pane quotidiano. Per un ragazzo del sud, al contrario, il Natale prende un altro aspetto, gli si presenta con altra faccia. Innanzitutto, le manifestazioni delle feste natalizie sono più autentiche nel sud che nel nord, più vici­ne al racconto evangelico. L'albero, per esempio, che è di origine nordica e che non ha nulla a che vedere con la nascita di Gesù, è quasi totalmente ignorato. C'è il presepe, che ripete pari pari la storia della nascita del figlio di Dio. Ma il presepe in casa è segno di ricchezza: cioè vien fatto nelle case dei ricchi. Nelle case dei contadini o degli operai e artigiani non si fa il presepe. Lo si prepara in chiesa. Ed è opera popolare, costruito, messo su dall'abilità e spesso dalla genialità dei più bravi ragazzi; e concesso al godimento dei poveri attraverso la Chiesa, sempre mediatrice tra Dio e popolo. Ma ai ragazzi tutto ciò non importa, e gli adulti rimangono indifferenti a questi problemi, per loro non importanti, tanto sono presi dal problema pane. Ai ragazzi interessa invece poter collaborare alla costruzione del nuovo presepe. E ci collaborano in­fatti costruendo, plasmando con le abili dita perso­naggi di creta, che dopo qualche mese si spappolano. E creano Madonne, re magi, pastori, popolani, animali domestici; e cercano del musco, delle scorze di alberi, dei rami e costruiscono, in collaborazione con il sacrestano e sotto la guida del prete, la stalla, un piccolo paese; disegnano un cielo stellato e una grossa cometa; e fanno valli e monti, esprimendo la natura e il paesaggio della propria terra. E il presepe vien su, in due-tre giorni di preparati­vi, di ricerche piacevoli e che appassionano i ragazzi più estrosi. E sarà, alla fine, un presepe più o meno uguale a quello di sempre e che ripete la storia, eterna com'è eterno il sorgere del sole, del più famoso Bambino che sia mai nato. E questo bambino è lì coricato sulla paglia, nudo, anche lui spesso di creta come un qualsiasi pastore; e certo trema di freddo, ma è riscaldato amorevolmente dal fiato della mucca e dell'asino. Cose niente affatto fantastiche per i piccoli vaccari che la notte di Natale vanno nella chiesa per vedere e godere e si mettono accanto al presepe illuminato e osservano meravigliati e anche felici quel mondo fantastico per la tanta luce di lampade e gigantesche lumiere a olio. E per quei piccoli vaccari il figlio di Dio è uno come loro: anche lui certo avrà sentito i brividi del freddo e sarà stato punto da qualche spina o dai duri fili di paglia, e avrà sentito il caldo fiato uscire dalle narici degli animali. Il loro mondo rustico riprodotto lì in immagini di creta, in quel vasto ambiente illuminato che è la casa di Dio, come usano dire, li stordisce e li porta a fantasticare sull'incredibile favola che è stata la fanciullezza del figlio dell'uomo, che ogni anno rinasce e porta speranza e ansia. Speranze e ansie che durano mesi e mesi.
Che per mesi i ragazzi della Calabria si mettono in aria di feste natalizie. Dalla fine di ottobre in poi incominciano a giocare alle nocciole. Gioco che per i più bravi ha importanza capitale, per il fatto che vincono e vendono e risparmiano i pochi soldi con i quali, se la mamma non glieli prende per i suoi bisogni, si comprano i calzoni o la veste. Gioco che dura per giornate intiere per le vie e sulle piazzuole: spesso con scontri violenti di capricci; ma più spesso dà loro un'indescrivibile intima allegria quel correre e gridare in una specie di esaltazione; e a quei genitori che rimproverano loro tanta spensie­ratezza, rispondono che anche Gesù Bambino, quando aveva la loro età, certamente giocava per le vie di Betlemme.
Ansie incredibili per i bambini più poveri: certo i genitori compreranno loro le scarpe. Le scarpe?! Forse. Ma ancora è presto. A dodici anni le scarpe. Impossibile! Ma certo compreranno la veste che costa meno che le scarpe, o la camicia, o i calzoni, da­to che quelli che hanno addosso già cascano a brandelli, dopo mesi e mesi... Certo anche Gesù Bambino sarà andato a piedi nudi per le vie del suo paese, e anche lui avrà avuto i calzoni a brandelli, visto che anche lui era figlio di gente povera. Suo padre era un povero falegname. Cosa poteva guadagnare? Ma certo Gesù era scalzo perché voleva. Ma chi sa, invece, quante buone cose, quest'anno, non mangeranno la notte di Natale. Certo pasta e pescestocco, come sempre, Se ne prepara tanto pescestocco per la notte di Natale e a tutti è concesso saziarsene, una volta tanto. Che bellezza! Che altro di buono si mangerà? Le «zeppole», le «pittelle di San Martino». (Sono, le «zeppole», una pasta di pane con dentro una sarda salata, e vien bollita, più che fritta, in una grande padella piena d'olio. In quanto alle «pittelle di San Martino», si dà questo nome a un dolce preparato con noci, fichi secchi, uva appassita, macinati e impastati con vino cotto). E a volontà, perché la mamma ne mette una tafferia piena sulla tavola e anche i ragazzi ne possono prendere a piacere loro. Non sarà necessario rubare di queste robe, che di solito sono nascoste in qualche angolo della casa... Che arriva presto Natale. E Natale si avvicina sempre più, come se avesse fretta anch'esso di appagare i desideri dei bambini. Siamo già in periodo di novena. C'è la messa alle quattro del mattino. Fa freddo, a quell'ora, eppure i ragazzi desiderano essere svegliati dalla nonna, che alla sua età non pensa che al bene dell'anima e non perde messa e non fa che snocciolare rosari, per presentarsi con la coscienza a posto davanti al giudizio di Dio. E i ragazzi non si fanno chiamare la seconda volta. Scalzi, infreddoliti vanno anch'essi alla messa delle quattro, non certo per pregare. Osservano, curiosano, imparano nello stesso tempo, raccogliendo nella me­moria la tradizione.
La chiesa è incredibilmente fredda, a quell'ora, male illuminata. Le ombre ti riempiono l'animo di tristezza. Ma si va animando di minuto in minuto: si riempie di vecchie imbacuccate nei grandi fazzolettoni di lana; di contadini che solitamente si alzano presto, per andare al campo lontano ore di cammino, per seminarvi il grano. Perdere mezz'ora in chiesa e ascoltare un poco della messa non è male, non sarà tempo perduto. Dio osserva e gradisce di esse­re visitato nella sua casa, pensano; e pensando a que­sto modo continuano il perpetuo dialogo tra loro e Dio-uomo, tra loro e Dio-signore potente che per ricevere deve anche concedere. Intanto incominciano i canti delle donne: la luce del sole sta per rinascere, la gioia dell'umanità sta per venire sulla terra; e seguono ninne-nanne. Ninne-nanne gonfie di pre­mure, calde di affetto, ma non di un affetto materno: è come se uno sconfinato numero di serve stessero cullando il neonato del loro potente signo­re. E questa mancanza di affetto materno si avver­te per il fatto che le ninne-nanne sono creazioni, rifacimenti di sacerdoti e non canti popolari. È strano che le manifestazioni natalizie pur essendo le più vicine alla storia evangelica e le meno intrise di paganesimo, siano invece, in Calabria, almeno per quello che consta a noi, le meno cantate dalla fan­tasia popolare. La stessa cosa non succede per la Passione di Cristo. Ma questo è un altro discorso. Il ragazzo, dominato sempre dalla sua sete di conoscere, ascolta e impara. La chiesa s'illumina, incomincia la celebrazione. Ma da fuori vengono grida festose: è per il fuoco che fuori lingueggia. Il ragazzo esce. Non gl'interessa più la celebrazione, il canto. Vuole essere in mezzo agli adulti, ai giovani. Infatti i giovani sono intorno al fuoco e gridano e si spingono, e altri arrivano con fasci di rami in ispalla, e le fiamme si alzano al cielo, facendo cadere una pioggia di cenere.
Portate, rubate dovunque fasci di rami — dice qualche anziano. — Il fuoco è per il Bambino, che ha freddo. È in suo onore che si accende; che anche lui ha voluto nascere nudo come noi. Andate per altri fasci di rami, cercate, trovate. Gesù Bambino si sciala anche lui di vedere queste fiammate alte come il campanile.
E rubare fasci di rami per Gesù Bambino non è vergognoso, non è un reato, anche se la donna derubata spesso arriva strillando e minacciando di denunciare i ladri alla legge. La messa finisce, il fuoco si spegne, e i contadini partono per i campi lontani. Arriva il giorno e con esso i ragazzi si riversano per le strade e giocano, giocano pazzamente alle nocciole, pensando alla lungo notte di Natale, alla mattina della vigilia quan­do la mamma si alza dopo la mezzanotte, per preparare le cose fritte: «zeppole» e «nocatole» (ciambelle di farina di grano tenero impastate con olio e bollite nell'olio). Non è Natale, in una famiglia, se mancano le cose fritte; e ogni padre fa di tutto per procurare olio, farina, sarde salate, fichi secchi, noci, affinché i suoi figli non abbiano a guar­dare le mani degli altri ragazzi. Che chiodo per un padre se ai suoi bambini mancano le cose fritte. Ma non devono mancare, a costo di tutto. E fanno debiti presso i più ricchi: cibarie contro energia di braccia. E questi gravi e amorevoli sacrifici sembra passino inosservati, invece si sedimentano, involontariamente, nell'animo di ogni bambino e verranno fuori nei momenti opportuni: verranno rievocati più particolarmente la notte di Natale, quando tutti si è assieme accanto alla piccola tavola e il fuoco arde nell'angolo della fuligginosa cucina in onore del santo Bambino, e lumiere e lanterne illuminano la notte in cui nasce il figlio di Dio.
— Accendete, accendete, ragazzi! Non badate stanotte all'economia di olio — dice la madre, che quella sera è più aperta, più buona: è dispensatrice di cibi e di parole amorose e di calde cure per tutti.
— Accendete, accendete le lumiere, che anche noi dobbiamo onorarlo per quello che possiamo. Lui ci compatisce, se le nostre forze sono scarse.
Poi incomincia la cena: la più lunga, la più indimenticabile dell'anno. Si mangia la pasta, poi il pesce-stocco. Carne no. La vigilia di Natale è di magro, per i vecchi, più che il venerdì santo, perché tutti gli uomini sono in ansia per la venuta del Messia. Ma i giovani, lamentano i vecchi, non sono più disposti a rispettare le usanze: mangiano tutto, anche carne, e si divertono diversamente. Si parla, si polemizza, ma si continua a mangiare e a bere abbondantemente.
— Ricordatevi che si devono mangiare tredici cose diverse — ricorda la nonna, la più vecchia pianta della famiglia.
Sono tutti riuniti nella casa del nonno, che vuole avere il piacere di stare, forse per l'ultimo Natale, tra i suoi figli. Di averli li, in quella piccola casa dove sono nati e cresciuti, dove hanno avuto tante preoccupazioni in comune che ora rievocano. Peccato che qualche figlio manca: Vincenzo è in Australia, il marito di Maria in Brasile.
— Ma sono presenti tra noi in ispirito —, dice il nonno. — Beviamo alla loro salute.
Ma Maria non può distogliere il pensiero dal marito lontano; e subito incomincia a ripetere parte dell'ultima lettera di lui:
— Cara sposa — mi dice nella lettera — voglio che i bambini mangino bene, questo Natale. Ricordati che la festa del Natale si ricorda per tutta la vita. Che pena se la passi male, come ti viene in mente! E vestili bene, i bambini, con un vestito nuovo per uno; state tutti i parenti insieme e bevetevi una bottiglia di quel nostro vino alla mia salute. Ricordati, cara sposa, che io penso a voi, per tutta la notte di Natale... E non fate risparmio: io lavoro e qualche cosa la guadagno.
E subito che Maria tace, la nonna ripete anche lei parte dell'ultima lettera di suo figlio lontano:
— Cara mamma — mi dice quel figlio benedetto mio — ti mando questi pochi soldi, perché tu ti compri il caffè. Mi ricordo che ti piaceva tanto. E ricordatevi, cara mamma, di me, mentre state tutti insieme la notte di Natale... E mangiate e bevete del meglio, perché io mi ricordo, cara mamma, certi brutti Natali che non mi posso mai dimenticare. Ma ora sono cresciuto e ho visto che il mondo non è il nostro paese. Con tutto questo, se sai quanto mi piacerebbe essere al paese, per rivedere tutti voi, e vedere anche il presepe nella chiesa e andare a ru­bare, come quand'ero ragazzo, rami e tronchi per il grande fuoco in piazza... — La voce della nonna trema, qualche lacrima bagna i suoi occhi. Tace. Gli animi s'inteneriscono, le rievocazioni continuano. Il nonno prende a parlare dei suoi tempi, di quando, più di sessant'anni fa, il Natale era più bello, perché si suonavano le zampogne ogni sera, per tutto dicembre, e il grande fuoco davanti alla chiesa durava per tutta la notte e il giorno di Natale. La gente era più tranquilla, più generosa. E qui vien fuori suo nonno che era uomo allegro e voleva sempre tutti in casa e li ubriacava ed era felice di vederli ubriachi. Di quest'uomini non se ne trovano più; ma bisogna dire, ammette il nonno, che allora i più stavano assai peggio di ora: c'era gente che non metteva niente in bocca per giorni intieri. E si va avanti a questo modo per ore, mentre le lu­miere e il fuoco ardono allegramente; e si raccontano storie vecchie e nuove, di gente lontana e vicina. Di gente morta nelle guerre, di altra che si è persa nel mondo senza dare mai notizie di sé. E si scende nelle generazioni e si scava in profondità, per trovarvi la linea di parentela e spesso vengono fuori storie suggestive, per il modo come sono narrate: come racconti biblici. Ma i racconti più straordinari e che la notte di Natale vengono detti ai ragazzi sono certe leggende su Gesù e la Madonna. Racconti evangelici trasfigurati, ma ugualmente suggestivi.
— Nel cielo, se guardate una notte d'estate, vedete una lunga striscia bianca — dice qualcuno. — Quella striscia bianca si chiama la via del latte. E si chiama la via del latte, perché la Madonna correva via da Betlemme per salvare il Bambino dall'ira di Erode, che non voleva che sulla terra venisse il Messia a prendergli il regno. Ora, mentre la Madonna correva con paura e affanno, il Bambino co­minciò a piangere per la fame. La Madonna, per non farsi scoprire dai soldati di Erode, cominciò ad al­lattare il Bambino, ma correva sempre; e per via di quella corsa dalla bocca di Gesù cadevano gocce di latte, che diventavano stelle... Ecco perché si chiama la via del latte.
— Voi non sapete perché i lupini sono amari. I lupini sono amari per questo: un giorno la Madonna correva per salvare Gesù dai soldati di Erode, e mentre correva si trovò a passare da un campo seminato a lupini. Si era in luglio e i lupini erano duri, e sapete che i lupini fanno rumore, quando sono duri. La Madonna si arrabbiò e disse ai lupini: po­teste diventare più amari del veleno... E i lupini infatti sono più amari del veleno. E si continua all'infinito con queste trasfigurazioni, in cui l'umano prende il posto del divino. Ma ecco le campane: la messa della mezzanotte suona. Tutti vanno ad ascoltare la messa. La chiesa è zeppa, la notte di Natale, illuminatissima, per via di decine di lumiere a olio accese intorno al paese. Grandi lumiere mandate dai ricchi, che solitamente non vanno nella casa di Dio. Loro, Dio che l'hanno in casa, nel presepe illuminato elettricamente. Il Bambino del loro presepe è di cera o di plastica, in una bella stalla che ti dà subito un senso di caldo e di benessere, con quella paglia finta, morbida, con due pastori comprati nei negozi e dell'aria aristo­cratica e quei magi alla Gentile da Fabriano. Insomma, il Natale dei ricchi borghesi della Calabria è uguale a quello di ogni borghese del mondo: scambio di doni, la letterina dei ragazzi sotto il piatto dei genitori, musica, televisione, eccetera. Lontano le mille miglia dalla tradizione. Che invece continua in quel presepe rustico, nel fuoco che arde sulla piazza e nei giochi sfrenati dei ragazzi, i quali desiderebbero che Natale non finisse mai. Ma il Natale finisce con la messa della mezzanotte; e finisce in sonno e stanchezza; e con la venuta del giorno arriva anche la tristezza per la festa che sta per morire. Ma non è propriamente per la festa che finisce, ma perché dentro di noi c'è qualche piccola cosa che passa, che muore. Infatti l'eterno pensiero che gli adulti ripetono ogni anno è:
— E passato questo Natale. Chi sa se il prossimo Natale saremo tra i vivi!
E i ragazzi più maturi si dicono:
— Chi sa se l'anno venturo potremo giocare quanto quest'anno!
Saverio Strati
da «Le vie d'Italia», Milano, dicembre 1961.

Segnalato da Giuseppe Bello - dicembre 2008