Il
Natale ha lasciato certamente dei ricordi
inconfondibili, nel fondo del nostro cuore,
sia che abbiamo trascorso la fanciullezza
in un ambiente agiato, sia che l'abbiamo
trascorsa in un ambiente povero. E tutto
questo perché il Natale è la festa dei
bambini: festa che attendono con ansia per
mesi, e durante la quale si trovano in pace
accanto ai loro più intimi congiunti e
sentono narrare la storia di un altro
bambino, straordinario bambino, figlio di
Dio diventato umile uomo. Una storia che
affascina e che accende la loro fantasia;
come ha acceso la nostra, e ci ha fatto
desiderare di essere anche noi come quello,
straordinario, nato in una mangiatoia in una
delle più lunghe e più fredde notti
dell'inverno, perché una stella nel cielo
brillasse apposta per noi e perché anche
noi fossimo capaci di compiere miracoli per
il bene dell'umanità. La festa del focolare,
della famiglia, il Natale, della rinascita,
della speranza e della vita stessa che si
ripete sempre. E amata, desiderata; pare che
la stessa natura vi partecipi. Ti comunica
infatti, anche ora che alle
feste guardi con distacco e fastidio, un
senso di sovrumana pace, che come un velo
invisibile pare si stenda dalle altezze del
cielo su ogni lembo di terra e penetri
nell'animo di ogni uomo. Ma quanti paesi non
abbraccia il Natale con la sua universalità,
quanti costumi, usi e problemi diversi! Per
un ragazzo del nord il Natale corrisponde
certamente a vetrine illuminate e zeppe di
giocattoli e di robe di ogni genere,
all'albero dove sono appesi dei regali; e
forse non avverte la preoccupazione dei
genitori per la mancanza di soldi o di
lavoro o addirittura del pane quotidiano.
Per un ragazzo del sud, al contrario, il
Natale prende un altro aspetto, gli si
presenta con altra faccia. Innanzitutto, le
manifestazioni delle feste natalizie sono
più autentiche nel sud che nel nord, più
vicine al racconto evangelico. L'albero,
per esempio, che è di origine nordica e che
non ha nulla a che vedere con la nascita di
Gesù, è quasi totalmente ignorato. C'è il
presepe, che ripete pari pari la storia
della nascita del figlio di Dio. Ma il
presepe in casa è segno di ricchezza: cioè
vien fatto nelle case dei ricchi. Nelle case
dei contadini o degli operai e artigiani non
si fa il presepe. Lo si prepara in chiesa.
Ed è opera popolare, costruito, messo su
dall'abilità e spesso dalla genialità dei
più bravi ragazzi; e concesso al godimento
dei poveri attraverso la Chiesa, sempre
mediatrice tra Dio e popolo. Ma ai ragazzi
tutto ciò non importa, e gli adulti
rimangono indifferenti a questi problemi,
per loro non importanti, tanto sono presi
dal problema pane. Ai ragazzi interessa
invece poter collaborare alla costruzione
del nuovo presepe. E ci collaborano infatti
costruendo, plasmando con le abili dita
personaggi di creta, che dopo qualche mese
si spappolano. E creano Madonne, re magi,
pastori, popolani, animali domestici; e
cercano del musco, delle scorze di alberi,
dei rami e costruiscono, in collaborazione
con il sacrestano e sotto la guida del
prete, la stalla, un piccolo paese;
disegnano un cielo stellato e una grossa
cometa; e fanno valli e monti, esprimendo la
natura e il paesaggio della propria terra. E
il presepe vien su, in due-tre giorni di
preparativi, di ricerche piacevoli e che
appassionano i ragazzi più estrosi. E sarà,
alla fine, un presepe più o meno uguale a
quello di sempre e che ripete la storia,
eterna com'è eterno il sorgere del sole, del
più famoso Bambino che sia mai nato. E
questo bambino è lì coricato sulla paglia,
nudo, anche lui spesso di creta come un
qualsiasi pastore; e certo trema di freddo,
ma è riscaldato amorevolmente dal fiato
della mucca e dell'asino. Cose niente
affatto fantastiche per i piccoli vaccari
che la notte di Natale vanno nella chiesa
per vedere e godere e si mettono accanto al
presepe illuminato e osservano meravigliati
e anche felici quel mondo fantastico per la
tanta luce di lampade e gigantesche lumiere
a olio. E per quei piccoli vaccari il figlio
di Dio è uno come loro: anche lui certo avrà
sentito i brividi del freddo e sarà stato
punto da qualche spina o dai duri fili di
paglia, e avrà sentito il caldo fiato uscire
dalle narici degli animali. Il loro mondo
rustico riprodotto lì in immagini di creta,
in quel vasto ambiente illuminato che è la
casa di Dio, come usano dire, li stordisce e
li porta a fantasticare sull'incredibile
favola che è stata la fanciullezza del
figlio dell'uomo, che ogni anno rinasce e
porta speranza e ansia. Speranze e ansie che
durano mesi e mesi.
Che per mesi i ragazzi della Calabria si
mettono in aria di feste natalizie. Dalla
fine di ottobre in poi incominciano a
giocare alle nocciole. Gioco che per i più
bravi ha importanza capitale, per il fatto
che vincono e vendono e risparmiano i pochi
soldi con i quali, se la mamma non glieli
prende per i suoi bisogni, si comprano i
calzoni o la veste. Gioco che dura per
giornate intiere per le vie e sulle
piazzuole: spesso con scontri violenti di
capricci; ma più spesso dà loro
un'indescrivibile intima allegria quel
correre e gridare in una specie di
esaltazione; e a quei genitori che
rimproverano loro tanta spensieratezza,
rispondono che anche Gesù Bambino, quando
aveva la loro età, certamente giocava per le
vie di Betlemme.
Ansie incredibili per i bambini più poveri:
certo i genitori compreranno loro le scarpe.
Le scarpe?! Forse. Ma ancora è presto. A
dodici anni le scarpe. Impossibile! Ma certo
compreranno la veste che costa meno che le
scarpe, o la camicia, o i calzoni, dato che
quelli che hanno addosso già cascano a
brandelli, dopo mesi e mesi... Certo anche
Gesù Bambino sarà andato a piedi nudi per le
vie del suo paese, e anche lui avrà avuto i
calzoni a brandelli, visto che anche lui era
figlio di gente povera. Suo padre era un
povero falegname. Cosa poteva guadagnare? Ma
certo Gesù era scalzo perché voleva. Ma chi
sa, invece, quante buone cose, quest'anno,
non mangeranno la notte di Natale. Certo
pasta e pescestocco, come sempre, Se ne
prepara tanto pescestocco per la notte di
Natale e a tutti è concesso saziarsene, una
volta tanto. Che bellezza! Che altro di
buono si mangerà? Le «zeppole», le «pittelle
di San Martino». (Sono, le «zeppole», una
pasta di pane
con dentro una sarda salata, e vien bollita,
più che fritta, in una grande padella piena
d'olio. In quanto alle «pittelle di San
Martino», si dà questo nome a un dolce
preparato con noci, fichi secchi, uva
appassita, macinati e impastati con vino
cotto). E a volontà, perché la mamma ne
mette una tafferia piena sulla tavola e
anche i ragazzi ne possono prendere a
piacere loro. Non sarà necessario rubare di
queste robe, che di solito sono nascoste in
qualche angolo della casa... Che arriva
presto Natale. E Natale si avvicina sempre
più, come se avesse fretta anch'esso di
appagare i desideri dei bambini. Siamo già
in periodo di novena. C'è la messa alle
quattro del mattino. Fa freddo, a quell'ora,
eppure i ragazzi desiderano essere svegliati
dalla nonna, che alla sua età non pensa che
al bene dell'anima e non perde messa e non
fa che snocciolare rosari, per presentarsi
con la coscienza a posto davanti al giudizio
di Dio. E i ragazzi non si fanno chiamare la
seconda volta. Scalzi, infreddoliti vanno
anch'essi alla messa delle quattro, non
certo per pregare. Osservano, curiosano,
imparano nello stesso tempo, raccogliendo
nella memoria la tradizione.
La chiesa è incredibilmente fredda, a
quell'ora, male illuminata. Le ombre ti
riempiono l'animo di tristezza. Ma si va
animando di minuto in minuto: si riempie di
vecchie imbacuccate nei grandi fazzolettoni
di lana; di contadini che solitamente si
alzano presto, per andare al campo lontano
ore di cammino, per seminarvi il grano.
Perdere mezz'ora in chiesa e ascoltare un
poco della messa non è male, non sarà tempo
perduto. Dio osserva e gradisce di essere
visitato nella sua casa, pensano; e pensando
a questo modo continuano il perpetuo
dialogo tra loro e Dio-uomo, tra loro e
Dio-signore potente che per ricevere deve
anche concedere. Intanto incominciano i
canti delle donne: la luce del sole sta per
rinascere, la gioia dell'umanità sta per
venire sulla terra; e seguono ninne-nanne.
Ninne-nanne gonfie di premure, calde di
affetto, ma non di un affetto materno: è
come se uno sconfinato numero di serve
stessero cullando il neonato del loro
potente signore. E questa mancanza di
affetto materno si avverte per il fatto che
le ninne-nanne sono creazioni, rifacimenti
di sacerdoti e non canti popolari. È strano
che le manifestazioni natalizie pur essendo
le più vicine alla storia evangelica e le
meno intrise di paganesimo, siano invece, in
Calabria, almeno per quello che consta a
noi, le meno cantate dalla fantasia
popolare. La stessa cosa non succede per la
Passione di Cristo. Ma questo è un altro
discorso. Il ragazzo, dominato sempre dalla
sua sete di conoscere, ascolta e impara. La
chiesa s'illumina, incomincia la
celebrazione. Ma da fuori vengono grida
festose: è per il fuoco che fuori lingueggia.
Il ragazzo esce. Non gl'interessa più la
celebrazione, il canto. Vuole essere in
mezzo agli adulti, ai giovani. Infatti i
giovani sono intorno al fuoco e gridano e si
spingono, e altri arrivano con fasci di rami
in ispalla, e le fiamme si alzano al cielo,
facendo cadere una pioggia di cenere.
Portate, rubate dovunque fasci di rami —
dice qualche anziano. — Il fuoco è per il
Bambino, che ha freddo. È in suo onore che
si accende; che anche lui ha voluto nascere
nudo come noi. Andate per altri fasci di
rami, cercate, trovate. Gesù Bambino si
sciala anche lui di vedere queste fiammate
alte come il campanile.
E rubare fasci di rami per Gesù Bambino non
è vergognoso, non è un reato, anche se la
donna derubata spesso arriva strillando e
minacciando di denunciare i ladri alla
legge. La messa finisce, il fuoco si spegne,
e i contadini partono per i campi lontani.
Arriva il giorno e con esso i ragazzi si
riversano per le strade e giocano, giocano
pazzamente alle nocciole, pensando alla
lungo notte di Natale, alla mattina della
vigilia quando la mamma si alza dopo la
mezzanotte, per preparare le cose fritte:
«zeppole» e «nocatole» (ciambelle di farina
di grano tenero impastate con olio e bollite
nell'olio). Non è Natale, in una famiglia,
se mancano le cose fritte; e ogni padre fa
di tutto per procurare olio, farina, sarde
salate, fichi secchi, noci, affinché i suoi
figli non abbiano a guardare le mani degli
altri ragazzi. Che chiodo per un padre se ai
suoi bambini mancano le cose fritte. Ma non
devono mancare, a costo di tutto. E fanno
debiti presso i più ricchi: cibarie contro
energia di braccia. E questi gravi e
amorevoli sacrifici sembra passino
inosservati, invece si sedimentano,
involontariamente, nell'animo di ogni
bambino e verranno fuori nei momenti
opportuni: verranno rievocati più
particolarmente la notte di Natale, quando
tutti si è assieme accanto alla piccola
tavola e il fuoco arde nell'angolo della
fuligginosa cucina in onore del santo
Bambino, e lumiere e lanterne illuminano la
notte in cui nasce il figlio di Dio.
— Accendete, accendete, ragazzi! Non badate
stanotte all'economia di olio — dice la
madre, che quella sera è più aperta, più
buona: è dispensatrice di cibi e di parole
amorose e di calde cure per tutti.
— Accendete, accendete le lumiere, che anche
noi dobbiamo onorarlo per quello che
possiamo. Lui ci compatisce, se le nostre
forze sono scarse.
Poi incomincia la cena: la più lunga, la più
indimenticabile dell'anno. Si mangia la
pasta, poi il pesce-stocco. Carne no. La
vigilia di Natale è di magro, per i vecchi,
più che il venerdì santo, perché tutti gli
uomini sono in ansia per la venuta del
Messia. Ma i giovani, lamentano i vecchi,
non sono più disposti a rispettare le
usanze: mangiano tutto, anche carne, e si
divertono diversamente. Si parla, si
polemizza, ma si continua a mangiare e a
bere abbondantemente.
— Ricordatevi che si devono mangiare tredici
cose diverse — ricorda la nonna, la più
vecchia pianta della famiglia.
Sono tutti riuniti nella casa del nonno, che
vuole avere il piacere di stare, forse per
l'ultimo Natale, tra i suoi figli. Di averli
li, in quella piccola casa dove sono nati e
cresciuti, dove hanno avuto tante
preoccupazioni in comune che ora rievocano.
Peccato che qualche figlio manca: Vincenzo è
in Australia, il marito di Maria in Brasile.
— Ma sono presenti tra noi in ispirito —,
dice il nonno. — Beviamo alla loro salute.
Ma Maria non può distogliere il pensiero dal
marito lontano; e subito incomincia a
ripetere parte dell'ultima lettera di lui:
— Cara sposa — mi dice nella lettera —
voglio che i bambini mangino bene, questo
Natale. Ricordati che la festa del Natale si
ricorda per tutta la vita. Che pena se la
passi male, come ti viene in mente! E
vestili bene, i bambini, con un vestito
nuovo per uno; state tutti i parenti insieme
e bevetevi una bottiglia di quel nostro vino
alla mia salute. Ricordati, cara sposa, che
io penso a voi, per tutta la notte di
Natale... E non fate risparmio: io lavoro e
qualche cosa la guadagno.
E
subito che Maria tace, la nonna ripete anche
lei parte dell'ultima lettera di suo figlio
lontano:
— Cara mamma — mi dice quel figlio benedetto
mio — ti mando questi pochi soldi, perché tu
ti compri il caffè. Mi ricordo che ti
piaceva tanto. E ricordatevi, cara mamma, di
me, mentre state tutti insieme la notte di
Natale... E mangiate e bevete del meglio,
perché io mi ricordo, cara mamma, certi
brutti Natali che non mi posso mai
dimenticare. Ma ora sono cresciuto e ho
visto che il mondo non è il nostro paese.
Con tutto questo, se sai quanto mi
piacerebbe essere al paese, per rivedere
tutti voi, e vedere anche il presepe nella
chiesa e andare a rubare, come quand'ero
ragazzo, rami e tronchi per il grande fuoco
in piazza... — La voce della nonna trema,
qualche lacrima bagna i suoi occhi. Tace.
Gli animi s'inteneriscono, le rievocazioni
continuano. Il nonno prende a parlare dei
suoi tempi, di quando, più di sessant'anni
fa, il Natale era più bello, perché si
suonavano le zampogne ogni sera, per tutto
dicembre, e il grande fuoco davanti alla
chiesa durava per tutta la notte e il giorno
di Natale. La gente era più tranquilla, più
generosa. E qui vien fuori suo nonno che era
uomo allegro e voleva sempre tutti in casa e
li ubriacava ed era felice di vederli
ubriachi. Di quest'uomini non se ne trovano
più; ma bisogna dire, ammette il nonno, che
allora i più stavano assai peggio di ora:
c'era gente che non metteva niente in bocca
per giorni intieri. E si va avanti a questo
modo per ore, mentre le lumiere e il fuoco
ardono allegramente; e si raccontano storie
vecchie e nuove, di gente lontana e vicina.
Di gente morta nelle guerre, di altra che si
è persa nel mondo senza dare mai notizie di
sé. E si scende nelle generazioni e si scava
in profondità, per trovarvi la linea di
parentela e spesso vengono fuori storie
suggestive, per il modo come sono narrate:
come racconti biblici. Ma i racconti più
straordinari e che la notte di Natale
vengono detti ai ragazzi sono certe leggende
su Gesù e la Madonna. Racconti evangelici
trasfigurati, ma ugualmente suggestivi.
— Nel cielo, se guardate una notte d'estate,
vedete una lunga striscia bianca — dice
qualcuno. — Quella striscia bianca si chiama
la via del latte. E si chiama la via del
latte, perché la Madonna correva via da
Betlemme per salvare il Bambino dall'ira di
Erode, che non voleva che sulla terra
venisse il Messia a prendergli il regno.
Ora, mentre la Madonna correva con paura e
affanno, il Bambino cominciò a piangere per
la fame. La Madonna, per non farsi scoprire
dai soldati di Erode, cominciò ad allattare
il Bambino, ma correva sempre; e per via di
quella corsa dalla bocca di Gesù cadevano
gocce di latte, che diventavano stelle...
Ecco perché si chiama la via del latte.
— Voi non sapete perché i lupini sono amari.
I lupini sono amari per questo: un giorno la
Madonna correva per salvare Gesù dai soldati
di Erode, e mentre correva si trovò a
passare da un campo seminato a lupini. Si
era in luglio e i lupini erano duri, e
sapete che i lupini fanno rumore, quando
sono duri. La Madonna si arrabbiò e disse ai
lupini: poteste diventare più amari del
veleno... E i lupini infatti sono più amari
del veleno. E si continua all'infinito con
queste trasfigurazioni, in cui l'umano
prende il posto del divino. Ma ecco le
campane: la messa della mezzanotte suona.
Tutti vanno ad ascoltare la messa. La chiesa
è zeppa, la notte di Natale, illuminatissima,
per via di decine di lumiere a olio accese
intorno al paese. Grandi lumiere mandate dai
ricchi, che solitamente non vanno nella casa
di Dio. Loro, Dio che l'hanno in casa, nel
presepe illuminato elettricamente. Il
Bambino del loro presepe è di cera o di
plastica, in una bella stalla che ti dà
subito un senso di caldo e di benessere, con
quella paglia finta, morbida, con due
pastori comprati nei negozi e dell'aria
aristocratica e quei magi alla Gentile da
Fabriano. Insomma, il Natale dei ricchi
borghesi della Calabria è uguale a quello di
ogni borghese del mondo: scambio di doni, la
letterina dei ragazzi sotto il piatto dei
genitori, musica, televisione, eccetera.
Lontano le mille miglia dalla tradizione.
Che invece continua in quel presepe rustico,
nel fuoco che arde sulla piazza e nei giochi
sfrenati dei ragazzi, i quali desiderebbero
che Natale non finisse mai. Ma il Natale
finisce con la messa della mezzanotte; e
finisce in sonno e stanchezza; e con la
venuta del giorno arriva anche la tristezza
per la festa che sta per morire. Ma non è
propriamente per la festa che finisce, ma
perché dentro di noi c'è qualche piccola
cosa che passa, che muore. Infatti l'eterno
pensiero che gli adulti ripetono ogni anno
è:
— E passato questo Natale. Chi sa se il
prossimo Natale saremo tra i vivi!
E i ragazzi più maturi si dicono:
— Chi sa se l'anno venturo potremo giocare
quanto quest'anno!
Saverio Strati
da «Le vie d'Italia», Milano, dicembre 1961.