LA REPUBBLICA DI SALO' E LA
RESISTENZA
di Giacomo Morandi -
undicesima puntata
LA LIBERAZIONE
E’sintomatico che questa parola venga usata in tutta
l’Europa per indicare il giorno o i giorni in cui le
truppe tedesche e dei loro alleati dovettero abbandonare
i territori e le città occupate lasciando il campo agli
alleati o alle forze della Resistenza. In Italia,
cominciando da Palermo, addirittura prima
dell’armistizio, passando per Napoli, Roma, Firenze,
Bologna, Torino, Milano e per tutte le altre città
italiane, le truppe alleate e, nel nord, le formazioni
partigiane che spesso le precedettero furono ovunque
accolte con gioia e con grandi manifestazioni popolari.
E’ vero che una parte dei manifestanti era la stessa che
negli anni precedenti aveva applaudito il Duce e le sue
guerre di aggressione, ma ciò non toglie nulla al fatto
che nei giorni della liberazione gli italiani si
sentissero dei vincitori, fossero felici della fine
dell’incubo che per venti mesi li aveva avvolti, con la
guerra in casa, le privazioni, la dura occupazione
tedesca e la persecuzione fascista.
Gli
alleati in Aprile ripresero l’iniziativa militare in
Italia, dopo la sosta invernale, in sincronia con
l’azione in Germania, ad ovest e, da parte dei russi, ad
est, dove ormai le armate di Hitler erano state
sopraffatte. I russi avevano già in gennaio ripreso
l’offensiva su quattro fronti contemporaneamente ed
erano arrivati a Berlino, in Austria e tutto
travolgevano nella loro formidabile avanzata, mentre gli
angloamericani si avvicinavano da ovest.
Sull’Appennino la Linea Gotica cedette definitivamente
nella seconda metà di aprile e gli alleati dilagarono
nella pianura padana e si diressero rapidamente verso il
Po ed oltre.
A
Rivergaro erano arrivati i partigiani, stavolta tutti
con divise color kaki e bene armati. Non vi furono
vendette od esecuzioni sommarie, solo qualche tosatura
di capelli ad alcune donne collaborazioniste. Diversi
militari fascisti avevano disertato e si erano fermati
in paese. Ne ricordo uno, appartenente alle SS italiane,
che sulla piazza principale del paese dava gran pacche
sulle spalle ai partigiani che gli rispondevano molto
freddamente, finchè uno di loro perse la pazienza e lo
apostrofò malamente, ma nessuno gli fece del male.
La
maggior parte delle formazioni si fermò in paese solo
poche ore, in attesa di ordini, poi proseguirono, in
parte su autocarri e in parte a piedi, verso Piacenza,
dove erano rimaste alcune unità di Salò, con autoblindo,
per proteggere la ritirata tedesca oltre il fiume Po, i
cui ponti erano stati distrutti l’anno prima.
Centinaia di partigiani circondavano la città quando da
est arrivarono alcuni carri armati americani. L’attacco
finale a Piacenza fu sferrato dalle brigate partigiane
del piacentino senza l’intervento degli americani il 28
aprile mattina e costò la vita ad alcuni giovanissimi
partigiani. Nella città rimasero solo alcuni franchi
tiratori irriducibili che sparavano di sorpresa e che
dovettero essere snidati ed eliminati ad uno ad uno.
Il 25
aprile Milano e Torino erano state liberate dalle forze
del Corpo Volontari della Libertà e grandi
manifestazioni popolari erano in corso quando a Piacenza
si combatteva ancora. Gli operai di moltissime fabbriche
tolsero dai nascondigli le armi che erano state nascoste
nei mesi invernali e presidiarono gl’impianti che i
comandi tedeschi avevano l’ordine di distruggere,
insieme alle centrali elettriche, ai ponti, ai nodi
ferroviari. Molti reparti tedeschi in fuga ormai avevano
perso la voglia di ubbidire agli ordini dei comandi e
badarono a salvarsi. Ma molti irriducibili tentarono
ugualmente di fare terra bruciata alle loro spalle. Per
fortuna vi riuscirono solo in piccola parte.
La
radio italiana trasmetteva ormai, da Milano, per conto
del C.L.N. e dava notizie di battaglie con i tedeschi e
della liberazione di una città italiana dopo l’altra. |
Anche
in Germania si era agli sgoccioli e praticamente la
residua resistenza da parte dei tedeschi a Berlino era
episodica, ma sufficiente a causare la completa
distruzione dei quartieri attaccati dall’Armata Rossa.
Fu data
la notizia della cattura di Mussolini e di molti
gerarchi sulla via della Svizzera e poi della loro
fucilazione. Il duce finì miseramente vicino a Dongo,
sul Lago di Como, con Claretta Petacci, la sua giovane
amante, dopo essere stato catturato da un gruppo di
partigiani che aveva bloccato la colonna tedesca nella
quale si era nascosto. Era su un autocarro tedesco con
indosso un elmetto ed un pastrano della Wehrmacht.
Il
Duce, quando si era reso conto che i tedeschi erano
vicini al collasso sperò di salvarsi, prima trattando
con gli odiati membri del CLN di Milano sotto gli
auspici del Cardinale di Milano Schuster, poi cercando
di organizzare una “ridotta” in Valtellina con alcune
migliaia di fascisti, ma quando vide che da un lato i
tedeschi stavano trattando direttamente la resa con gli
alleati senza preoccuparsi di lui e dei suoi e
dall’altro che le forze armate in camicia nera si erano
disperse, decise di aggregarsi ad una colonna tedesca in
ritirata per avvicinarsi alla frontiera svizzera, con
alcuni gerarchi e la fedele amante Claretta. Fu la sua
condanna, perché anche gli ultimi tedeschi lo tradirono.
Quando i partigiani della Brigata Garibaldi lo
scopersero nell’autocolonna in ritirata, i tedeschi
lasciarono che fosse catturato senza intervenire.
Claretta Petacci fu a sua volta arrestata e volle che la
portassero dal Duce, con il quale passò l’ultima notte
in una casa di contadini. Quando Mussolini fu portato
fuori per essere fucilato volle seguirlo e fu uccisa con
lui.
Molti
altri gerarchi riuscirono a defilarsi in tempo e non
seguirono il Duce quando lasciò la Prefettura di Milano,
si nascosero finchè la bufera passò e pochi furono poi
molestati o comunque beneficiarono di amnistie ed
indulti.
Vi
furono vendette ed esecuzioni sommarie di militi
fascisti e di piccoli gerarchi locali da parte di
squadre sparse di tendenza estremistica in alcune zone
dell’Emilia dove la popolazione ed i partigiani avevano
più sofferto e le vendette continuarono per alcune
settimane anche dopo la Liberazione. Altrove le
esecuzioni furono molto più sporadiche e limitate ai
primissimi giorni dopo la liberazione. La grandissima
maggioranza dei membri delle forze armate di Salò riuscì
a cavarsela anche grazie ad una pronta amnistia
decretata dal governo su iniziativa del leader comunista
Togliatti.
Vendette ben più gravi vi furono nell’Istria occupata
dalle truppe jugoslave di Tito, dove migliaia di
italiani, definiti “fascisti” e molti lo erano ma molti
altri no, furono uccisi e gettati nelle foibe, profonde
grotte e fenditure carsiche, e tanti altri furono
costretti a lasciare le loro case ed a fuggire verso
l’Italia, pagando il prezzo della politica aggressiva e
delle persecuzioni nei confronti degli slavi praticata
per anni ed anni dal regime fascista.
La
salma di Mussolini, quella di Claretta e degli altri
gerarchi fucilati a Dongo furono portate a Milano ed
esposte a testa in giù nel Piazzale Loreto, dove alcuni
mesi prima una quindicina di antifascisti e partigiani
erano stati fucilati e lasciati in esposizione per molte
ore.
Fu un
atto indubbiamente barbarico, ma ricordo bene che in
quel momento, nel clima di quei giorni, il solo
sentimento che la massa provava era di sollievo, come se
tutto il popolo italiano avesse voluto far giustizia
sommaria di un ventennio di dittatura e di
sopraffazioni, ma soprattutto delle violenze e delle
efferatezze di quei diciotto mesi di fascismo
repubblicano. Gli alleati volevano la consegna del Duce
per processarlo, ma la maggioranza dei membri del
Comitato di Liberazione e dei comandi militari
partigiani non voleva questa umiliazione ed approvò
l’esecuzione.
(continua) |