LA REPUBBLICA DI SALO' E LA
RESISTENZA
di Giacomo Morandi -
settima puntata
Verso la fine del mese di
giugno 1944 mio padre fu arrestato dalla Polizia
politica comandata dal famigerato Zanoni. Quel
pomeriggio io non ero a casa perché mi ero recato in
paese per incontrare alcuni amici. Quando tornai trovai
mia madre in lacrime e la zia Pina molto arrabbiata
perché insieme a mio padre avevano arrestato anche suo
marito, mio zio Ghito Perletti. Anzi, si seppe poi che
l’arresto era dovuto ad un errore. Cercavano un conte e
qualcuno aveva loro detto che da noi ce n’era uno, lo
zio Ghito, appunto. Poi si erano trovati di fronte
anche mio padre, che stava chiacchierando in giardino
con lo zio e, dopo un rapido controllo su certe liste
di cui erano in possesso, presero anche lui e portarono
ambedue a Piacenza, trasferendoli alle carceri. Nei tre
giorni successivi si svolsero continui interrogatori con
l’intervento dello stesso Zanoni che perquisì
minuziosamente anche la nostra casa di via Garibaldi. Il
quinto giorno furono inaspettatamente scarcerati e la
sera arrivarono a Rivergaro. Mio padre era furente,
mentre mio zio sfoggiò la sua consueta flemma. Si seppe
solo una quindicina di giorni dopo che l’arresto era un
errore per quanto riguardava mio zio, mentre
erroneamente la scarcerazione fu disposta per ambedue.
Infatti, due settimane dopo, quando già si erano avute
numerose scaramucce fra partigiani e repubblicani anche
a Rivergaro, si presentò a casa nostra una squadra della
Guardia Nazionale Repubblicana comandata da un ufficiale
che circondò la casa e chiese di mio padre. Una
contadina chiamò subito mia madre, mentre mio padre ed
io ci rifugiammo in un vecchio deposito semi diroccato,
nascondendoci sotto un cumulo di assi e di vecchie
“cannette” per i bachi da seta. Io però non resistetti
alla curiosità a guardai da una finestra, attraverso le
persiane chiuse, e vidi quattro o cinque armati che
parlavano con mia madre. L’ufficiale chiese “Signora,
c’è vostro marito?” Mia madre rispose con una voce che
mi stupì un po’ perché era quasi gioviale: “No. Non è a
casa. E’ partito qualche giorno fa per Milano e poi
forse andava a Brescia per lavoro” Il milite fece un
cenno ai suoi uomini che entrarono in casa aprendo
porte, guardando negli armadi, nei ripostigli, ovunque.
Passarono davanti alla porticina che conduceva nel
nostro magazzino e salirono le scale fino al secondo
piano. A quel punto si sentì sparare qualche colpo sulla
collina. I militi si precipitarono giù dalle scale e di
corsa raggiunsero il loro capo. Poi tutti insieme si
diressero verso il portone e se ne andarono.
Dopo una decina di minuti
si sentirono i motori dei loro camion sulla statale.
Tornavano a Piacenza, ma avevano arrestato alcune
persone del paese.
Mio padre ed io
preparammo velocemente una valigia e, dopo aver
abbracciato mia madre e le mie sorelle, ci avviammo
verso i campi che portavano al Trebbia, lo attraversammo
a guado e cominciammo a salire verso Pigazzano dove
sapevamo essere acquartierati i partigiani del
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Comandante Paolo. Sopra
a Statto incontrammo un motocarro con due
partigiani che ci fecero salire per portarci a Pigazzano.
Trovammo alloggio presso
una signora nei pressi della chiesa e ci fermammo tre
giorni, durante i quali io potei dar sfogo alla mia
curiosità nei confronti della brigata partigiana che
presidiava il paese, mentre mio padre parlava con questo
o quel capo, Paolo, Massimo, Sormani ed altri.
All’alba del quarto
giorno fummo svegliati da un intenso cannoneggiamento e
dal rumore di fucileria e di mitraglia appena sotto il
paese. Sparavano con un obice e con dei mortai dalla
strada comunale Statto-Travo. I partigiani di Paolo
erano asserragliati nel Castello dei Volpi e
rispondevano al fuoco. Vidi scoppiare sulle mura del
castello alcune granate che appiccarono un incendio.
Su consiglio del parroco,
Don Lunardini, prendemmo la nostra valigia e ci avviammo
sulla mulattiera che risaliva la costa verso Monticello,
mentre la battaglia continuava a poche centinaia di
metri da noi. Molta gente fuggiva da Pigazzano, alcuni
con carretti trainati da buoi. Anche alcune vetture con
partigiani a bordo arrancavano sulla mulattiera e
portavano in salvo armi e munizioni.
Dopo ore di cammino,
oltrepassato Monticello, giungemmo a San Giorgio di
Bobbiano, dove mio padre incontrò Fausto, il comandante
della “Giustizia e Libertà”. Capii che le cose non si
mettevano molto bene. I tedeschi ed i fascisti avevano
occupato la Val Trebbia schierando anche parecchi carri
armati, mentre altre forze avevano attaccato il Passo
del Penice e l’alta Val Tidone minacciando tutte le
brigate partigiane di accerchiamento.
Mio padre ed io decidemmo
di scendere nella contigua Val Luretta, in cerca di un
rifugio lontano dalla battaglia. Era già buio quando
raggiungemmo una casa di contadini vicino al greto del
torrente e chiedemmo asilo.
Nei pressi, nel castello
diroccato di Monteventano, c’era Muro con il suo
distaccamento. Anche lui conosceva bene mio padre e gli
disse che avrebbero cercato di resistere in zona e se
possibile su quella posizione fortificata e ciò in
effetti avvenne, anche perché i tedeschi dopo alcune
puntate offensive avevano arrestato la loro azione di
rastrellamento nel fondo delle valli, ad Agazzano, a
Bobbio ed a Rivergaro.
Noi trovammo accoglienza,
un paio di giorni dopo, a Pomaro in casa del parroco
Monsignor Gregori, un vecchio prete antifascista
confinato da anni in montagna. Monsignor Gregori ci
accolse affettuosamente anche perché era stato il
parroco di mia madre negli anni ’20 ed aveva celebrato
il suo matrimonio con mio padre nella Chiesa di
Sant’Anna a Piacenza, nel 1926.
(continua) |