LA REPUBBLICA DI SALO' E LA
RESISTENZA
di Giacomo Morandi -
nona puntata
Colpi di coda
L’inizio dell’inverno 1944-45, quando tutti speravano
che avrebbe segnato finalmente la fine dell’occupazione
tedesca e della guerra in Italia, scatenò invece nelle
valli e sui monti d’Italia la violenta e metodica
reazione dei tedeschi, affiancati dalle varie formazioni
militari e paramilitari della Repubblica di Salò.
Il
proclama di Alexander aveva dato loro respiro ed aveva
loro consentito di guadagnare qualche mese, in attesa
delle armi segrete che avrebbero, nelle loro speranze,
cambiato le sorti della guerra.
I
tedeschi ritirarono alcune divisioni dal fronte
appenninico e ne formarono altre impiegando prigionieri
di guerra asiatici dell’Armata Rossa (mongoli,
turchestani, ucraini, cosacchi, uomini che avevano
accettato l’arruolamento per sottrarsi al trattamento
disumano dei campi di concentramento) e mobilitarono
tutte le forze disponibili della Repubblica di Salò
(Brigate Nere, X Mas, SS Italiane, Legione Muti, nonché
quanto era rimasto delle quattro divisioni di Graziani)
e nella seconda metà di novembre attaccarono le
formazioni partigiane e percorsero in lungo ed in largo
tutte le valli ed i monti dal Piemonte all’Emilia, dalla
Lombardia al Friuli. I partigiani resistettero in molti
casi valorosamente, ma la sproporzione delle forze, la
deficienza di armamento adeguato, l’assoluta mancanza di
aiuto da parte degli alleati, lo scarso addestramento li
costrinsero a ritirarsi dai paesi e dalle zone occupate
stabilmente ed a disperdersi in piccoli gruppi o
addirittura a nascondere le armi ed a ritornare, per chi
poteva, alle proprie case, in attesa che il flagello dei
rastrellamenti passasse oltre.
Vi
furono molte vittime fra i combattenti e nella
popolazione civile. Molte case e cascine furono
incendiate, molti prigionieri furono passati per le armi
sul posto, altri furono deportati in Germania e, a
migliaia, non sarebbero più ritornati.
Vi sono
testimonianze inoppugnabili che smentiscono la tesi di
certa saggistica neofascista del dopoguerra che le forze
armate repubblicane non abbiano infierito sugli
italiani, partigiani, antifascisti o semplici civili.
Occorre dire invece che le varie formazioni fasciste,
inclusa quella parte dei militari appartenenti alle
divisioni di Graziani che non disertò al rientro in
Italia, si distinsero per crudeltà ed in molti,
moltissimi casi, superarono in ferocia i maestri
nazisti. Esistono lettere di militari indirizzate ad
amici o alle famiglie che testimoniano dell’odio per i
“ribelli”, del disprezzo razziale per i nemici di colore
che facevano parte delle armate alleate, per gli ebrei.
La propaganda ed i lavaggi del cervello subìti spiegano
in parte tali atteggiamenti, la disperazione per
l’incombente disfatta, la paura della prossima resa dei
conti ne spiegano altri. Non tutti però si comportarono
in quel modo. Molti di loro capirono finalmente da che
parte stava la civiltà e l’interesse nazionale e si
rifiutarono di continuare a lottare per dei falsi valori
e per la barbarie che minacciava l’Europa. Anche nelle
file tedesche i dissidenti o gli opportunisti
diventavano sempre più numerosi.
La
caccia all’uomo, comunque, da parte di tedeschi,
mongoli, cosacchi, ucraini, italiani delle più disparate
formazioni militari, continuò spietata per oltre due
mesi fra dicembre 1944 e gennaio 1945. La situazione
delle brigate partigiane e delle popolazioni delle valli
fu aggravata dalle condizioni climatiche. L’inverno
1944-45 fu infatti un terribile inverno, con nevicate
abbondantissime e temperature polari. Molte piccole
formazioni partigiane riuscirono peraltro a restare
unite e a conservare l’armamento leggero, aiutate e
soccorse dalle popolazioni montanare, ma tanti altri
combattenti furono catturati, fucilati o deportati nei
campi di concentramento in Germania.
Dopo la
guerra, Stalin pretese la consegna dei soldati sovietici
che avevano indossato la divisa della Wehrmacht. Si
disse che parecchie migliaia fossero stati fucilati o
deportati. Si salvarono, ma non tutti, coloro che
avevano disertato e che poi, a centinaia, avevano
combattuto a fianco dei partigiani.
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Il
grande rastrellamento, anche dalle mie parti, cioè nelle
valli del piacentino, iniziò negli ultimi giorni di
novembre.
Ingenti forze dotate di artiglieria da montagna,
costituite in massima parte da ex prigionieri di guerra
sovietici di origine asiatica comandati da ufficiali e
sottufficiali tedeschi, attaccarono per prima la Val
Tidone, da Pianello in su, mentre formazioni di Salò si
affacciarono alle testate delle Valli del Trebbia, del
Luretta e del Nure. |
Ricordo il forte bombardamento che noi sentivamo, da
Rivergaro, provenire da occidente, al di là delle
colline e delle montagne che sovrastano il paese.
Verso le 9 di sera, venne una donna ad avvisarci che i
repubblicani, scortati da autoblindo, stavano arrivando
dalla direzione di Piacenza, sulla strada statale. Mio
padre ed io preparammo in fretta un paio di zaini e ci
dirigemmo a passo svelto verso le colline, nel buio
della notte. Attraverso boschi e canaloni che io
conoscevo bene perché erano i miei luoghi di caccia,
scavalcammo il paese e scendemmo poi verso la statale
che raggiungemmo poco più di un’ora dopo, nei pressi
dell’osteria di Cisiano. Ci illudevamo che si trattasse
di una delle solite puntate offensive che si sarebbe
risolta entro la notte o il mattino dopo, ma il furioso
cannoneggiamento che sentivamo provenire dalla Val
Tidone non faceva presagire nulla di buono. Ormai si
sentiva una nutrita sparatoria anche da Rivergaro ed un
cannone sparava da Statto verso Diara. Ci dissero
trattarsi del cannoncino partigiano del Capitano Magrini
che sparava sui repubblicani, riparati dietro alle case
della frazione. Si udivano anche raffiche di
mitragliatrice e scariche di fucileria.
Ci
fermammo nell’osteria ed io dopo un paio d’ore mi
addormentai con il capo sul tavolo, incurante del rumore
della sparatoria. Fui svegliato prima dell’alba da mio
padre che mi disse che i partigiani continuavano a
resistere ma che presto si sarebbero ritirati per non
venire circondati dalle truppe che in Val Tidone erano
riuscite a sfondare le linee partigiane.
Ci
avviammo verso Perino ed imboccammo, insieme a tanta
altra gente, la valle omonima, in direzione del Passo
del Cerro. Arrivammo al passo prima di mezzogiorno,
sotto una pioggia persistente e gelata. Al passo c’erano
alcune centinaia di partigiani, alcune squadre bene
organizzate, altri avevano l’aspetto di sbandati.
Riconobbi un partigiano che avevo conosciuto a Pomaro,
in Val Luretta. Portava sulla spalla un grosso fucile
mitragliatore. Mi raccontò che i mongoli avevano
attaccato come forsennati ed erano riusciti a sfondare.
Il suo distaccamento era stato sopraffatto e si era poi
disperso. C’erano stati morti e prigionieri. Arrivò una
macchina con un ufficiale che mio padre riconobbe nel
Colonnello Canzi, comandante della zona partigiana del
piacentino. Canzi notò mio padre in mezzo alla folla e
lo fece accogliere su un autocarro che ci portò a
Bettola.
Ci
fermammo a Bettola qualche giorno, ospitati nella casa
del Dottor Cagliumi, poi mio padre partì su un autocarro
che portava alcuni membri del C.L.N. di Piacenza, fra i
quali l’avvocato Cerri e Monsignor Civardi, mentre io
decisi di ritornare a Rivergaro da mia madre, nonostante
il parere contrario dei Cagliumi. I tedeschi
continuavano ad avanzare nelle valli ed al Passo del
Cerro era stata organizzata un’estrema resistenza. Si
sperava nell’intervento dell’aviazione alleata, ma il
tempo era pessimo, pioveva, nevicava a tratti e tutte le
montagne erano immerse nella nebbia più fitta. Si
sentiva sempre sparare a distanza. Erano mortai,
mitragliatrici e scariche isolate. Bettola era diventata
il crocevia di tutte le brigate in ritirata e c’era un
traffico al quale non eravamo abituati.
Mi
avviai una mattina da solo per la strada di fondo valle.
Verso Biana guadai il Nure quando una pattuglia di
partigiani mi avvisò che a Ponte dell’Olio, pochi
chilometri più a valle, era in corso una battaglia con i
repubblicani che erano ancora bloccati all’ingresso del
paese.
Mi
inerpicai sui monti con grande cautela. Quando sentivo
dei movimenti nel bosco o sui sentieri mi nascondevo e
restavo fra i cespugli senza muovermi.
Arrivò il buio e con la fitta nebbia persi
l’orientamento. Arrivai vicino ad una casa e fui accolto
da una famiglia di contadini che mi diedero del latte ed
un pezzo di formaggio. Potei asciugarmi i vestiti
inzuppati di pioggia vicino al fuoco e decisi di
continuare il cammino verso casa. La salita verso la
costa era abbastanza ripida, ma ero allenato alla
montagna, finchè giunsi sul crinale che sapevo dividere
la Val Nure dalla Val Trebbia. Più di una volta dovetti
nascondermi nella boscaglia perché avevo sentito delle
voci che parlavano lingue straniere. Dovevano essere
pattuglie di mongoli. Persi di nuovo l’orientamento,
anche se continuavo a scendere verso il basso, ma non
volevo capitare in un centro abitato, Rivergaro o
qualcuna delle sue frazioni. Vidi una cascina e bussai
alla porta. Mi dissero che ero alla Rodina, quindi a
poco più di un chilometro da casa. Mi scongiurarono di
non proseguire perché c’era il coprifuoco ed i sentieri
erano sorvegliati. Ormai sapevo dov’ero e quei boschi li
conoscevo come le mie tasche. Continuai il cammino
finchè arrivai al cancelletto del giardino di casa mia.
Lo scavalcai e scesi per la collina fino a casa.
In
cortile non c’era nessuno. Era mezzanotte e non c’erano
luci, ma dalla finestra di casa mia vidi trapelare la
fioca luce di una candela. Bussai sui vetri. Si affacciò
mia madre.
(continua) |