LA REPUBBLICA DI SALO' E LA
RESISTENZA
di Giacomo Morandi -
dodicesima puntata
Anche
il Fuhrer fece una tragica fine ed alcuni dei suoi più
stretti collaboratori lo seguirono nella medesima sorte.
Con l’Armata Rossa ormai a un tiro di schioppo dal suo
bunker di Berlino, Hitler si tolse la vita insieme alla
sua amante Eva Braun, dopo averla sposata in extremis.
Goebbels, il più importante dei gerarchi nazisti, che
aveva seguito Hitler nel bunker con tutta la famiglia,
si suicidò con la moglie, dopo aver ucciso i suoi
bambini.
L’Ammiraglio Doenitz, dal Fuhrer designato suo
successore in punto di morte, si affrettò a chiedere
l’armistizio agli alleati. La guerra in Europa era
finita, dopo oltre cinque anni, ed era finita
praticamente con la distruzione della Germania.
Dopo
quattro mesi, anche il Giappone, già sulla difensiva da
due anni, gettò la spugna, ma ci vollero due stragi.
Quelle causate dal lancio di due bombe atomiche, a
Hiroshima e a Nagasaki. Gli americani dissero che se non
avessero posto fine alla guerra in quel modo, le vittime
provocate da un’eventuale invasione delle isole
giapponesi, accompagnate da intensi bombardamenti come
era avvenuto in Germania, sarebbero state dieci volte
superiori e certamente avevano ragione. La decisione del
Presidente americano Truman di far esplodere le due
bombe atomiche sulle città giapponesi ebbero
indubbiamente un contenuto d’immoralità e di cinismo
difficili da negare, ma la guerra condotta sia dai
giapponesi che dai tedeschi negli anni precedenti era
stata totalitaria, senza riguardo per i civili, neppure
per i propri cittadini, e le atrocità commesse ovunque
allo scopo di eliminare intere popolazioni erano ormai
chiare a tutti. Si trattò di scegliere fra il
proseguimento della guerra convenzionale, con la
necessità di invadere le isole giapponesi ad una ad una,
previa distruzione di intere zone e città da parte
dell’aviazione, e il sacrificio di alcune decine di
migliaia di innocenti con due sole esplosioni.
Fu una
scelta terribile che tuttavia, giudicata da tutti gli
storici a posteriori, fu raramente condannata e comunque
giudicata il male minore. Gli stessi giapponesi in fin
dei conti ne furono beneficiari, se si può usare questa
espressione non certo felice, perché portò alla caduta
della casta militarista e imperialista che aveva
storicamente dominato la vita del paese e
all’instaurazione della democrazia, ponendo le basi del
nuovo Giappone, prospero e civile.
Con la
Liberazione, tutti vennero a conoscenza dell’enormità
dei crimini commessi dal Nazismo nei campi di
internamento, principalmente in Germania e in Polonia.
Le truppe sovietiche avanzanti da oriente scoprirono
vasti campi per prigionieri ebrei, dove da anni si
procedeva all’eliminazione fisica di milioni di ebrei,
uomini, donne, bambini. Già dal gennaio 1945 Auschwitz
era stato raggiunto e parecchie decine di migliaia di
scheletri viventi erano stati liberati ed i racconti
degli orrori cominciavano a diffondersi anche da noi
attraverso le radio alleate, ma c’era chi affermava che
si trattava di propaganda. Purtroppo la realtà fu
infinitamente peggiore di quanto si disse allora e gli
stessi alleati non ne immaginavano l’enormità.
Quasi
sei milioni furono gli ebrei uccisi nelle camere a gas
per ordine di Hitler e l’apparato organizzativo del
regime diede corso puntigliosamente e con grande
efficienza prima alla loro cattura, poi al trasporto
con migliaia di treni che arrivavano ai campi con
puntualità teutonica ed infine all’uccisione in massa
nelle camere a gas e all’eliminazione nei forni
crematori che negli ultimi mesi lavorarono a pieno
ritmo. L’operazione, chiamata dopo la guerra dagli ebrei
“Shoa”, è per il resto del mondo l’”Olocausto”.
Anche
in Italia, dove gli ebrei erano poco più di ventimila, i
tedeschi ne catturarono oltre ottomila, con la
collaborazione delle polizie e delle forze armate di
Salò. Poco più di duemila, degli ebrei italiani, si
salvarono in un modo o nell’altro.
Nel
pressi di Trieste c’era l’unico campo di sterminio
italiano, alla Risiera di San Sabba, dove gli ebrei e
gli oppositori antifascisti italiani e slavi eliminati
nel forno crematorio furono parecchie migliaia. |
* * * *
Nei
giorni della Liberazione la nostra radio si ruppe.
Sentivamo le notizie solo accostando l’orecchio
all’altoparlante e la voce lontana parlava della
liberazione delle città, della rotta delle truppe
tedesche, dell’avanzata degli alleati.
Non
era molto prudente andare in giro perché gli aerei
alleati continuavano a mitragliare a bassa quota le
strade, ma la gente non stava più nella pelle.
Mio
padre era ancora lontano da casa, ma avevamo avuto sue
notizie qualche settimana prima e mia madre era andata a
trovarlo, camminando fra le montagne per un intero
giorno, in un paesino dell’alta Valnure, Cogno San
Bassano.
Il
26 aprile inforcai la bicicletta e pedalai verso
Piacenza perché si diceva che lungo la strada erano
arrivati gli americani. Incontrai infatti, alla curva di
Ponte Vangaro, un grosso carro armato fermo su un lato
della strada con il cannone puntato verso Rivergaro. Mi
stupii un po’ perché sapevo che i tedeschi erano a
Piacenza, ma un partigiano che sorvegliava la strada mi
spiegò che si temeva uno sfondamento lungo la Val
Trebbia da parte dell’armata tedesca che era
intrappolata a Genova ed in Liguria. Arrivò però la
notizia, ben presto, che le forze tedesche si erano
arrese ai partigiani genovesi e che anche la Liguria era
libera.
A
Piacenza si combatteva ancora, tuttavia, e la città
sarebbe stata liberata solo due giorni dopo.
Tutti i paesi erano imbandierati e la gente era tutta
fuori. Arrivarono anche due autocarri con a bordo
soldati italiani dell’Esercito di Liberazione e furono
molto festeggiati. Le campane delle chiese suonavano in
continuazione. Anch’io mi misi a suonare a distesa la
campanella sul tetto della casa dei miei zii che
cercarono inutilmente di farmi smettere. Temevano che i
fascisti ed i tedeschi potessero ritornare, com’era
successo tante altre volte. Ma stavolta era finita, era
proprio finita davvero.
Mio
padre tornò a casa alla fine del mese. Ricordo che
arrivò con un furgoncino guidato da un partigiano
siciliano che restò con noi fino a sera. Mio padre aveva
portato con se un bel formaggio provolone e fu una gran
festa per tutta la famiglia.
L’anno successivo alla Liberazione fu indetto, in
conformità agli accordi, il Referendum popolare per
decidere sulla forma istituzionale dello stato,
Monarchia o Repubblica. La Repubblica vinse con uno
scarto di circa due milioni di voti. Il centro-nord votò
in gran maggioranza per la repubblica, mentre il sud
preferì la monarchia. Umberto II, diventato re solo un
mese prima (fu infatti chiamato il Re di Maggio), nei
primissimi giorni fu tentato, su consiglio del suo
entourage, di contestare il risultato del referendum a
causa dell’elevato numero di schede bianche o nulle, ma
dopo l’intervento energico del governo presieduto dal
democristiano De Gasperi, decise di partire senza
attendere l’omologazione della Corte di Cassazione che
infatti di lì a pochi giorni confermò la vittoria della
Repubblica. Umberto si comportò responsabilmente e prese
atto della volontà popolare. I voti a favore della
monarchia furono più numerosi del previsto, soprattutto
perché molti temevano il cosiddetto “salto nel buio”.
Da
allora, la forma repubblicana dello stato italiano non è
stata più messa in discussione e il prestigio dei vari
Presidenti succedutisi al Quirinale negli anni
successivi ne ha confermato la stabilità.
La
grandissima maggioranza degli italiani ha ormai
acquisito il principio che la monarchia, cioè
l’ereditarietà dell’ufficio di Capo dello Stato da parte
di una dinastia, è anacronistica. Solo pochissimi
nostalgici continuano a coltivare tale idea legata ad un
altro anacronismo, quello dell’ereditarietà dei titoli
nobiliari aboliti dalla nostra Costituzione ma tuttora
utilizzati anche nella nostra società repubblicana, che
contrasta con il sistema democratico, nel quale il
popolo, i cittadini, sono sovrani.
(continua) |