LA REPUBBLICA DI SALO' E LA RESISTENZA
di Giacomo Morandi - decima puntata

Il mese di dicembre fu triste anche perché i tedeschi ed i fascisti avevano riacquistato tracotanza a causa delle vittorie conseguite sulla Resistenza, delle nuove speranze legate all’entrata in esercizio delle nuove armi tedesche, le V1 e le V2 che avevano consentito la ripresa dei bombardamenti su Londra e, proprio la Vigilia di Natale, dell’offensiva tedesca nelle Ardenne che aveva colto i comandi alleati di sorpresa, provocando un temporaneo sfondamento del fronte.
I comandi tedeschi avevano concentrato su quel fronte importanti forze corazzate, il meglio di quanto era loro rimasto dopo le batoste in Francia e sul fronte russo, con l’obiettivo ambizioso di scompaginare le forze angloamericane e ributtarle in mare. Non era certamente l’obiettivo di vincere la guerra, obiettivo ormai impossibile dopo l’intervento americano di due anni prima e le offensive dell'Armata Rossa, ma quello di stabilizzare per un certo tempo il fronte nella speranza di poter negoziare una pace con gli angloamericani, magari in funzione antisovietica. Mussolini ed i suoi, al contrario, da oltre un anno premevano sui tedeschi perché avviassero trattative con i sovietici o almeno cercassero di stabilizzare il fronte orientale, concentrando tutte le forze contro gli angloamericani.
Il Fascismo aveva interessi diversi, circoscritti al Mediterraneo, all’Africa e all’Europa meridionale, da quelli del Nazismo, che era interessato al dominio d’Europa, a raggiungere un compromesso con l’Inghilterra e ad espandere lo spazio vitale tedesco verso oriente.
Mussolini, che non era stato informato dai tedeschi, secondo il solito, dell’offensiva, proprio quel giorno si recò a Milano e pronunciò al Teatro Lirico l’ultimo suo discorso che suscitò un effimero entusiasmo fra i suoi seguaci e su parte della popolazione accorsa a vederlo in carne ed ossa, dopo oltre un anno di “ritiro” sul Garda.
Quei due mesi furono terribili, materialmente e moralmente, per la massa della popolazione Le speranze di una liberazione prima del grande inverno erano andate deluse. Anzi, si dovevano subire angherie maggiori, dettate dalla speranza di molti fascisti in una possibile sopravvivenza del regime. Molti fascisti che durante l’estate si erano mimetizzati o avevano assunto atteggiamenti più moderati o avevano cercato di crearsi una nuova verginità nei confronti della Resistenza e della popolazione, ripresero ad ostentare la camicia nera ed i modi autoritari e prepotenti di una volta.
Si trattò peraltro di un fuoco di paglia, di un colpo di coda. Già due o tre settimane dopo il suo l’inizio fu chiaro a tutti che l’offensiva tedesca era sostanzialmente fallita di fronte alla reazione anglo americana ed allo strapotere dei loro mezzi.
Anche l’azione delle V1 e delle V2 rallentò di fronte ai bombardamenti alleati che avevano preso di mira le basi di lancio e le fabbriche. La base segreta di Peenemuende fu scoperta da alcuni agenti segreti inviati in Germania negli ultimi mesi di guerra e praticamente distrutta dai bombardieri americani.
Le città tedesche erano colpite notte e giorno da migliaia di tonnellate di bombe che le stavano rapidamente distruggendo, così ripagando le popolazioni tedesche della stessa moneta usata dalla sua aviazione nel 1940 per bombardare a tappeto le città inglesi, mentre l’avanzata dei russi ad oriente travolgeva le armate tedesche, impegnate ormai a difendere il territorio stesso della Germania.
In Italia, man mano che le truppe nazifasciste erano ritirate dalle valli alpine ed appenniniche, nella seconda metà di febbraio, ricomparivano le formazioni partigiane, meno numerose di prima ma più agguerrite e meglio armate ed equipaggiate grazie ai lanci alleati che erano nel frattempo ripresi.
Anche dalle nostre parti, nelle valli del piacentino, tutti sapevano che le brigate si erano ricostituite ed erano diventate divisioni e di tanto in tanto si sentiva parlare di scaramucce e di assalti a convogli sulla via Emilia. Le formazioni di Salò, ormai debolmente appoggiate dai tedeschi, cercavano di tenere i paesi di fondo valle, ma molte vie di comunicazione erano diventate insicure.
La scrematura provocata dai rastrellamenti invernali aveva privato le formazioni partigiane di molti elementi attendisti che erano saliti in montagna per cercare un rifugio quando erano stati chiamati alle armi. Chi era rimasto in zona e chi si era nascosto conservando le armi, aveva ora ripreso il suo posto, pronto a combattere le ultime battaglie per la definitiva liberazione dell’Italia settentrionale.
C’erano state molte perdite, alcuni capi erano caduti in battaglia o erano stati catturati e fucilati, fra i quali, nella nostra zona, Paolo, le forze partigiane erano state gravemente colpite in alcune zone della nostra provincia ed erano state compiute alcune stragi anche fra le popolazioni, ma la capacità combattiva delle formazioni riorganizzatesi all’inizio della primavera era migliorata rispetto al periodo precedente ai rastrellamenti.
Nelle valli piacentine si erano ricostituite tre divisioni partigiane, ciascuna con un paio di migliaia di uomini, abbastanza bene armate ed equipaggiate.

In Val Trebbia e Val Tidone operava la 1a Divisione Piacenza (ex Giustizia e Libertà), in Val Nure c’era la Divisione Val Nure, ora sostanzialmente apolitica ma costituita dagli ex appartenenti alla “Stella Rossa” e ad altre brigate operanti nell’alta valle di tendenza comunista, in Val d’Arda la Divisione “Val D’Arda”, pure apolitica. Le valli piacentine formavano la XIII Zona, comandata dal Colonnello Canzi, un ex combattente antifranchista di Spagna.
Si sapeva anche, dalle radio alleate, che il movimento partigiano era diventato Corpo Volontari della Libertà e che a suo comandante generale era stato designato il generale Raffaele Cadorna, dal nome di prestigio, che evocava l’Italia patriottica di un tempo.

Le forze armate di Salò, pur cresciute in numero ed armamenti rispetto all’autunno precedente, si erano durante l’inverno logorate moralmente nella guerra antipartigiana, odiosa per molti dei suoi appartenenti, soprattutto per molti militari delle quattro divisioni addestrate in Germania. Molti si rendevano ormai conto che non c’era più speranza che la Germania potesse rovesciare le sorti della guerra e capivano che l’odio represso da parte della popolazione e dei partigiani nei loro confronti sarebbe potuto esplodere in modo incontrollato nel momento della disfatta finale. Ciò era vero anche per molti gerarchi, di primo e di secondo piano, che già dal febbraio 1945 avevano cercato contatti con membri del C.L.N. e con gli alleati, e per gli stessi nazisti. Il generale delle SS Wolff, ad esempio, intavolò trattative con emissari alleati in Svizzera, di nascosto dai suoi superiori, e nella seconda metà di aprile riuscì a raggiungere accordi per la resa delle forze tedesche in Italia, rischiando la fucilazione per alto tradimento, e naturalmente tenendo all’oscuro anche Mussolini ed i fascisti.

Il fronte sulla linea degli Appennini cominciò a muoversi solo in marzo, quando anche i partigiani che operavano nelle retrovie tedesche in tutta l’Emilia Romagna passarono all’attacco e ben presto la resistenza tedesca fu travolta, così come avveniva su tutti i fronti d’Europa.
In cielo passavano e ripassavano migliaia di bombardieri e cacciabombardieri che si dirigevano sulla Germania, mentre da noi lo stillicidio degli attacchi aerei locali a bassa quota non risparmiava nulla che fosse in movimento sulle strade. Cominciarono a comparire sui tetti ed alle finestre delle case panni e bandiere bianche e qualche bandiera tricolore nell’illusione che i piloti angloamericani risparmiassero le nostre zone o almeno quelle occupate dai partigiani.

* * * *

Verso la metà di aprile nella nostra valle vi fu un fatto d’arme che fece molte vittime fra le forze di Salò che occupavano Rivergaro ed i paesi vicini. C’erano elementi delle Brigate Nere, delle SS italiane, della Guardia Nazionale Repubblicana ed alcuni reparti tedeschi. Non si sa bene perché, a quale scopo, con quale obiettivo, tali forze la notte del 16 aprile furono inviate ad attaccare un distaccamento partigiano che occupava il castello di Monticello, sui monti che separano la Valle del Trebbia da quella del Luretta. La sproporzione delle forze era notevole. I partigiani, comandati dal Tenente Muro (Ludovico Muratori) erano poche decine, mentre gli attaccanti erano parecchie centinaia, appoggiati da cannoni, mortai e mitragliatrici pesanti.
Quando l’attacco cominciò, in piena notte, dalla Val Luretta partì una squadra comandata dal “Valoroso”, composta anch’essa di poche decine di partigiani e da altre località accorsero in aiuto pochi uomini di altre brigate. In tutto i partigiani erano largamente inferiori al centinaio.
Resistettero per ore, poi passarono al contrattacco sgominando gli avversari. I fascisti ed i tedeschi si sbandarono e molti non ritornarono più ai loro reparti. I morti della loro parte furono molte decine e furono poi recuperati ed allineati in una piazzetta di Rivergaro. I partigiani persero sei uomini, fra i quali lo stesso “Valoroso” che cadde quando la battaglia sembrava finita. Sentii personalmente alcuni militi fascisti dichiarare che si erano trovati di fronte “migliaia di mongoli”.
Passarono pochi giorni e fu evidente che i fascisti si preparavano a lasciare il paese e la valle, anche perché i partigiani si erano fatti baldanzosi e gli attacchi da parte loro si moltiplicavano. Una mattina, nella terza decade di aprile, partirono, in parte su autocarri ed in parte a piedi, con due piccoli carri armati lasciati in retroguardia che si ritiravano marciando all’indietro. La colonna fu quasi subito attaccata da aerei americani a bassa quota a poche centinaia di metri sotto il paese. Io mi trovavo sulla statale, con la mia invincibile curiosità, accucciato in un piccolo canale laterale e fui sfiorato dai proiettili delle mitragliatrici. Dalla mia piccola trincea potei vedere in faccia i piloti degli aerei che passavano a pochi metri da me.
Passato l’attacco aereo, presi la bicicletta senza badare a mia madre che mi gridava di restare a casa ed andai a vedere il tratto di strada dove la colonna era stata mitragliata, di fronte a Pieve Dugliara. Due autocarri abbandonati bruciavano e stesi sulla strada c’erano i cadaveri di due cavalli e molte cassette, rottami vari, elmetti.


(continua)