RICORDI SULLA LEHMAN BROTHERS
In questi giorni
è uscita la notizia che un’altra importante
istituzione finanziaria americana, dopo le
crisi Bear Stern, Freddie Mac, Fanny Mae,
in qualche modo salvate dal Tesoro americano
con risorse del contribuente, e quelle
incombenti della AIG (grossa compagnia
assicurativa) e della Washington Mutual, non
ha retto al disastro dei mutui “subprime” e
dei titoli “spazzatura” nei quali si era
cacciata in questi ultimi anni, seguendo la
corsa forsennata di tanti campioni del
capitalismo mondiale a crescere ad ogni
costo, ad incrementare ad ogni costo i
profitti, reali o solo cartacei e virtuali,
in tali attività incoraggiate o tollerate
dai blandi controlli delle autorità di
vigilanza e dei governi. Anche la pratica,
invalsa negli ultimi due decenni, delle
ricche “stock options” ai grandi
manager, legate ai risultati economici, ha
incentivato questa corsa.
Il governo americano, dopo gli interventi
pesanti delle ultime settimane per salvare,
nazionalizzandole contro ogni dottrina di
mercato, alcune grandi società finanziarie e
cercar di frenare il panico che andava
diffondendosi fra gli operatori, nelle borse
e nel pubblico, per il momento ha detto
basta e si è rifiutato di intervenire con
fondi pubblici per evitare il fallimento di
questa società, la quarta banca
d’investimenti di Wall Street.e l’ ha
costretta a richiedere la procedura del
Chapter 7 prevista per le banche (una specie
di amministrazione controllata, ma potrebbe
trattarsi anche di Chapter 11, una forma un
po’ più blanda prevista dalla Bankrupcy Law).
Per inciso,alcuni nostri giornali parlano di
“bancarotta” traducendo impropriamente
dall’inglese, ma non è così, almeno per ora.
Contemporaneamente, la maggiore di queste
società, la Merril Lynch, è stata
inghiottita dalla Bank of America per una
cifra, ritenuta molto bassa dagli operatori
del settore, di “soli” 50 miliardi di
dollari o poco meno.
Quando lavoravo a New York presso la filiale
della Banca Commerciale Italiana, la mia
banca possedeva una consistente
partecipazione nell’azionariato Lehman (13%
ridotto poi all’11% ed il nostro Enrico
Braggiotti faceva parte del Consiglio
d’Amministrazione) ed i contatti erano molto
frequenti. Noi funzionari Comit ci vantavamo
un po’ di tale prestigiosa associazione con
un prestigioso operatore della finanza
americana quando andavamo in visita presso
le multinazionali, molte delle quali avevano
rapporti con quella importante banca
d’affari. Ricordo ancora una mia gaffe con
il Treasurer di una grande società quando
definii la Lehman una nostra “sussidiaria”
nel mio ancora debole inglese: la
definizione provocò un sorriso contenuto da
parte del mio interlocutore, oltre che una
leggera gomitata del mio assistente
americano.
La partecipazione fu poi ceduta 1984,
considerata anche la scarsa valenza
strategica dell’investimento per il gruppo
Comit rivelatasi negli anni, non prima,
tuttavia, dell’acquisto da parte nostra del
palazzo che aveva ospitato fino a quel
momento gli uffici della finanziaria, al
numeri 1 di William Street, a pochi passi da
Wall Street. Il palazzo era di grande
prestigio per una banca straniera come la
nostra, ma comportò grandi spese di
ristrutturazione che ad un certo punto,
secondo quanto ricordo, andarono fuori
controllo. Alla fine, tuttavia,
l’investimento si rivelò positivo, dato il
forte incremento dei prezzi immobiliari a
Manhattan. Ora è sede della filiale della
banca Intesa San Paolo.
Ai miei tempi, era ancora in vigore il Glass
Steagal Act che separava rigidamente
l’attività (e la proprietà) delle Investment
Banks da quella delle banche commerciali il
che garantiva maggior protezione contro i
conflitti d’interesse e le speculazioni
finanziarie, come quelle sulle
cartolarizzazioni dei mutui ipotecari e sui
relativi titoli che allora, peraltro, non
avevano ancora invaso i mercati.
Oggi, in clima di globalizzazione ed
interconnessione dei mercati mondiali,
maggiori difficoltà di controllo da parte
delle autorità nazionali di vigilanza,
assenza assoluta di organismi e norme
sovranazionali, esiste un forte rischio di
inquinamento dei mercati e di “effetto
domino”. Ciò che accade negli Stati Uniti ha
forti ripercussioni su tutte le piazze
finanziarie, da quelle asiatiche a quelle
europee, dove alcune istituzioni più attive
in quei segmenti di prodotti (soprattutto
tedesche, inglesi e giapponesi) potranno
sperimentare difficoltà anche
gravi.
Giacomo
Morandi - ottobre 2008
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