RICORDI SULLA LEHMAN BROTHERS

In questi giorni è uscita la notizia che un’altra importante istituzione finanziaria americana, dopo le crisi  Bear Stern, Freddie Mac, Fanny Mae, in qualche modo salvate dal Tesoro americano con risorse del contribuente, e quelle incombenti della AIG (grossa compagnia assicurativa) e della Washington Mutual, non ha retto al disastro dei mutui “subprime” e dei titoli “spazzatura” nei quali si era cacciata in questi ultimi anni, seguendo la corsa forsennata di tanti campioni del capitalismo mondiale a crescere ad ogni costo, ad incrementare ad ogni costo i profitti, reali o solo cartacei e virtuali, in tali attività incoraggiate o tollerate dai blandi controlli delle autorità di vigilanza e dei governi. Anche la pratica, invalsa negli ultimi due decenni, delle ricche “stock options” ai grandiL'edificio situato a New York in One William Street, costruito nel 1907 e dal 1929 sede della Lehman Brothers è stato acquistato nel 1981 dalla Banca Commerciale Italiana e ridisegnato e restaurato dall'Architetto Gino Valle: in basso il suo progetto originale per la filiale di New York (1982) manager, legate ai risultati economici, ha incentivato questa corsa.
Il governo americano, dopo gli interventi pesanti delle ultime settimane per salvare, nazionalizzandole contro ogni dottrina di mercato, alcune grandi società finanziarie e cercar di frenare il panico che andava diffondendosi fra gli operatori, nelle borse e nel pubblico, per il momento ha detto basta e si è rifiutato di intervenire con fondi pubblici per evitare il fallimento di questa società, la quarta banca d’investimenti di Wall Street.e l’ ha costretta a richiedere la procedura del Chapter 7 prevista per le banche (una specie di amministrazione controllata, ma potrebbe trattarsi anche di Chapter 11, una forma un po’ più blanda prevista dalla Bankrupcy Law). Per inciso,alcuni nostri giornali parlano di “bancarotta” traducendo impropriamente dall’inglese, ma non è così, almeno per ora. Contemporaneamente, la maggiore di queste società, la Merril Lynch, è stata inghiottita dalla Bank of America per una cifra, ritenuta molto bassa dagli operatori del settore, di “soli” 50 miliardi di dollari o poco meno.
Quando lavoravo a New York presso la filiale della Banca Commerciale Italiana, la mia banca possedeva una consistente partecipazione nell’azionariato Lehman (13% ridotto poi all’11% ed il nostro Enrico Braggiotti faceva parte del Consiglio d’Amministrazione) ed i contatti erano molto frequenti. Noi funzionari Comit ci vantavamo un po’ di tale prestigiosa associazione con un prestigioso operatore della finanza americana quando andavamo in visita presso le multinazionali, molte delle quali avevano rapporti con quella importante banca d’affari. Ricordo ancora una mia gaffe con il Treasurer di una grande società quando definii la Lehman una nostra “sussidiaria” nel mio ancora debole inglese: la definizione provocò un sorriso contenuto da parte del mio interlocutore, oltre che una leggera gomitata del mio assistente americano.
La partecipazione fu poi ceduta 1984, considerata anche la scarsa valenza strategica dell’investimento per il gruppo Comit rivelatasi negli anni, non prima, tuttavia, dell’acquisto da parte nostra del palazzo che aveva ospitato fino a quel momento gli uffici della finanziaria, al numeri 1 di William Street, a pochi passi da Wall Street. Il palazzo era di grande prestigio per una banca straniera come la nostra, ma comportò grandi spese di ristrutturazione che ad un certo punto, secondo quanto ricordo, andarono fuori controllo. Alla fine, tuttavia, l’investimento si rivelò positivo, dato il forte incremento dei prezzi immobiliari a Manhattan. Ora è sede della filiale della banca Intesa San Paolo.
Ai miei tempi, era ancora in vigore il Glass Steagal Act che separava rigidamente l’attività (e la proprietà) delle Investment Banks da quella delle banche commerciali il che garantiva maggior protezione contro i conflitti d’interesse e le speculazioni finanziarie, come quelle sulle cartolarizzazioni dei mutui ipotecari e sui relativi titoli che allora, peraltro, non avevano ancora invaso i mercati.
Oggi, in clima di globalizzazione ed interconnessione dei mercati mondiali, maggiori difficoltà di controllo da parte delle autorità nazionali di vigilanza, assenza assoluta di organismi e norme sovranazionali, esiste un forte rischio di inquinamento dei mercati e di “effetto domino”. Ciò che accade negli Stati Uniti ha forti ripercussioni su tutte le piazze finanziarie, da quelle asiatiche a quelle europee, dove alcune istituzioni più attive in quei segmenti di prodotti (soprattutto tedesche,  inglesi e giapponesi) potranno sperimentare difficoltà anche gravi.                                                                 

 Giacomo Morandi - ottobre 2008