Il mese di
settembre del 1935 mio padre, felice e
orgoglioso no dei suoi figli avesse
imboccato la strada degli studi, decise
di portarmi
a Milano in casa di una zia, sorella di
mia madre. Qui avrei frequentato le
prime classi del Ginnasio e avrei caro
il cambio alla mia sorella maggiore che
vi aveva già ultimato le scuole
elementari.
La mia famiglia era già numerosa a
quell'epoca (cinque figli, una femmina e
quattro maschi) e se almeno uno -
pensarono i genitori - approfittando
degli studi, avesse continuato a fare
l'ospite di un parente, essi avrebbero
potuto assecondare con la dovuta
perseveranza le martellanti lusinghe
della propaganda del governo dell'epoca
che, vagheggiando conquiste
territoriali, voleva famiglie
numerosissime. Cosa che fecero
puntualmente.
Difatti, l'anno successivo alla mia
partenza nacque la seconda sorella e, a
distanza di tre anni - durante due dei
quali mio padre fu provvidenzialmente
distratto da un viaggio in Argentina per
inseguire inutilmente l'eredità di uno
zio scapolo e facoltoso che aveva invece
pensato male di lasciare tutto a suoi
antichi conoscenti - nacque la terza.
Quando raggiungemmo quota sette, mia
madre aveva 43 anni e mio padre 46. In
precedenza, fra una nascita e l'altra,
c'erano stati due aborti e il decesso di
un fratellino di pochi mesi. Insomma,
abbiamo corso il rischio di essere dieci
figli. Dieci figli della propaganda e
della dabbenaggine.
Il giorno della partenza fu prodigo di
emozioni a non finire. L'età mia era
tenera e lo strappo delle radici provocò
lacerazioni che sul momento non
avvertii, stordito com'ero dalla novità
del lungo viaggio e dall'idea di dovermi
stabilire in una grande città.
In seguito però la realtà si sarebbe
incaricata di impartirmi le prime dure
lezioni, di attizzare il fuoco della
nostalgia per il paese e i cari lontani
e, in definitiva, di farmi maturare
anzitempo con ritmi accelerati.
Ricordo di quel giorno il forte
abbraccio di mia madre, la valigia di
fibra color giallo scuro e le poche
parole di mia nonna, oscure sul momento
ma illuminanti nel prosieguo degli anni.
Infilandomi dodici lire nella tasca
interna della giacchetta, ella mi disse
«Figghiu, non ti fidàri mancu di la tò
cammisa». Non era - si capisce - un
invito indirizzato alle poche lire, ma
un accorato avvertimento, proveniente
dalle profondità delle sua lunga
esperienza, a essere vigilante e
rigorosamente selettivo nel concedere
altrui la fiducia e l'amicizia.
Prendemmo l'ultimo trenino delle
Ferrovie Calabro Lucane e giungemmo a
Gioia Tauro con circa tre ore d'anticipo
sul treno n.81 delle ore 23 per Napoli.
Ne approfittammo per consumare una
piccola colazione dagli amici
Stanganelli che vi gestivano una
trattoria e così il tempo passò più in
fretta.
Era ormai buio da un pezzo quando ci
avviammo alla stazione.
Ad attendere il treno non c'erano che
due ferrovieri i quali rientravano a
casa stremati dopo il turno di lavoro.
Andavano a Sapri.
Il treno si annunciò da lontano con un
fischio lungo e lacerante che spezzò il
silenzio dell'ora tarda. Poi irruppe sui
binari la locomotiva coi due grossi
fanali, i baffi di vapore bianco vicino
alle ruote e il lungo pennacchio di fumo
nero che superava la lunghezza del
treno.
Lo stridore dei freni si aggiunse al
frastuono delle ferraglie e d'istinto mi
aggrappai impaurito alle gambe di mio
padre che, lasciata la valigia, mi posò
sul capo e poi sulla guancia la sua ma
no rassicurante.
Salimmo sul più vicino vagone di terza
classe. L'interno altro non era che una
lunga, squallida stanza, con doppia fila
di sedi li in legno a due posti, l'uno
di fronte all'altro.
In mezzo, il corridoio e sulle nostre
teste il vano in ferro pel collocarvi i
bagagli. Ogni scomparto di quattro posti
aveva uni porta laterale per salire e
scendere dal vagone. Di fronte a noi non
c'era nessuno e sull'intera vettura
pochissima gente. In fondo, vicino alla
porta dei gabinetti, i due ferrovieri
erano già in posizione orizzontale, le
gambe ciondoloni, per la lunga russata
fino a Sapri.
Dopo il segnale del capostazione con la
trombetta di ottone, il treno si mise in
moto sbuffando furiosamente.
I sedili erano coperti da una sottile
patina di polvere di carbone che mio
padre cercò di rimuovere soffiando e
aiutandosi col fazzoletto. Voleva che
almeno io non mi sporcassi il vestitino.
Ma fu una fatica inutile perché il fumo
aveva invaso la vettura e stava
depositando altre nuvole di polvere
nera.
Non restò che serrare i finestrini e
rassegnarsi al pulviscolo, continuamente
in movimento per l'aprirsi e chiudersi
delle porte.
Mio padre faceva di tutto, soffiando e
agitando il fazzoletto, per limitare i
danni. Il risultato fu, almeno fin
quando rimasi sveglio, che la polvere
maledetta rimanesse in sospensione nel
tenue chiarore della misera lampadina
che pretendeva, senza riuscirvi, di
illuminare la vettura.
Mio padre era talmente infuriato che
quando, una volta seduto, appoggiai la
mano sulla maniglia di ottone della
portiera, mi apostrofò aspramente
perché, disse, poi con la stessa mano mi
sarei toccato il vestito e l'avrei
insudiciato.
Non so dire quello che accadde durante
la notte. Il mattino aprii gli occhi che
ero adagiato con la testa sulle gambe di
mio padre e con le ossa rotte per
l'infelice posizione sul sedile duro
come il ferro.
Mio padre sonnecchiava. Lo guardavo dal
basso, il colletto della camicia
slacciato, la cravatta allargata, la
barba incolta, il ciuffo dei capelli che
si affacciava dalla fronte sopra i baffi
e i due lori del naso e, così
ravvicinati, mi parevano i tratti di un
gigante.
Sentii vivo il desiderio di abbracciarlo
e di starmene così per tanto tempo
ancora, ma me ne trattenni per non
interrompere il suo dormiveglia ma anche
per non infrangere quella pessima il
illudine che prescriveva le affettuosità
per le malattie serie e per i lunghi
distacchi.
Sentivo tuttavia il caldo della sua
gamba sotto la mia nuca e i Iella sua
mano sul mio petto e mi consolavo che
fosse lui ad abbracciare me.
A Napoli, con l'aiuto del facchino,
cambiammo treno. Era mattina e la
stazione brulicava di gente di ogni
tipo, ma il trasbordo non richiese che
pochi minuti.
Il cielo era coperto di nuvole scure che
lasciavano cadere una pioggerella
sottile e fitta che rendeva malinconica
l'atmosfera nonostante l'allegria delle
voci e anticipava di quasi un mese certe
tristi giornate d'autunno.
Sul treno per Milano incontrammo una
famiglia, padre madre e due figli,
diretta a Bologna, che ci mantenne
allegri per l'intero tragitto.
Rientravano dal secondo viaggio di
nozze, come essi lo chiamavano.
Avevano fatto il primo a Capri e ora vi
erano ritornati per festeggiare il
venticinquesimo di matrimonio. Non si
stancavano di parlarne e continuavano a
ridere e scherzare fra di loro.
Il marito, un omaccione di corporatura
solida e ingombrante, aveva un faccione
largo e rubizzo, con due occhi bovini
fuori dalle orbite, come fosse sul punto
di scoppiare.
La moglie invece era esile, quasi
minuta, al punto che riusciva difficile
persuadersi che avesse potuto mettere al
mondo due figli grandi e grossi come
quelli che le stavano di fronte.
Si appisolarono nel pomeriggio
inoltrato, quando il treno stava
perforando l'Appennino dopo Firenze e
ormai Bologna era vicina.
Anch'io mi addormentai appoggiato al
braccio di mio padre e non udii il
frastuono che questa allegra famiglia
sicuramente fece all'arrivo prima di
scendere.
Era sera quando arrivammo a Milano
stanchi morti.
La stazione mi fece un'impressione
straordinaria. Grande, immensa, piena di
luci. La gente mi sembrò più rapida nei
movimenti. I treni ai marciapiedi più
lucidi e ordinati. Sovrastava ogni altro
rumore lo sbuffare cadenzato delle
locomotive. C'erano cartelli
pubblicitari della Pasta Agnesi, della
Tricofilina, del Succo di urtica
Ragazzoni. I facchini si muovevano
disinvolti fra la folla dei passeggeri e
il nostro treno si svuotò alla svelta.
Ad attenderci c'era lo zio, marito della
zia Grazia, appuntato della polizia,
distaccato in stazione, nella cui casa
sarei andato ad abitare. Era un uomo di
poche parole, mite, che mi accolse come
fossi stato suo figlio. Col tempo ebbi
modo di constatare che, sotto le
apparenze di persona docile e timida, si
celava un carattere forte e
incoercibile. Fu fedele fino alla morte
alle sue idee di silenzioso oppositore
alla politica del governo dell'epoca. Ne
sottovalutò con lucida antiveggenza le
imprese coloniali e le scorribande in
terre altrui.
A me, a quel tempo, certi suoi giudizi
sembravano stonati e faticavo a seguirne
i ragionamenti. Quando, più grandicello,
gli mettevo sotto il naso certi titoli
del giornale, lui mi guardava coi suoi
occhi buoni e maliziosi, sopra un
sorrisetto compassionevole e beffardo
che, lo capii tanto tempo dopo, voleva
dire molte cose.
Salimmo sul tram n. 28 - diretto
all'Ortica - che ci portò fino alla casa
degli zii. Il fabbricato mi apparve
immenso. Nel lato verso strada un grande
cancello in ferro, come passo carraio, e
a fianco un varco per le persone.
All'interno - superata la portineria e
un enorme casellario per la posta - un
vasto cortile quadrato, con aiuola
centrale e, negli altri tre lati, sette
ingressi di altrettante scale per
accedere alle abitazioni.
L'appartamento degli zii era al terzo
piano sul lato opposto al cancello
d'ingresso. Era l'ultima casa prima
della campagna dell'Ortica, tanto che la
zia usava, come tante altre donne,
mandare giù dal balcone posteriore un
paniere legato a una corda per comprare
verdure e ortaggi dai contadini che
coltivavano i campi. L'abitazione era
piccola e il mio lettino fu collocato
nella stessa stanza da letto degli zii.
Poi mio padre e mia sorella partirono
per far ritorno in Calabria e fui preso
da un'indescrivibile sensazione di
smarrimento e abbandono come se un
ideale cordone fosse stato troncato e mi
trovassi ora senza l'appiglio a cui
prima ero aggrappato.
La zia capì il mio stato d'animo e mi
incoraggiò, per i giorni che mi
separavano dall'inizio della scuola, a
scendere in cortile i giocare con gli
altri ragazzi nelle ore consentite.
Fu un'esperienza dolorosa e traumatica
che si ripetè anche a scuola durante i
primi mesi dell'anno.
Insomma, gli altri ragazzi non volevano
giocare con me, rifiutavano di avere
contati con uno che faticava a
esprimersi in italiano e non possedeva
giocattoli d'alcun tipo da offrire in
cambio.
Non mi restò che rinunciare ai giochi e
assistere malinconi-camente a quelli
degli altri dal finestrino della cucina.
Quanto alla scuola, vi andavo col tram
n. 23 che dall'Ortica per Piazza
Tricolore e corso Monforte,
attraversando S. Babila, Corso Vittorio
Emanuele, Piazza Camposanto, Via
Cappellari e Piazza Missori, portava in
via Lamarmora.
A quel tempo c'erano le cosiddette
carrozzette, attaccate l'una all'altra
ma non comunicanti fra loro, tanto che
ognuna aveva il proprio bigliettaio, il
quale, oltre a distribuire i biglietti,
mano-vrava anche le portiere. Ma io
preferivo viaggiare sui tram singoli,
entrati in esercizio proprio in quegli
anni, che in coda avevano posti a sedere
in velluto rosso e correvano più veloci
degli altri.
Scendevo all'angolo di via Commenda
dov'è il Liceo Ginnasio Berchet.
Le prime volte fui accompagnato da uno
zio, medico al Padiglione Zonda, che mi
suggerì - per non sbagliare - di contare
le fermate del tram. Poi vi andai da
solo. L'inizio della scuola fu
terribile. L'ostilità dei compagni si
manifestò con scherzi feroci, risate
beffarde non appena aprivo bocca e il
completo isolamento. Una sorta di
tentativo di rigetto di un'entità che
ritenevano estranea, al quale non avevo
alcuna possibilità di oppormi.
Non so dire come feci, ma resistetti. E
col passare del tempo anche i compagni
più accesi si quietarono e alla fine fui
accettato da tutti. Da qualcuno, come
Sperzani - poi medico - perfino con
simpatia.
Piccolo prezzo da pagare a questa grande
Milano che poi ti accoglie nel suo
caldo, generoso e rassicurante
abbraccio.
L'apprendimento per me fu più lento e
faticoso che non per gli altri. A parte
gli ostacoli di natura ambientale,
dovetti compiere uno sforzo notevole per
supplire alla mancanza di quella parte
di insegnamento che in taluni contesti,
specialmente piccoli come quello mio di
provenienza, deriva dall'uso del
dialetto da parte del docente.
Qui tutto era italiano, senza deroghe.
Fu in questo periodo di ambientazione
che scoprii in via Briosi una panetteria
che esponeva dolci stranissimi. Nel
pomeriggio, finiti i compiti,
accompagnavo la zia nel suo giro di
compere e ne approfittavo per conoscere
le strade adiacenti alla via Aselli.
In genere la mèta era Piazzale Susa e
per arrivarci bisognava passare per via
Briosi.
Un giorno che il salumiere Figini era
chiuso, camminammo sull'altro
marciapiede e qui la mia attenzione fu
attratta da questi strani dolcetti.
Dall'aspetto potevano sembrare dei
comuni pasticcini. Osservandoli bene,
però, non ne avevano le caratteristiche.
Non c'era crema, non erano glassate né
spolverate di zucchero a velo.
Erano posati su un misero vassoietto di
cartone senza prete-se e assomigliavano
a piccole teste di funghi porcini,
rassodati e rugosi.
A guardarli bene facevano pensare a una
provenienza da pentola piuttosto che da
forno. E fu questo particolare che
stuzzicò la mia indifesa golosità.
Sbirciai più in basso per leggere da un
cartoncino sbiadito come venivano
chiamati e quanto costavano e vi lessi:
CADAUNO su una riga e CENT. 20
sull'altra.
La zia mi chiese se volevo qualcosa e io
le dissi di no.
Proseguimmo per Piazza Guardi ma il mio
pensiero rimase a CADAUNO.
Istintivamente portai la mano alla tasca
interna della giacchetta per accertarmi
della presenza delle mie dodici lire e,
una volta rassicurato, mi proposi di
acquistare uno di quei dolcetti il più
presto possibile.
Il nome, per me oscuro e misterioso,
accresceva la voglia di addentarlo per
scoprirne il sapore. Avevo notato delle
minuscole protuberanze sul dorso che
potevano essere di mandorle sminuzzate o
di uva passa, chissà, e il desiderio
diventava più acuto che mai.
Al mattino uscii di casa per la scuola
con qualche minuto d'anticipo e andai
dal panettiere. I dolci erano là come il
giorno prima. Indugiai qualche attimo
per far uscire una donnetta e quindi
entrai con i 20 centesimi in mano.
Chiesi deciso: «Mi dà un CADAUNO?»
«Cosa?» mi rispose la fornaia con l'aria
quasi minacciosa di persona che non
vuol'essere canzonata.
Mi girai verso la vetrina e, indicando
col dito il vassoio dei dolci, dissi:
«Uno di quelli».
Lei uscì dal bancone, venne verso di me,
aprì il vetro, prese il vassoio e
mugugnò: «Di questi?».
«Si, si» mi affrettai a rispondere con
l'acquolina in bocca.
E lei: «Oeh nano! va' che questi non si
chiamano cadauno. Cadauno vuol dire
ognuno, ogni pezzo. Te capì?» E rincarò
la dose: «Ma a scuola cosa fate, non
imparate proprio nà gotta?». Che
significa: nulla.
Non ebbi il coraggio di chiedere come
esattamente i dolcetti si chiamassero.
Ne presi uno e filai al tram, masticando
rabbia e CADAUNO. Che, per la verità,
era proprio come me l'aspettavo:
eccellente.
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