Piazza Scala


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I primi contrafforti dell’Akakus ci preannunciano che la meta di questo incantevole viaggio in Libia non è più così lontana. Siamo lungo lo wadi Tanezzouff, e maestosa e misteriosa ecco apparire Idinen, la montagna degli spiriti, ecco le prime maestose dune, ecco la “nostra duna”, splendida platea per godere dello spettacolo incredibile, favoloso e quasi magico che questo luogo, terrifico per i tuareg, riesce ad offrire. Più che montagna degli spiriti, bisognerebbe chiamarla montagna dello spirito, infatti tutti in un maestoso silenzio restiamo fermi a contemplare questa mirabile opera della natura, le sue guglie scolpite dal vento e dall’erosione, i suoi colori che, nello splendido lento spegnersi del sole, risultano ancora più esaltati nel contrasto con il nero delle rocce, con il blu carico del cielo e le tonalità biscotto delle dune. E’ un’emozione meravigliosa, è una sensazione molto forte! Superato lo shock, impazzano i clic, si intrecciano i commenti, si fantastica già su come sarà domani all’alba; poi furioso il ruggito di un motore rompe questo incantesimo, un “cammello” si è insabbiato e non riesce più a muoversi, occorre la forza del gruppo appena rivitalizzata per uscire dall’impasse, con la spinta il cammello ora va, si inerpica su per la duna, raggiunge la cima, lassù faremo campo, ma noi dobbiamo prima arrivarci…. a piedi! Ancora con il fiato grosso, su in cima, volgendo lo sguardo verso la valle quasi mi sembra non trovare l’aggettivo per descrivere al meglio lo scenario che si apre sotto i miei occhi, e, pur considerando la ricchezza della nostra lingua, non trovo di meglio che fare mio il commento di Gilberte: plaisir des yeux, paix de l’ame, piacere degli occhi, pace dell’anima. In tutta questa magia si perde anche la preoccupazione di dover montare la tenda (per qualcuno, sic, è la prima volta in assoluto), ma, ahimè, le ombre della sera che cominciano a calare impongono il ritorno alla realtà e allora via con picchetti, teli e controteli, nodi e legacci, che casino!!!, meno male che c’è Alessandro che mosso a compassione dallo spasticume mi dà una mano (nel senso che la monta lui) e alla fine la mia cuccia prende decisamente forma. L’atmosfera ritorna incantata, la duna è la nostra casa di una notte e il cielo che comincia a riempirsi di mille e mille stelle è il nostro tetto, il fuoco acceso scoppietta e dà allegria oltre che tepore, siamo tutti lì ad osservare Alì che fuma il suo narghilè, Mohamed Abou che prepara il pane per la tagellat, Mohamed le chef che prepara l'altare del thè, mentre più defilato Mohamed le cuisinier prepara la cena per noi, e così anche i profumi entrano a far parte dello scenario. Chorba e spaghetti al pesto, minor frugalità e più riempimento, salame e Nestatea per aperitivo, mele per frutta per la gioia del gruppo trentino, cioè quasi tutti, e datteri per dolce. Ciacole intorno al tavolo per approfondire la conoscenza, ciacole intorno al fuoco per conoscere meglio i nostri amici tuareg; è ormai buio completo, la luna è uno spicchio sempre più piccolo, e il cielo stellato è uno spettacolo grandioso. Sale in cattedra Mauro con l’assistenza di Alessandro, stessa passione o quasi un vizio di famiglia, che da Marte a Sagitta, dall’Auriga alle Pleiadi ci conduce a spasso lungo le costellazioni, o meglio ci prova, qualcuno lo segue come Sergio (ha fatto un corso accelerato?) altri silenziosi si godono lo spettacolo, altri forse sognano e fantasticano. C’è il thè che Mohamed ha preparato con quasi religiosa sacralità, inizia il rito, anche qui, come nella cerimonia giapponese, c’è tutta una filosofia e una poesia: aspro come la vita, è il primo thè, dolce come l’amore, è il secondo thè (stesse foglie), soave come la morte, è il terzo thè (stesse foglie). Nella gestualità di Mohamed, nelle attese dei convitati, nel silenzio esaltante di una notte nel deserto c’è un che di magia e insieme al thè dentro di noi scende una incredibile serenità, che ci portiamo sotto la tenda per cedere al sonno vegliati da un mare di stelle.

Filippo Furia - febbraio 2010

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