CONTRO LA
RETORICA DELL’ARTE
Confessiamo un personale senso di nausea dal quale siamo
ormai colpiti costantemente ogni qualvolta sentiamo
parlare attraverso i canali mediatici di “città d’arte”
e di turisti affamati di percorsi artistici lungo le
scorribande dei loro tempi di vacanza. La stucchevole e
vuota fraseologia che riveste il “mantra” del concetto
di “arte” è responsabile della nostra nausea che, in
realtà, è provocata dall’intera struttura sulla quale è
venuta costruendosi l’ideologia stessa dell’arte come
fenomeno distinto e separato rispetto all’esistenza
quotidiana.
D’altro canto, ciò è connaturato alla cultura
occidentale la cui caratteristica precipua è proprio una
visione del mondo e della vita fatta di categorie e di
schemi improntati a separatezze e dualità
omnipervadenti.
Se vi riflettiamo, infatti, l’arte, quale categoria
astratta e individualistica così come è stata enucleata
nell’Occidente dall’antica Grecia in poi, è una visione
estranea alle altre antiche culture nelle quali non ha
mai successivamente attecchito neanche in progresso di
tempo per il semplice fatto che in esse non esisteva una
dimensione individuale intesa come dimensione
a-collettiva.
Tuttavia non è tanto sui diversi modi di concepire
l’espressione artistica in sé che vogliamo svolgere
qualche riflessione critica quanto sull’impalcatura che
attorno ad essa si è sviluppata nella nostra società.
Non possiamo, però, esimerci dall’effettuare una
premessa fondata sul significato da attribuire all’idea
di arte e ciò per il semplice motivo che tale premessa è
la base per comprendere l’estraneità che ha finito per
separare arte e vita quotidiana.
In questa dicotomia sta infatti la ragione che situa
l’arte in una sorta di mondo iperuranico facendola
assurgere a fenomeno teologico e creando una sorta di
casta sacerdotale che ne officia i riti somministrando i
suoi sacramenti al volgo ignorante con un linguaggio tra
l’esoterico e l’iniziatico.
Nella società che l’Occidente ha creato estendo i suoi
schemi all’intero globo la vita è diretta, nella sua
innaturale normalità, a una generale mercificazione
finalizzata alla riproduzione di denaro e ognuno in
tanto può sopravvivere in quanto riesca a trovare un
proprio collocamento all’interno di tale processo che
gli garantisca gli strumenti monetari di sopravvivenza.
Parlare di “merci” equivale, già di per sé, a escludere
alla radice il concetto di “beni” in quanto mentre
questi ultimi postulano caratteristiche di utilità, le
merci sono invece qualsiasi cosa possa essere
compravenduta all’interno di quel “mercato” che è la
divinità monoteista reggitrice delle umane sorti secondo
la religione capitalistica.
L’energia umana è così deprivata della sua funzione
creativa e ridotta a mero strumento di soddisfazione
delle esigenze del capitale dirette essenzialmente alla
riproduzione e all’ incremento di materia inerte quale
è, per sua stessa natura, quel denaro su cui si basa
l’architettura del cosiddetto “sistema economico” sul
quale vegliano sacerdoti del Nulla denominati
“economisti”. Se questo è il quadro di una vita
presentata come “normale” e che è, in realtà, il quadro
allucinante di una terribile follia che divora
insaziabilmente gli schiavi ad essa consacrati
attraverso lo svuotamento di corpi e anime , ne consegue
che dalla vita è stata eliminata la nozione del piacere
e delle attività che attraverso creazione e godimento
della bellezza in tutte le sue espressioni la rendono
fenomeno intimamente connesso al senso medesimo del
piacere di vivere.
Non più, allora, ars vivendi è la nostra realtà
perchè ars moriendi essa è divenuta!
In tal modo, l’arte come dimensione estetica ed emotiva
appartenente a una sfera che con la quotidianità nulla
ha più a che spartire è stata trasformata nel totem di
un rito interno al sistema economico come dimensione
puramente ricreativa degli schiavi impegnati nel
processo produttivo e, al tempo stesso, sacrale per
quanti hanno ricevuto, o si sono autonomamente
attribuiti, l’investitura di suoi interpreti esattamente
come i sacerdoti di qualsiasi religione.
Questi ultimi rientrano nella più vasta categoria dei
cosiddetti “critici d’arte” che, esattamente come gli
“economisti” dei quali condividono le severe vesti
sacerdotali sotto le quali niente esiste, hanno
sviluppato la medesima fraseologia criptica la cui unica
ragione è data dall’ingenerare sacro rispetto nei loro
confronti da parte degli appartenenti al volgo nei quali
si vuole instillare la convinzione di essere troppo
“umani” per comprendere adeguatamente i misteri divini
racchiusi in ciò che solo il loro giudizio è in grado di
qualificare “arte” o meno.
Le trombe mediatiche, la cui funzione essenziale è
l’organizzazione del conformismo sociale attraverso la
manipolazione dei cervelli, riescono a conferire
legittimazione a tale situazione con il risultato di
mostrarci individui che, nei periodi canonici degli
“esodi” e “controesodi” di masse cloroformizzate,
scelgono di dedicare il loro tempo libero a una
“acculturazione” fasulla perché vissuta non come
sviluppo dei loro talenti creativi bensì come faticoso
accesso a santuari dichiarati tabernacoli di opere
d’arte puramente e semplicemente perché così si ha da
credere se si vuole passare per persone di alto
intelletto.
Guai, naturalmente, a esprimere opinioni di segno
contrario perché, in tal caso, il minimo che ci si possa
aspettare è un linciaggio morale che bolla di
“insensibilità artistica” la “persona da poco” che non
riesce ad “elevarsi” alle vette spirituali della
religione dell’arte.
C’è una sensazione di gelo e di vuoto che si accompagna
a una tale visione dell’arte come realtà fossilizzata e
astratta incapace di generare emozioni profonde perché
inquadrata in un sistema di vita che in verità la nega:
essa, infatti, è forma divisa rispetto al tempo totale
che gli uomini sono costretti a sacrificare a un
processo di produttività alienante in cui si perpetua la
loro propria alienazione.
Se riflettiamo sul fatto che lo schema esistenziale
moderno contempla, nella sua generalità, un ciclo vitale
ridotto a una lotta per la pura sopravvivenza materiale
in fondo al quale sta solo l’attesa della morte e che la
durata di questa attesa è ormai auspicata come la più
ridotta possibile per le esigenze economiche del
sistema, allora ci accorgiamo che non esiste spazio per
l’emersione e la coltivazione di quei talenti
individuali e collettivi che costituiscono la vera
ricchezza dell’essere umano. E soltanto in virtù di
particolari circostanze fortunate è possibile che taluno
riesca a seguire le sue vere inclinazioni.
A noi pare che tutto ciò costituisca il più grande
spreco di energie di cui è responsabile l’”economia”
fondata sulle merci e sul denaro.
Ecco perché avvertiamo con fastidio quella che chiamiamo
la “retorica dell’arte” fatta di dissertazioni teoriche
dal linguaggio involuto e pseudo-intellettuale che
ammanta in genere le manifestazioni scritte e orali di
tanti “critici d’arte” nelle quali non riesci a cogliere
respiro di vita, ma solo narcisismi pretenziosi
inneggianti ai propri svolazzi parolai. Al tempo stesso
non possiamo che trovare nei tours artistici che
deliziano schiere di pellegrini in visita a stereotipati
santuari null’altro se non la sapiente organizzazione
del tempo cosiddetto libero da parte delle agenzie di
viaggio impegnate in una profittevole attività di
“vendita di cultura” per le “ore dell’aria” dei
carcerati dell’economia produttiva e, soprattutto,
competitiva della quale si riempiono la bocca politici e
sindacalisti.
LUIGI
GULIZIA |