Una viaggiatrice infaticabile: Piera Favetto

Un tesoro da favola

Anni fa mi capitò di vedere un tesoro, nel vero senso della parola. Avevamo deciso di visitare uno di quei paesi che già solo con il nome ti portano nel regno della fantasia: la Persia, l’attuale Iran. All’epoca era ancora sul trono lo Scià Reza Pahlavi; aveva ereditato un ricchissimo trono ed un paese povero ma dalle grandi possibilità petrolifere, aveva sposato prima Fawzia (sorella di re Faruk I d’Egitto) poi Soraya Esfandiary , infine Farah Diba che gli aveva finalmente dato l’erede e altri tre figli.
Fu un viaggio affascinante, ricco di cultura, storia millenaria, usi e costumi, e gentilezza delle persone ancora semplici e disponibili. Fu anche l’unica volta in vita mia che “sfruttai” il mio lavoro. All’epoca, come tutti noi ben sappiamo, la Comit era l’unica grande banca italiana che avesse rapporti in quasi tutto il mondo e a Torino venivano molti stranieri, uomini d’affari e studenti per studiare al Politecnico, molti dei quali dai paesi arabi tra cui l’Iran. Era quindi ovvio che si rivolgessero al nostro Ufficio Estero per tutto quanto riguardava il ricevimento del denaro dalla madre patria. Uno studente iraniano aveva avuto bisogno alcune volte di un mio intervento per cercare bonifici non pervenuti.
Quando gli dissi che sarei andata a fare un viaggio nel suo paese ne fu lietissimo (è da notare che all’epoca il turismo verso quelle zone era scarso) e mi diede il nome di suo padre, che lavorava presso la Bank Melli Iran a Teheran, nostra usuale corrispondente, pregandomi di portargli di persona i suoi saluti rassicurandolo sulla sua salute. E così feci. La nostra guida (chiaro che io non potevo farlo direttamente non spiaccicando una parola di arabo) contattò e comunicò il messaggio del figlio a questo signore, del quale ovviamente non sapevo nulla a parte il nome e dove lavorava. Lui era, come seppi dopo, un dirigente della banca ed in cambio del piccolissimo favore che gli avevo fatto, diede il permesso al nostro piccolo gruppo (otto persone) di visitare il sancta sanctorum, il caveau nel quale era contenuto il tesoro dello Scià, visita sì effettuabile ma assolutamente riservata a poche persone
E così ci trovammo a lasciare i nostri passaporti ad una guardia armata di mitra, a passare tra due porte blindate scortati davanti e dietro da due altri militari armati, a scendere in fila indiana una stretta scala e poi ad affacciarci nel caveau.
Si aprì davanti ai nostri occhi la caverna di Aladino. Lungo tutte le pareti c’erano bacheche di vetro blindato, lunghe circa due metri e nel centro della sala analoghe vetrine disposte a lisca di pesce. In tutto me ne rammento una ventina. Ogni struttura, composta da tre ripiani di vetro, era dedicata ad un tipo di pietra preziosa: rubini, smeraldi, zaffiri, diamanti, perle bianche, perle grigie e nere, alessandriti, ametiste, topazi gialli e rosa, ambra, lapislazzuli, turchesi (il meraviglioso colore delle cupole delle moschee di Isfahan), e così via. Le pietre erano disposte a piramide su piatti di vetro di 30 - 50 cm di diametro (almeno due recipienti per ogni ripiano) ed il calibro delle gemme era sempre superiore al carato: occhio e croce da duecento a cinquecento pietre per ogni piatto! In pratica delle piramidi di pietre preziose, tanto da affermare che il contenuto di ogni vassoio era calcolato a peso e non a carati (il carato è un’antichissima unità di misura delle pietre preziose, corrisponde a circa 1/5 di grammo; il nome deriva dai semi della carruba che hanno in genere un peso costante).
Nelle vetrine centrali più vicine all’ingresso erano esposti invece i gioielli montati e cioè le corone antiche e moderne degli Scià e delle consorti e tutti i monili indossati nelle incoronazioni o di particolare prestigio storico o artistico. Nella corona di Farah Diba era incastonato un brillante di quasi cento carati, probabilmente coevo del famoso Koh i Noor (Montagna di Luce, circa cento carati) appartenuto a lungo agli scià persiani ed ora di proprietà della corona inglese (visibile nella Torre di Londra).
Al fondo della sala era posto il Trono del Pavone: costruito con legno prezioso, tutto ricoperto d’oro sbalzato a mano, imponente ma molto semplice, risalente alla metà del 1600 ad opera di uno Scià di epoca Mogul che conquistò la Persia iniziando la sequela dei regnanti con il titolo di Scià ovvero Re. Un altro trono antico, dei primi del ‘900, l’avevamo già visto nella sala dell’incoronazione nel Palazzo Reale, più sfarzoso ma meno affascinante, utilizzato per incoronare Reza Pahlavi.
A destra del trono erano esposte alcune armi antiche laminate e cesellate in oro, argento e pietre preziose, principalmente spade e alcuni bastoni del comando anch’essi di oro massiccio, cesellati e ricoperti di gemme. A sinistra un vero e proprio forziere dei pirati. Di robusto legno con imponenti serrature, chiavistelli e cerniere, era con il coperchio aperto e letteralmente colmo e traboccante di monete antiche d’oro e d’argento, perle sciolte, collane e spille, coppe e bacili e chi più ne ha più ne metta; se non fossi stata assolutamente certa che erano tutti oggetti autentici avrei giurato che mi trovavo sul set di un film hollywoodiano sui pirati dei Caraibi.
Ed infine, quale ciliegina sulla torta, nel centro del salone, il mappamondo. Sia il piedestallo, alto circa un metro, che il globo, con un diametro di quasi un metro, erano d’oro massiccio ricoperto di gemme: acque marine per disegnare i mari, rubini per le Americhe, smeraldi per le foreste, zaffiri blu per l’Europa, topazi per l’Asia, e diamanti per la Persia. Ero uno sfolgorio di luce e lampi di colore da lasciare senza fiato che non riesco proprio a descrivere se non come “incredibile”.
Quando infine uscimmo, scortati dalle guardie armate, e tornammo a rivedere il sole, ci sembrò di esserci svegliati da un sogno ed eravamo come spersi, imbambolati, increduli; avevo un mal di testa cane, dovuto all’aria stagnante o più probabilmente, all’accecante ed inimmaginabile tesoro che avevo visto. Una immane ricchezza gelidamente inutile. Poi pensai alla mia briciolina, il mio piccolo brillante da un carato (che per prudenza avevo lasciato a Torino), l’anello di fidanzamento e pegno d’amore di mio marito, per me di valore insuperabile, ed il mal di testa mi passò. E tornai a godere dell’abbagliante azzurro delle moschee persiane.

Piera Favetto - febbraio 2009