Reggio Calabria - Festa ‘i Maronna   

      La tarantella  (‘a viddanedda)

Legato forse a certe manifestazioni rituali del periodo della Magna Grecia in occasione di festività agresti (vendemmia o trebbiatura) o di festività religiose, questo ballo antico era molto amato dai contadini dei dintorni di Reggio.
Al centro di un cerchio di gente ammassata che stava in piedi lì a guardare e a battere le mani ritmando, un uomo e una donna, generalmente contadini di Cardeto con i costumi della festa, al suono dell’organetto e dei tamburelli dai sonagli tintinnanti agitati da vari suonatori, si muovevano immedesimati in una danza liberatoria dalla cui varia simbologia, che caratterizza la cosiddetta fase di corteggiamento, scaturiva una coreografia affascinante.
La donna a volte sollevava con le mani un po’ le sottane, appena appena,   come se il gesto facesse semplicemente parte della danza. In effetti, pur  rimanendo perfettamente seria per dimostrare resistenza alle attenzioni maschili, quello svolazzare della gonna  poteva sottintendere nascostamente un cenno di  consenso. Anche l’uomo si muoveva serio nell’ansia della conquista, come con circospetta cautela e necessaria prudenza, ma a tratti, con piglio deciso, a braccia larghe schioccava le dita  come per dare un comando. Dunque frenetici nei movimenti antichi, ma dignitosamente sostenuti i due ballerini,  con gli occhi per lo più rivolti verso il basso a maggior dimostrazione di un distacco riservato. Tuttavia traspariva in qualche attimo, da quelle movenze sensuali dei corpi o da uno sguardo veloce e fulminante o da cenni inequivocabili, la voglia di piacersi o forse di destare gelosie, rivalità, o di stimolare intimi piaceri. La ricca gonna della donna, lunga e pieghettata, ondeggiava morbida sui piedi scalzi facendo a tratti intravedere le caviglie, e il seno saltava su e giù come volesse venir fuori dal corpetto un po’ scollato e già scurito dal sudore sotto le ascelle. In quei volti senza sorriso non si leggeva perciò la normale lietezza della danza, ma qualcosa di più, molto di più: un’intensa intima gioia e  sensazioni inconsce di insperata libertà. Uomini e donne insieme, a volte senza conoscersi, e senza ipocriti pudori, in una vicinanza fisica inusuale, potevano danzare finalmente liberi di guardarsi, di sfiorarsi come inavvertitamente, percependo il calore dell’altro o avvertendone il respiro ansante. Il piacere assaporato era perciò  così intimamente e violentemente intenso che non permetteva loro di sorridere.
A un certo punto, al comando “Fora ‘u primu!” di chi soprintendeva alla danza, il cosiddetto “mastru ‘i ballu”, che dettava le entrate  e le uscite, uno dei due ballerini, a volte l’uomo a volte la donna,  era obbligato a “uscire”, a ritirarsi indietreggiando lentamente. La donna con le spalle ben diritte adesso e la testa orgogliosamente alta (la sua onestà apparentemente non era stata scalfita!), cominciò dunque a indietreggiare con le mani dietro la schiena e sempre ritmando i passi. Lo sguardo fiero ma come assente, fisso in avanti verso un punto inesistente, sembrava celare insofferenza o desiderio inappagato. Dal cerchio degli spettatori  contemporaneamente, secondo l’ordine di scelta d’ ‘u mastru ‘i ballu, un’altra donna, con un mezzo sorriso enigmatico da cui traspariva l’ansia della seduzione, iniziò l’entrata  avanzando a testa alta, sempre seguendo il ritmo dei tamburi, fino ad arrivare al centro, a sostituire chi prima si era ritirato, e solo allora pudicamente abbassò lo sguardo e iniziò con il partner rimasto la danza vera e propria.
Date le giornaliere fatiche nei campi e a casa, stupiva particolarmente quell’incedere altero delle donne, spalle diritte e testa alta! Assaporando nel ballo la possibilità di dominio sull’uomo, le donne forse sentivano una maggior consapevolezza della propria forza, una decisa affermazione di se stesse! E questo a prescindere naturalmente da quella tipica usanza  di portare spessissimo sulla testa, appoggiati sopra una cuddura ‘i pezza (sorta di ciambella di stoffa che attutiva l’attrito sulla cute), considerevoli pesi (quartarii cocciu piene d’acqua presa alla fonte o grandi ceste stracolme di verdure), abitudine che certamente avrà contribuito parecchio  a dare alle contadine calabresi la tendenza al portamento  elegante,  da mannequin di campagna!
Quel tormentoso suono dei tamburi intanto, quel ritmo assillante che a volte incalzava in maniera esasperata, stordiva terribilmente, penetrava dentro, nelle orecchie, nelle stomaco. Come ipnotizzati infatti, gli spettatori immobili, partecipi anch’essi intimamente, non riuscivano a staccare gli occhi dai due ballerini.
Perché
il tamburo in effetti, come tocco deciso, conclusivo, determinante, a Reggio, era concreto simbolo di festa e  insieme forte richiamo all’attenzione, alla partecipazione della gente. E proprio questo all’epoca era infatti lo scopo di quel tamburo enorme che l’odierno banditore incaricato, legandolo con delle bretelle dietro le spalle, portava poggiato pesante sulla pancia. Battuto da due grossi bastoni di legno, un colpo più tre colpi accelerati più due appena distanziati, quel tamburo chiedeva attenzione e buona memoria, annunciando in ogni strada, tre giorni prima della festa, l’annuale approssimarsi del gran giorno. Il tamburo della banda invece richiamava un’attenzione di tipo sacrale: nella processione dietro il quadro l’uomo della banda con il grosso tamburo, ultimo dei suonatori, per battere il suo strumento faceva a testa alta un largo movimento delle braccia, con una mimica fra il teatrale e il sacerdotale, come volesse dire alla gente: - “Silenziu, ‘a Maronna sta passandu!” – e quindi batteva forte, con veemenza, i bastoni sul tamburo  prima con una mano e subito dopo con l’altra.

Mariella Di Pasquale - Gennaio 2009