L’Oeuv de Pasqua
On ricord de Milan al
temp de guéra: temp de bombardament e de fam, inscì
tutti se daven de fa per sbarcà el lunari…(come ci
racconta Brunetto, il bambino del collega Caminada).
Amici miei, non vi potete
neanche immaginare quanto mordeva la fame a quei tempi.
La guerra stava per finire ma nella nostra famiglia i
morsi della fame non erano finiti ed eravamo vittime
della furia degli… alimenti.
Come tanti altri, anche il mio papà bancario pensò di
fare l’allevamento in casa; con qualche baratto riuscì a
mettere le mani su una coppia di conigli e mezza dozzina
di galline. Mia madre non era d’accordo e continuava a
strillare: “Dove le mettiamo queste bestie e poi non
è decoroso per un impiegato”. Mio padre e io
tuttavia avevamo sistemato le galline in cucina sotto il
lavabo e i conigli in camera da letto, dentro il
cassettone. Già pregustavamo il sapore dei conigli al
forno con le patate e delle belle frittate di uova. Io
mi ero anche impegnato ad uscire nei prati per
raccattare erba e foglie di verza o broccoli…insomma
vegetali.
Così andammo avanti per un paio di mesi, però le cose
non andavano come sperato: i conigli non figliavano,
forse non si piacevano o
non avevano più nulla da dirsi. Poi scoprimmo che mio
padre era stato fregato, perché erano due femmine.
Allora lui per vendetta pensava di mangiarseli, ma io
ormai mi ero affezionato, così di notte li presi e li
nascosi nella baracca degli attrezzi di Arturo, il
portiere, brava persona, ma con... l’occhio lungo. Dopo
un paio di giorni già erano spariti; il portiere diceva:
“cosa el voeur scior Caminada, se ved che voreven la
sua libertà… mi podevi minga stagh adrée”.
Non erano rimaste che le galline, ma anche con
quelle non è andata bene: tre si sono beccate il tifo
(allora non c’era ancora l’aviaria), due erano
misteriosamente scomparse sotto Natale (forse ancora…
l’occhio del portiere) e l’ultima, una bellezza di
gallina bianca macchiata beige, è rimasta in famiglia,
tanto che le abbiamo dato nome Peppina (in ricordo di
una zia appena morta). Era la nostra pupa. Ero così
orgoglioso di lei che la portavo a spasso con la
cordicella insieme al cagnetto, col quale aveva stretto
un’amicizia così stretta che ci giocava a “teghelè”. Ma
quanto a uova… nisba, produzione zero.
Dopo giorni, settimane, mesi: niente. Si vedeva che
anche lei ci soffriva, la poveretta capiva che non era
in grado di corrispondere alle nostre attese. Anche
alcune stimolazioni, fatte a certe ore nel posto giusto,
indicateci dal veterinario (cose di cui si occupava
direttamente mio padre, perché erano cose per adulti)
non sortirono effetto alcuno.
E lei era sempre più sconsolata. Lo zio Ugo, infermiere,
provò con delle iniezioni strane, che aveva preso dagli
americani (quelle che facevano ai piloti bombardieri),
niente, non c’era modo di farla… sganciare. Ma
nonostante tutto lei era il tesorino di tutti, la vera
padrona di casa, aveva perfino la sua poltroncina per
ascoltare la radio.
Solo nonna Elvira, piuttosto acida (e forse un po’
gelosa), insinuava: “per mi la smorfiosetta la g’ha
domà la lazzaronite…intant la mangia e la bev ai noster
spall”.
Mio padre aveva perfino comperato di contrabbando un
libro sul disagio esistenziale delle galline allevate a
terra (noi però stavamo al quinto piano…), ma ci aveva
capito poco, anche perché era scritto in inglese. Finchè
ci siamo decisi a portarla da uno psicanalista svizzero,
venuto in Italia perché nel suo paese, neutrale, non
c’erano menti sconvolte dalla guerra, e lui, dopo averle
rivolto alcune precise domande, aveva concluso che si
trattava di soggetto di spiccata intelligenza, ma
piuttosto chiuso e poco incline alle esternazioni e alle
evacuazioni. Consigliava
di farla divertire, provando magari con il ballo, il
cinema o il teatro. Ma di soldi non ce n’erano; solo una
sera l’abbiamo mandata a ballare alla festa del rione.
C’erano dei bulli che andavano a gallinelle: un gallo
cedrone le stava sotto per ballare “chicken to chicken”,
ma senza successo: “cosa crede,io sono gallina seria,
non come quelle oche che vanno col primo che passa…”.
Intanto si avvicinava la Pasqua e qualcuno in casa
cominciava a pensare a un suo inserimento nel menù
pasquale, dando vita a un acceso dibattito: meglio come
primo, in brodo, oppure come secondo, arrosto con le
patatine? Sulla questione i pareri erano discordi,
qualcuno non si sentiva ancora di esprimere preferenze,
io comunque ero schierato per il Movimento della Vita.
Alla vigilia successe che il portiere (sperando nella
mancia) si offrì di intervenire: “ghe pensi mi”.
Mio padre acconsentì, proibendo però le maniere forti,
perché la creatura era delicata. Lui allora si chiuse in
bagno con Peppina e ci stette un paio di minuti, poi
uscì dicendo : “l’è tutt a post”.
Da quel momento si diffuse una certa aspettativa, mista
a curiosità e scetticismo; improvvisamente, verso sera,
sentimmo Peppina lanciare uno strano verso che sembrava
un acuto della Callas. Io per primo accorsi verso di lei
e, con grande meraviglia, vidi nel suo cesto un ovetto
piccolo e lei che sollevava la zampa, timidamente, per
mostrare il suo capolavoro.
A quel punto si levò dall’intera famiglia una vera
“standing ovulation”. Mia madre: “com’è bello, com’è
carino. Lo chiameremo Carino”. E poiché già alcune
mani si allungavano per prenderlo, io mi misi a gridare:
“nessuno tocchi Carino”. Poi mio padre,
esultante, si rivolse al portiere per sapere quale fosse
la sua formula miracolosa.
“Nient de special scior
Caminada: la Peppina l’ha capì subit la situazion quand
g’hoo dii: cara la mia tosa, mej on oeuv incoeu che ona
gajna doman! E lé per minga finì arost la se dada de fà”.
B. Caminada (by Gioz)
09 Aprile 2009
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