Giacomo Morandi ci ha inviato la bozza scritta del suo intervento del 5 febbraio 2010 alla conferenza sul 65mo anniversario della fucilazione del Vice Comandante della Divisione partigiana Giustizia e Libertà  Paolo Araldi che operava in Val Trebbia e sulle montagne limitrofe nel '44-45.

Alla conferenza erano presenti, oltre al sindaco e all'ANPI, rappresentanze dei carabinieri, degli alpini e delle scuole medie con gli insegnanti. Della manifestazione si è occupato "Libertà" nell'edizione del giorno successivo.

 

Clicca qui per visualizzare l'articolo di Nicoletta Novaro su "Libertà" del 6 febbraio 2010

 

 

 

L’ANPI, l’Associazione partigiani italiani, e il sindaco Martini mi hanno chiesto di tenere questa breve relazione sul Comandante Paolo per un motivo: io sono probabilmente uno dei pochissimi che, per età, lo ha conosciuto di persona quando, nel periodo della guerra di liberazione, operava in Val Trebbia e frequentava Rivergaro.

Era il periodo fra il 1944 e il 1945, dopo l’armistizio fra l’Italia e gli alleati anglo-americani dell’8 settembre 1943. Io ero un ragazzo di 15 anni appena compiuti e questo vi dice qual è la mia età attuale. Un mio amico dice che non siamo vecchi, ma “diversamente giovani”.

 

Non mi dilungherò a ricordare in dettaglio gli avvenimenti che portarono a quell’armistizio che pose fine alla disgraziata II Guerra mondiale. Sapete tutti che l’Italia era governata da un ventennio da una dittatura fascista, che il Duce del Fascismo e capo del governo aveva nel 1940 deciso di far entrare l’Italia in guerra a fianco dei nazisti che si proponevano di soggiogare l’Europa al loro potere. Gli italiani erano in maggioranza contrari alla guerra. Ne avevano già viste troppe ed erano state fatte senza interpellarli. Non c’era la democrazia. Il governo e in particolare il suo capo decidevano per tutti. Il Duce, nella sua megalomania, quando decise l’entrata in guerra, pensava di potersi sedere al tavolo dei vincitori, a fianco di Hitler, per ottenere una parte del bottino. Ma fu un disastro. Noi non eravamo preparati per una lunga guerra e i capi lo sapevano bene, ci eravamo logorati in Africa e in Spagna e non eravamo una nazione ricca, tutt’altro. Prendemmo legnate da tutte le parti, in Africa Orientale, in Libia, perfino in Grecia e quando anche i tedeschi cominciarono a loro volta a prendere batoste sui vari fronti, quando le nostre città furono bombardate, mancarono i beni più elementari per la sopravvivenza quotidiana, non restò che cercar di uscire dalla guerra al più presto, tanto più che gli angloamericani, all’inizio dell’estate del 1943, erano sbarcati in Sicilia e l’avevano conquistata in poche settimane, accingendosi a passare sulla penisola.

 

L’armistizio del settembre 1943 fu però, a sua volta, disastroso. I tedeschi occuparono con la forza dei loro carri armati due terzi dell’Italia, il governo italiano che era succeduto al fascismo due mesi prima fu costretto a fuggire verso l’Italia meridionale e nel nord i tedeschi costituirono un governo di fatto che confinarono sul Lago di Garda. I nostri soldati furono sopraffatti anche per mancanza di ordini precisi e in buona parte furono portati, prigionieri a centinaia di migliaia, nei campi in Germania.

 

Non mancarono, tuttavia, episodi di resistenza da parte di singole unità delle nostre forze armate, in Italia, nei Balcani, nelle isole dell’Egeo, come a Cefalonia e a Corfù. Anche a Piacenza si combattè per tutta la mattina del 9 settembre e vi furono molti morti fra i nostri soldati. Una lapide li ricorda a Barriera Genova.

 

A quel punto, molti giovani decisero di ribellarsi all’occupante e ai suoi collaboratori fascisti e si diedero alla clandestinità, si nascosero, molti salirono sulle montagne, molti furono poi catturati e fucilati, altri si presentarono anche per evitare la caccia all’uomo e rappresaglie alle loro famiglie. Erano giorni terribili e non era facile decidersi sul da farsi. Molti scelsero la via più difficile e più pericolosa, la clandestinità e la montagna. Molti pagarono con la vita o la deportazione. Anche la grandissima maggioranza dei soldati e ufficiali prigionieri in Germania rifiutò di accettare l’arruolamento nei reparti fascisti che avrebbe permesso loro di rientrare in Italia.

 

Nelle nostre valli si cominciò a parlare di ribelli, di patrioti, di azioni contro caserme dei carabinieri, polveriere, magazzini di armi, singole pattuglie tedesche, autocolonne. All’inizio, nella primavera del 1944, le voci erano ingigantite dal desiderio di veder contrastata la dominazione nazista. Si parlava ingenuamente di migliaia di uomini armati fino ai denti, di missioni alleate, di divisioni. Il fatto era che gradualmente sparivano dai paesi gli uomini più giovani, ma le loro madri non sembravano molto preoccupate, sapevano dove si trovavano, non lontano sui nostri monti.

Si cominciò a parlare di Paolo. Delle sue azioni audaci. Sulla bocca di tutti c’era il suo nome.

Era un vicebrigadiere dei carabinieri, di 32 anni, bell’uomo, dallo sguardo fiero.

Era nato a Montalbo di Ziano nel gennaio 1912, da famiglia contadina, non fece grandi studi ma aveva ugualmente una discreta cultura. Si arruolò volontario nell’Arma dei Carabinieri e raggiunse il grado di vicebrigadiere a Parma. Nei libri scritti nel dopoguerra e dai racconti dei colleghi si evince che il suo comportamento da carabiniere fu molto umano e tollerante, soprattutto cercò sempre di coprire e salvare gli oppositori del regime, ma tale sua attività fu scoperta grazie ad una spia che gli tese un tranello e fu arrestato. Fu liberato una prima volta per l’intervento di un superiore che lo stimava e che forse aveva le sue stesse idee, e fu incastrato una seconda volta, ma riuscì a fuggire.

Raggiunse così il gruppo di partigiani che nell’alta Val Luretta il tenente dei carabinieri Fausto Cossu aveva costituito e che rappresentò il primo nucleo di quella che poi diventò la Brigata Giustizia e Libertà e in seguito la 1° Divisione Piacenza, forte di migliaia di uomini. Paolo (il suo nome era Paolo Araldi) ne divenne in seguito il Vice Comandante.

 

Molte le sue azioni, spesso al limite del temerario. In giugno la sua squadra assaltò la caserma della Guardia Repubblicana a Rivergaro per procurarsi armi e vestiario. Ricordo che una notte ci svegliammo per le forti esplosioni e le scariche di fucileria e mitragliatrici. Capimmo che si trattava di partigiani. Il fuoco durò per una mezz’ora. La mattina dopo mi recai in paese e vidi alcuni militi in mutande seduti all’ingresso della caserma, in attesa che qualcuno venisse a rilevarli da Piacenza. Erano anche senza scarpe e disarmati. Un’altra azione di quei giorni fu l’assalto alla polveriera di Gossolengo. Paolo e i suoi, travestiti da soldati tedeschi disarmarono il presidio e s’impadronirono di armi e munizioni. Fu in quell’occasione, mi pare, che Paolo attraversò la piazza di Rivergaro sparando contro un gruppo di militi fascisti che riposavano seduti al bar. Le sue azioni e quelle del suo gruppo in pianura non si contavano. Parecchi membri della sua brigata erano ragazzi di Rivergaro, Molaschi, Torreggiani, Trenchi, Po, Marzolini, Rizzi e altri che al momento non ricordo.

 

Io lo conobbi quando, in luglio, dovetti scappare a Pigazzano con mio padre. Una mattina una squadra della Guardia repubblicana  cercò di catturare mio padre a Diara. Mio padre era un vecchio antifascista, oppositore intransigente del regime ed aveva il brutto vizio di parlare liberamente delle sue idee un po’ con tutti, con grande disperazione di mia madre. Era sorvegliato dalla polizia politica da anni, una volta fu picchiato sotto il portone di casa nostra in via Garibaldi a Piacenza. Nel giugno 1944 si era fatto anche una settimana di prigione insieme a un mio zio che riuscì a farsi liberare e a far liberare anche mio padre.

Quella mattina, però, non ci trovarono nonostante che la casa di Diara fosse stata perquisita da cima a fondo. Ci eravamo nascosti in un vecchio magazzino mezzo crollato. Pertanto, prendemmo una valigia e a piedi raggiungemmo Pigazzano dove sapevamo che erano di stanza i partigiani. Mio padre, che aveva allora 65 anni,  parlò con Paolo e fu trovato per noi un posto per dormire nei pressi della chiesa.

Il distaccamento di Paolo era forte di circa 120 uomini. Avevano un mortaio da 81 e una mitragliatrice pesante da 20 millimetri. Erano tutti piuttosto ottimisti. In quei mesi gli alleati avanzavano lentamente nell’Italia centrale e tutti speravano che potessero sfondare il fronte e arrivare da noi in poche settimane. Paolo invece disse a mio padre che i tedeschi e i fascisti erano molti di più dei partigiani ed erano molto meglio armati.

 

Quattro giorni dopo, i fatti gli diedero ragione. Una mattina all’alba fummo svegliati da un bombardamento e da scariche di mitragliatrici. Un cannone sparava su di noi dal Trebbia mentre Paolo e i suoi difendevano il castello dei Volpi dalle parti di Scrivellano. La battaglia durò per qualche ora ma i partigiani dovettero ritirarsi verso San Giorgio di Bobbiano. Noi e buona parte della popolazione li seguimmo. Il fondo valle pullulava di tedeschi con autoblindo e carri armati. Non c’era molto da fare. La battaglia continuò per un po’ nella valletta di Bobbiano dove incontrammo Fausto e Sormani (il commissario politico che poi diventò il primo sindaco di Rivergaro dopo la Liberazione).

 

Io e mio padre ci rifugiammo in Val Luretta e vi restammo per un paio di mesi, fino alla successiva liberazione di Rivergaro. A Pomaro era di stanza un distaccamento partigiano della Prima Brigata comandato da un sottufficiale dei carabinieri che poi fu ferito e catturato dai tedeschi durante un’azione sulla via Emilia. Io ero sempre in mezzo a loro, li aiutavo a pulire le armi, facevo loro compagnia durante i turni di guardia e andavo con loro a fare la spesa. Dio sa come avrei desiderato di imbracciare un fucile. Voi ragazzi potete capirmi. A quell’età non si considerano troppo i pericoli. Mio padre me lo impedì.

 

Non rividi più Paolo. So che durante il grande rastrellamento invernale tedesco fra il dicembre 1944 e il febbraio 1945, quando le formazioni partigiane furono disperse e braccate per settimane, Paolo fu nascosto presso amici nei pressi di Piacenza ma restò in contatto con molti dei suoi uomini e con Fausto.

Ai primi di febbraio del 1945 decise di realizzare un suo vecchio piano che peraltro Fausto non approvava perché era troppo pericoloso. Un attentato al Capo della Provincia di Piacenza e Comandante delle famigerate Brigate Nere Graziani. Paolo aveva un confidente di cui si fidava, un certo Edoardo Latty, chiamato Felice, ex ufficiale dei paracadutisti, il quale gli assicurò che aveva la possibilità di farlo passare attraverso il posto di blocco per entrare in città e che il momento era favorevole per l’attentato che doveva svolgersi all’angolo fra Corso Vittorio Emanuele e Via San Giovanni, a Piacenza.

Purtroppo il Latty faceva il doppio gioco ed era una spia dell’Ufficio Politico fascista, comandato dal capitano Zanoni (lo stesso che interrogò mio padre e perquisì la nostra casa di Piacenza durante i giorni di detenzione).

Paolo e Latty si presentarono verso sera al posto di blocco di Barriera Roma, ma erano attesi dal Capitano Zanoni e dai suoi che li arrestarono. Latty fu naturalmente rilasciato subito.

 

Non risulta che Paolo sia stato torturato. Forse si rendevano conto che da un uomo simile non avrebbero cavato niente di utile e poi avevano fatto un grosso colpo catturando uno dei capi più prestigiosi della Resistenza piacentina ed avevano fretta di ucciderlo.

Fu fucilato contro il solito muro del Cimitero di Piacenza il 6 febbraio 1945 da un plotone di militi fascisti comandati da un sottotenente della Guardia Repubblicana. Esiste un resoconto di un sacerdote che lo assistette negli ultimi momenti. Era sereno, chiese una sigaretta, chiacchierò pacatamente con alcuni militi e al giovane sottotenente disse di smettere di fare quel brutto mestiere, alla sua età. Non volle che lo fucilassero nella schiena. Gridò: Viva l’Italia. Negli ultimi momenti ricordò anche la fidanzata, una ragazza della Val Tidone, consegnò una lettera per lei che non fu mai recapitata.

Dopo la guerra gli fu conferita la medaglia d’oro al valor militare.

 

Per quanto riguarda Edoardo Latty, risulterebbe, da ricerche effettuate dal giornalista Ermanno Mariani, autore del libro “Piacenza Liberata” e di altri saggi sulla Resistenza piacentina e sul Fascismo nostrano, che gli stessi fascisti, dopo averlo pagato, lo consegnarono al gruppo di torturatori italo-tedeschi che operava in via Cavour a Piacenza, comandati da un certo maresciallo Maroder e che questi lo uccisero buttando poi il corpo in Po, come avevano già fatto in altre occasioni.

 

Zanoni fu invece catturato in un paese di là dal Po nei giorni della Liberazione mentre cercava di mettersi in salvo e nei giorni successivi fu fucilato.

 

 *  *  *

Vorrei ora, prima di chiudere e lasciare la parola a qualcun altro, fare qualche mia osservazione, soprattutto indirizzata ai ragazzi, qualcuno forse ha l’età che avevo io a quei tempi. Erano tempi difficilissimi, spesso tragici. Ci trovavamo spesso in pericolo, c’era poco da mangiare, non si trovavano i beni di prima necessità. Molte famiglie avevano i loro cari lontani, chissà dove. Molti erano morti e non si sapeva ancora. Molti prigionieri. In Germania, in Inghilterra, in Russia, perfino in India.

Noi ragazzi eravamo un po’ incoscienti, spericolati ma i disagi ci facevano maturare presto.

Avevamo però degli ideali. Molti di noi li avevano. I più fortunati li avevano ricevuti dai genitori. La scuola ci aveva insegnato soltanto ideali falsi, violenza, sopraffazione verso i diversi, prepotenza verso i nostri vicini, guerra, avventure militari. Pochi avevano avuto la fortuna di sentire qualche campana diversa. Io ero fra questi. In casa mia si leggevano alcuni giornali stranieri, quando si trovavano o l’Osservatore Romano e si ascoltava regolarmente Radio Londra e la Voce dell’America ed era tutta un’altra musica.

Capivamo che in quei paesi la gente era libera di pensare, dire, scrivere quel che voleva, senza essere perseguitata. I governanti erano eletti dal popolo e non si autonominavano come da noi.

Capivamo che le guerre scatenate dal nostro regime erano ingiuste. Quella guerra aveva già provocato centinaia di migliaia di morti e grandi distruzioni e il nostro paese non era nemmeno attrezzato a farla. Avevamo perso su tutti i fronti.

Speravamo che tutto finisse al più presto, in un modo o nell’altro, ma non con la vittoria della Germania e del nazismo che avrebbe reso schiava tutta l’Europa. E volevamo anche, ardentemente, la fine del fascismo nel nostro paese e l’avvento della democrazia.

La libertà, ragazzi, è un bene prezioso ed è facile perderla perché ci sono in giro persone che  la vogliono solo per sè e la negherebbero volentieri agli altri. Il popolo non deve distrarsi, non deve seguire i capopopolo, i capi carismatici che promettono e non mantengono, raccontano balle.  Le notizie ed i commenti vanno interpretati, soprattutto quelle della televisione, con spirito critico. Non credere all’ultimo che parla, fare sempre la tara.

I giovani, soprattutto, devono coltivare qualche ideale. Mio padre diceva sempre: “rivoluzionari o progressisti a vent’anni, conservatori a cinquanta”. Voleva dire semplicemente che i giovani devono coltivare gli ideali non l’interesse privato, mentre ai più anziani è magari concesso pensare anche all’interesse.

 

Giacomo Morandi