PAOLO

Ho conosciuto il Comandante Paolo (Alberto Araldi) a Pigazzano, verso la fine di luglio dell’anno 1944. In Val Trebbia ed in particolare a Rivergaro se ne parlava da un paio di mesi. Stava diventando un mito. Anche perché molte famiglie del paese avevano figli, fratelli, parenti nella brigata partigiana da lui comandata e che aveva già fatto parlare di se per alcune azioni contro i tedeschi e le milizie fasciste che circolavano nella nostra provincia.
Di lui si sapeva che era carabiniere, ufficiale o sottufficiale e che proveniva dalla Val Tidone. Carabiniere come il capo dei partigiani di Val Trebbia e Val Tidone, Fausto e come altri che avevano abbandonato le loro caserme per non servire i tedeschi ed il rinascente fascismo.
Mio padre ed io, in un fatidico mattino di fine luglio, dopo un tentativo di cattura da parte di una squadra fascista, non so bene se si trattasse di militi della Guardia Nazionale Repubblicana o delle appena costituite Brigate Nere, avevamo preso i sentieri che da Rivergaro, guadato il fiume Trebbia, conducevano a Pigazzano, un piccolo paese appena sotto il monte Pillerone. Avevamo con noi pochi indumenti, oggetti di conforto e viveri, in una vecchia valigia che io portavo e che mi sbilanciava da un lato mentre camminavo e raddoppiava la fatica della salita.
Fortunatamente, a metà strada, ci imbattemmo in un motocarro con due giovani partigiani a bordo che ci fecero accomodare sul cassone e ci portarono a Pigazzano.
In quei giorni eravamo certi che la liberazione, con l’arrivo delle truppe anglo-americane e la discesa dei nostri dai monti, fosse ormai questione di pochi giorni o poche settimane. Per questo motivo avevamo portato così poco con noi e non avevamo idea su dove passare la notte e su che cosa fare nei giorni successivi.
A Pigazzano una donna ci indirizzò ad una casa appena sotto la chiesa parrocchiale, dove una sua conoscente disponeva di una camera. Quest’ultima fu lieta di metterla a nostra disposizione. Era una piccola camera, bassa di soffitto, con travetti in legno parzialmente dipinti di bianco, un letto in ferro con reti mezze sfondate e materassi pieni di “scartoffie”, le foglie che ricoprono le pannocchie di granoturco, un piccolo cassettone , un catino con brocca di metallo smaltato.
Ci sistemammo nella camera e poi uscimmo. Mio padre chiese di Paolo ad alcuni partigiani di Rivergaro che conoscevamo bene. Ci indicarono una scaletta che scendeva dalla strada verso la cantina di una casa. Dal cortiletto ai piedi della scaletta provenivano grida rauche e comprendemmo che qualcuno stava strapazzando qualcun altro. Era Paolo che faceva una violenta paternale ad un malcapitato seduto su un gradino che ascoltava a testa bassa. Lo riconobbi. Era un giovane di Rivergaro che apparteneva ad una nota famiglia di fascisti: Dicevano in paese che facessero volentieri la spia a favore dei fascisti, forse non tutti i membri, ma allora si faceva d’ogni erba un fascio e se era fascista, o antifascista, il padre dovevano avere le stesse idee anche i figli eccetera.
Mio padre sapeva, però, che quel giovanotto aveva l’anno precedente informato il maresciallo dei carabinieri che in casa mia si ascoltava Radio Londra. Lo sapeva perché glielo aveva spifferato lo stesso maresciallo, il quale, qualche mese dopo aveva abbandonato la caserma con i suoi militi e si era unito ai partigiani di Fausto.
Quel giovanotto se la cavò con la strigliata di Paolo, anche perché era salito a Pigazzano di propria volontà per arruolarsi fra i partigiani, ma fu rimandato a casa.
Mi sorpresero la calma ed il sorriso di Paolo dopo la sfuriata, quando si soffermò a parlare a lungo con mio padre.
Paolo comandava un distaccamento di un centinaio di uomini, abbastanza bene armati. Disponevano di una mitragliatrice da 20 millimetri che aveva sparato alcune raffiche un paio di settimane prima verso Rivergaro nel corso di un breve attacco dalla riva sinistra del Trebbia, nel quale ero stato coinvolto mentre facevo il bagno nel fiume con alcuni amici in una località chiamata “Tre alberoni”. Avevano un mortaio da 81 millimetri e stavano addestrandosi ad usarlo. Ciò che mi colpì fu un grosso binocolo da marina su treppiede di grande potenza che loro chiamavano “telemetro”. Con quel binocolo riuscivo a vedere distintamente il giardino di casa mia a Diara e quello di Savignano dove mi parve di intravedere la Nena, una mia fiamma giovanile.
Paolo era un bell’uomo, dallo sguardo fiero, sapeva essere elegante pur nelle ristrettezze degli equipaggiamenti partigiani e mi fece una grande impressione. Il distaccamento di Pigazzano, che poi sarebbe diventato la III Brigata della Divisione Piacenza, era abbastanza disciplinato, pur annoverando nei suoi ranghi qualche elemento che non aveva mai fatto addestramento militare. Lo si vedeva nelle adunate sulla piazzetta del paese, quando Paolo impartiva gli ordini o dava qualche lavata di capo. Quasi tutti si tenevano in riga ed ascoltavano compunti, ma c’era sempre uno che dava segni d’impazienza o sbuffava rumorosamente. Erano molto ottimisti e si dichiaravano certi di poter far fronte, con le loro armi, ad attacchi di autoblindo e carri armati. Uno di loro mi disse: “Per i carri armati abbiamo le bottiglie di benzina”. Lo dissi a mio padre che mi guardò con un sorriso un po’ dubbioso.
Una mattina, verso le 8, arrivò a gran galoppo un partigiano a cavallo. Saltò a terra ed annunciò al comandante che i fascisti avevano attaccato Agazzano ed era in corso una battaglia. Gli uomini furono subito riuniti e si prepararono alla partenza. Alcuni si misero in spalla i fucili mitragliatori, altri portavano cassette di munizioni. La battaglia si svolgeva ad un paio d’ore di cammino ed il distaccamento non possedeva ancora mezzi di trasporto. Solo nelle settimane successive ne ne furono catturati alcuni nel corso di azioni sulla Via Emilia. Ad un certo punto arrivò un altro cavaliere che diede il contrordine. Non occorreva più l’aiuto di Paolo e dei suoi. I fascisti si erano ritirati.
Passammo a Pigazzano tre giorni. La mattina del quarto giorno fummo sorpresi da un forte cannoneggiamento che proveniva dal fondo valle. Mentre facevamo fagotto, una nutrita fucileria ci indicò che i partigiani stavano difendendo le loro posizioni al Castello dei Volpi, un po’ sotto Pigazzano, ma verso mezzogiorno anche loro dovettero ritirarsi.
Rividi Paolo a San Giorgio di Bobbiano qualche ora dopo mentre confabulava con Fausto e Sormani ed anche mio padre si unì a loro. Quando tornò mi disse di prendere la valigia e ci rimettemmo in cammino, per arrivare dopo il tramonto nei pressi di Monteventano, ma questa è un’altra storia.
Quando Rivergaro fu di nuovo occupata dai partigiani, in settembre, incontrai Paolo, con Fausto, nei pressi di casa mia, a Diara. Mi guardò e parve che mi riconoscesse, ma mi chiese: “Tu sei un fratello del Dottor Giorgio?” Gli risposi di no e gli dissi chi ero. Allora si ricordò e mi disse di salutare mio padre.
Non l’ho più rivisto. Ero a casa, nel febbraio successivo, dopo il tragico rastrellamento invernale, quando si sparse la voce che Paolo era stato catturato a Piacenza dai fascisti e subito fucilato. La gente sussurrava la notizia e ne era costernata. Era come se tutti avessero perduto un figlio, un fratello. La sua popolarità nella valle era immensa. Ricordavamo le sue imprese temerarie nelle polveriere di Gossolengo e San Bonico, sulla via Emilia e nel nostro stesso paese che una volta, di ritorno da un’azione in pianura, aveva attraversato a grande velocità in auto sparando raffiche di mitra contro gli attoniti fascisti sulla piazza principale.
S’era fatto prendere ad un posto di blocco alla periferia della città mentre stava per mettere in atto l’ennesima azione, tradito da una spia.
Molti erano stati i caduti e gli uccisi fra dicembre e marzo. Le perdite fra i partigiani e fra la popolazione delle nostre montagne durante il rastrellamento della Divisione Turkestan e delle milizie fasciste erano state ingenti, ma la morte di Paolo fu più sentita delle altre.
Dopo la Liberazione gli fu conferita la medaglia d’oro al valor militare alla memoria.

Giacomo Morandi - giugno 2009