E’ risaputo che la storia non si fa né con i 'se’ e neppure con i ‘ma’.
Tuttavia essa stessa si incarica, a volte, di proporci delle riflessioni su
come si sarebbero potuti svolgere certi avvenimenti cruciali se i disegni,
l’audacia o la fortuna dei protagonisti si fossero orientati o manifestati
in modo diverso da come invece si prospettarono. Il destino dell’Occidente e
fors’anche dell’umanità intera avrebbe potuto assumere – a parere di chi
scrive – connotati differenti e sovvertire il corso della storia almeno in
tre grandi occasioni dell’antichità.
La prima si presentò con Alessandro Magno
(356/323 a.C.). Figlio di Filippo II re di Macedonia, fu
educato da Aristotele. Dal padre ereditò il progetto di conquista
dell’impero persiano e, giovanissimo, vi riuscì, portando le sue truppe
vittoriose ben oltre l’attuale Iran, in India fino alla regione del Punjab e
in tutto l’Egitto, oltre la città di Tebe, ellenizzando così un territorio
vastissimo che si estendeva dalle rive a est del mare Ionio – per
intenderci, dall’attuale Albania - fino all’India occidentale. Ma i suoi
propositi andavano oltre. Nelle intenzioni del condottiero v’era il
progetto, prima, di una spedizione verso l’Arabia e, dopo, ultimata l’opera
di unificazione amministrativa e culturale delle regioni acquisite, una
ulteriore espansione verso occidente che, con la conquista dell’Italia, di
Cartagine e della Spagna, facesse coincidere il suo impero con i confini del
mondo allora conosciuto. Sappiamo che a quell’epoca (siamo intorno al 300
a.C.) nessuna popolazione degli anzidetti territori avrebbe potuto
ragionevolmente resistergli. E il mondo, questo è sicuro, avrebbe preso
un’altra direzione. Ma egli morì di malaria sulla via del ritorno
dall’India, a Babilonia. Aveva 33 anni ed era il 323 a.C.
La seconda si ebbe con il cartaginese Annibale
(247/183 a.C.). Primogenito di Amilcare Barca, fu allevato
nell’odio verso i Romani. Continuò giovanissimo – a 26 anni – la scelta
espansionistica del padre verso la Spagna allo scopo di farla finita, una
volta per tutte, con Roma, alla quale Cartagine contendeva il
predominio nel Mediterraneo. Ne provocò la reazione occupando Sagunto,
colonia romana in Spagna e dando così inizio alla seconda guerra punica
(218/202 a.C.). Dalla Spagna partì verso l’Italia con un esercito di ca.
40.000 uomini, una nutrita schiera di elefanti e una prestigiosa forza di
cavalleria. Valicò i Pirenei e poi le Alpi, per primo nella storia con un
esercito tanto numeroso, grazie alla sua fiera determinazione, al suo
ardimento e al carisma che esercitava sulle truppe. L’impresa, per il vero,
gli costò il sacrificio di oltre 10.000 soldati e di quasi tutti gli
elefanti, ma egli non si scoraggiò. Anzi, nel primo contatto alla Trebbia,
vicino a Piacenza nel 218 a.C., inflisse ai romani – guidati da uno Scipione
– la prima sconfitta. L’anno successivo, dopo aver valicato l’Appennino e
perso un occhio, battè i romani sulle sponde del lago Trasimeno. Roma cercò
la rivincita e, armato un poderoso esercito al comando di due Consoli,
affrontò Annibale a Canne in Puglia (216 a.C.) dove si consumò una vera e
propria carneficina di soldati romani e vi perirono entrambi i Consoli. Per
Roma fu un disastro completo e da quel momento temette seriamente per la sua
stessa sopravvivenza. Alla città non rimasero a propria difesa che le mura
gigantesche. Annibale – condottiero di prima grandezza – dopo la strepitosa
vittoria rinunciò, non sappiamo per quale misterioso motivo, a impadronirsi
della città eterna. Anzi, si avvicinò fin sotto le mura mastodontiche e
lanciò all’interno un giavellotto in segno di sfida (o di disprezzo?)
Probabilmente egli voleva raggiungere il risultato di frantumare il sistema
romano di alleanze puntando sulla rivalità con Roma dei celti a nord e delle
città della Magna Grecia a sud. Comunque sia, l’esitazione gli sarà fatale.
Consapevole del pericolo mortale, Roma corse ai ripari con due scelte che si
rivelarono decisive per il suo futuro. Affidò dapprima un’armata a Quinto
Fabio Massimo con il compito di tenere a bada, senza attaccarlo,
temporeggiando, il temibile avversario e preparò poi un esercito fortissimo
da trasferire via mare in Africa, con il quale portare la guerra sullo
stesso territorio di Cartagine. Le vicende si svolsero proprio come il
Senato romano aveva previsto. Minacciata da vicino, Cartagine si affrettò a
richiamare in patria Annibale (al quale, per la verità, aveva fatto mancare
qualsiasi aiuto) che, da grande patriota, ubbidì, lasciando definitivamente
la penisola dopo sedici anni di scorribande. Il destino però era segnato. Lo
scontro decisivo avvenne a Zama, nelle vicinanze di Cartagine, il 202 a.C.
Le truppe romane erano agli ordini di Scipione – che sarà detto l’Africano –
lo stesso che, dodicenne, era presente, quale figlio del comandante, alla
sconfitta romana della Trebbia. Cartagine soccombette e Annibale – dopo – si
dedicò alla ricostruzione con lo scopo, non rivelato ma scoperto dai romani,
di far rialzare la cresta a Cartagime prostrata dai debiti di guerra. Roma
però (e la stessa, invidiosa casta dei potentati locali) non lo tollerò e ne
chiese la consegna. Piuttosto che l’umiliazione e il ludibrio della
prigionia e di un processo nella città nemica, Annibale preferì l’esilio in
Bitinia dove, braccato dai romani, scelse il suicidio. Ma se fosse penetrato
in Roma da vittorioso, come era stato dopo Canne, quale altra direzione
avrebbe preso il mondo?.
La terza occasione si presentò a Lepanto
domenica 7 ottobre 1571 a distanza di circa 18 secoli dalla
precedente. Dopo l’occupazione di Costantinopoli, avvenuta nel 1453,
l’espansione turca pareva ormai inarrestabile. Sotto il suo dominio erano
caduti la Siria, l’Arabia, l’Egitto, Rodi, Belgrado e l’Ungheria. I soldati
turchi erano giunti fin sotto le mura di Vienna. Per di più il mare
Mediterraneo era sotto costante controllo della marineria turca. Minacciata
seriamente, l’Europa del sud corse ai ripari.
Promossa da papa Pio V col pretesto di soccorrere la veneziana città di
Famagosta, sull’isola di Cipro, assediata dai turchi
(1), fu istituita la cosiddetta Lega Santa a cui parteciparono, oltre
allo Stato Pontificio, la Repubblica di Venezia, il Regno di Spagna, la
Repubblica di Genova e di Lucca, il Ducato di Savoia, Il Granducato di
Toscana, i cavalieri di Malta, i Farnese di Parma, i Gonzaga di Mantova, gli
Estensi di Ferrara e i Della Rovere di Urbino. Lo scopo era di porre fine ai
pericoli giudicati ormai imminenti distruggendo l’arma offensiva a
quell’epoca più potente, cioè la agguerritissima marina militare. Fu creata
con il contributo di tutti i partecipanti una flotta potentissima di circa
200 fra galee e galeazze e una truppa di ca. 30.000 soldati (fra questi vi
era anche Miguel de Cervantes che rimarrà ferito gravemente a un braccio).
Il naviglio era dotato di ca. 1800 cannoni in grado di sparare palle da 13 o
da 23 kg.. I turchi disponevano invece di circa 275 navi da guerra armate
con 750 cannoni. La flotta della Lega era agli ordini di Don Giovanni
d’Austria, figlio illegittimo di Carlo V, coadiuvato da alti esponenti degli
Stati partecipanti, fra i quali Marcantonio Colonna per lo Stato del
Vaticano, Agostino Barbarigo per Venezia, Gianandrea Doria per Genova e
altri. Quella turca era comandata da Mehmet Alì Pascià.
Lo scontro, violentissimo e decisivo avvenne il 7 ottobre 1571 nelle acque
di una località del Golfo di Corinto chiamata Epaktos dagli abitanti e
Lepanto dai veneziani e si concluse con una schiacciante vittoria delle
forze comandate da Don Giovanni d’Austria. Il comandante avversario perì
nella battaglia, nella quale morirono anche 30.000 uomini e affondarono più
di 100 navi (circa 120 furono catturate). Questo scontro epocale è
generalmente considerato come la prima grande, determinante vittoria di
un’armata occidentale che ebbe come risultato quello di avere sbarrato
definitivamente il passo all’invadenza dell’impero ottomano e segnato un
punto di svolta importantissimo negli equilibri militari e politici non
soltanto nel Mediterraneo ma nella stessa Europa. E se i turchi a Lepanto
avessero prevalso?. Ma, come detto, la storia non si fa né con i ‘se’ e
neppure con i ‘ma’.
Lorenzo Milanesi- novembre 2009
(1) Il 1° agosto 1571 si arrese ma i turchi non
rispettarono i patti e il comandante
della fortezza, Marcantonio Bragadin, fu scorticato vivo
davanti a un pubblico
plaudente.
LORENZO MILANESI (1925)
Decenne, lascia la
natia Calabria per Milano dove si avvia agli studi ginnasiali e quindi a
quelli classici. che possono essere richiesti on-line all'editore: www.rubbettino.it
|