Elisa Robino
 
 
 

 Elisa Robino


 Il racconto

Ogni volta che passavo di lì mi si stringeva il cuore. Quel primo isolato di via Melo, fra via Piccinni e corso Vittorio Emanuele, aveva ancora il potere dopo venticinque anni di scatenarmi dentro l'inferno. Via Melo n° 13. Portone antico, di classe, con la rimessa per l'auto del proprietario e, in fondo, un vecchio giardino rovinato dal tempo.
Quando vi passavo davanti non potevo non alzare la testa verso i balconi del terzo piano, dove ero nata quarantacinque anni prima e dove ero vissuta per circa venti anni.
Ero innamorata di quel palazzo dalle mura di pietra massiccia, che conteneva le mie radici e il mio passato, di quel tratto di strada che mi aveva visto bambina attraverso gli occhi della gente semplice di tanti anni fa. Da piccola, specie di estate, stavo sempre in giro con la mia bicicletta e per quel carattere buffo e comunicativo che mi ritrovavo, avevo fatto amicizia con i negozianti della strada, che ogni giorno mi salutavano, mi sorridevano e mi regalavano qualcosa.
Non so se questa sensazione di calore e di affetto, che avvolge in un alone la mia infanzia, corrisponda a verità o sia solo una trasfigurazione della mia memoria. Io so soltanto che negli anni successivi al trasloco della mia famiglia, ogni qualvolta io mi trovavo a passare davanti alla mia vecchia casa, sentivo un gelo nel cuore. E mi sorprendevo sempre più spesso ad affrettare il passo e ad abbassare la testa, come una ladra che non vuole essere riconosciuta. Solo più tardi, quando smisi di barare con me stessa, capii che lo facevo per evitare di provare il dolore di non essere riconosciuta più da nessuno. Ormai era diventato un incubo, un amore incorrisposto. Io amavo quella casa ma lei non mi amava più, non sapeva neanche chi fossi. Amavo quella strada, ma i vecchi negozianti erano ormai tutti morti o cambiati e nessuno si ricordava di me. Ecco perché il gelo nel mio cuore. Smettere di vivere nella memoria della gente, non è un po' come morire? Più passavano gli anni e più dentro diveniva struggente il ricordo delle stanze enormi dai muri doppi e i soffitti alti, i mobili antichi e il termosifone che mio padre accendeva con legna e carbone, nelle fredde albe d'inverno ancora bagnate di rugiada.
E quasi tutti i miei sogni notturni, specie dopo la morte dei miei genitori, avevano come sfondo questa casa. Era come se la nuova abitazione di cemento e cristallo, voluta dai miei ma non amata da me, non fosse mai entrata a far parte del mio inconscio. Finché un giorno decisi di farla finita con questa angoscia che mi portavo dentro. Io volevo rivedere la mia vecchia casa, anche se sapevo che era praticamente impossibile risalire quegli antichi scalini e suonare alla porta di gente sconosciuta. Ma lo feci.

 

Una sera d'autunno, all'imbrunire, nell'ora in cui tutto scolora e ci si arrende alla malinconia, m'infilai furtivamente nel portone da cui ero uscita ed entrata orgogliosa con mio padre migliaia di volte, seguita dal saluto deferente del portiere. Cominciai a salire le vecchie scale di marmo larghe e piatte, fermandomi a leggere le targhette sulle porte. L'Avv. De Rellis al primo piano non c'era più, e neanche l'Ing. Zotti al secondo. E al terzo piano, il mio, chi avrei trovato?
Sul muro un po' sbreccato del terzo e ultimo piano, accanto alla porta di legno lavorato, nessuna indicazione. Solo il segno dei buchi d’una vecchia targhetta ormai tolta.
Avrei avuto il coraggio di suonare? Evidentemente lo ebbi, perché non so più dopo quanto tempo, qualcuno aprì.
Dovetti abbassare lo sguardo per vederla. Era una bambina buffa, minuscola ma simpatica, di circa otto anni, con una zazzera corta castana, i pantaloni e una maglietta a righe.
"Chi sei?" mi chiese con una vocetta nasale e gli occhi ridenti.
Non seppi che risponderle.
"Claretta... Chi è?" una voce da lontano gridò, avvicinandosi. Una voce che mi risuonò nel cuore e nel cervello, che non sentivo più da anni, ma che non potevo aver dimenticato.
"Claretta, insomma..." Un attimo di stupore. "Ma... sei tu... entra, Clara, non stare sulla porta, da quanto tempo, sei tornata finalmente!"
"Sì, sono tornata, volevo rivedervi almeno una volta prima di ripartire". E l'abbracciai. Affondai il viso, come tanto tempo prima, nel suo seno accogliente e morbido che non aveva perso quel profumo misto di lei e della sua vecchia colonia.
Aveva come al solito i capelli tirati su con due pettinini di tartaruga e i vestiti ordinati, anche se mai alla moda o di gran taglio, per la sua famosa parsimonia.
"Come mai questa visita inaspettata, Clara? Sei tornata da uno dei tuoi lunghi viaggi? Ti trovo un po' sciupata, con quella vita che fai, sbattuta fra treni e aerei... ma sempre elegantissima. Ti stanno bene i capelli portati così lunghi, con quella tonalità di biondo. Eh, ormai non sei più la nostra bambina dai maglioni e pantaloni informi, con la testa sempre fra le nuvole e le poesie."
La piccola ci guardava incuriosita.
"Ma tu chi sei? Ti chiami come me?" chiese timidamente. La presi in braccio. Era leggera come un pulcino.
"Sì, mi chiamo Clara come te e sono una parente della tua famiglia, diciamo una parente molto stretta. Anch'io un tempo abitavo in questa casa e ne conoscevo tutti gli angoli più remoti". La misi giù. "Aspetta, aspetta, fammi vedere se c'è ancora la porta del bagno dietro quella tenda".
"Certo che c'è", disse Claretta ridendo "mica può essere volata via."
"E la caldaia del termosifone dietro quell'altra tenda nel corridoio? E poi, poi... tutti i miei Topolino nel cassettone dell'ingresso?"
"Ma sai proprio tutto! Vediamo se ti ricordi le altre stanze". Mi prese per mano e aprì una porta. Era lo studio di mio padre, scuro, antico, spagnolo, con la carta da parati bordeaux e oro e il salotto di pelle marrone. Era lì che leggeva il suo amato Pirandello. Lui che sorrideva sempre anche nelle contrarietà, perché la vita era una commedia troppo grottesca per essere presa sul serio. Quando mi vide, mi venne incontro premuroso come sempre.
"Ecco la nostra giornalista che ritorna. Come stai, tesoro? Raccontaci tutto."
"Un attimo e sono da te... Devo continuare a fare il giro delle stanze con Claretta".
Lei mi tirava per mano lungo il corridoio, dove da piccola giocavo a pallone con mio padre o mi rotolavo facendo i capricci. "Senti, che vuol dire giornalista?" mi chiese seria Claretta.
"Giornalista è uno che scrive per i giornali. Non so come spiegarti... Per esempio accade un avvenimento importante in una parte del mondo, e allora il giornale da cui dipendi ti manda laggiù come inviata e tu gli spedisci un articolo che verrà poi pubblicato."
"Che bello, a me piace scrivere le poesie, chissà se un giorno anch'io... Le vuoi leggere, dopo, le mie poesie?"
Nel frattempo mi stava aprendo un'altra porta. Era la stanza che più mi aveva angosciata da bambina, una stanza quasi sempre al buio, quella di mio fratello, malato di sogni perduti. Dormiva e lo lasciai dormire. Il mio tenero fratello dagli occhi buoni, che mi aveva insegnato a costruire intere città di cartone e a capire l'amore universale.
Richiudemmo piano la porta e fummo nella mia vecchia cameretta dai muri giallini e la poltrona letto amaranto con ancora il foro bruciacchiato da una sigaretta, la scrivania dove avevo studiato per tanti anni e la piccola libreria che non riusciva mai a contenere tutti i miei libri. In fondo alla stanza il letto di mia sorella, più grande di me di dieci anni e che era andata via da tanto tempo...
"E questa te la ricordi?" disse Claretta, aprendo allegra l'ultima stanza che si affacciava sul corridoio.
Il lettone dei miei genitori, dove mi rifugiavo quando ero triste, il cassettone profumato di biancheria, la toilette con le vecchie colonie di mamma, il talco Felce Azzurra, la crema Nivea e poi nell'angolo il pianoforte nero, suonato una volta un po' da tutti e poi dimenticato insieme agli spartiti ingialliti.
Tornammo indietro lungo il corridoio, fino in cucina. La mamma stava già rimestando tra le pentole per prepararmi qualcosa di speciale. Sedetti fra quei mobili laccati verde acqua, che in seguito cercai inutilmente di comprare nei miei vagabondaggi per il mondo.
"Clara, ti fermerai a cena con noi, vero? Claretta, vai di là in camera da pranzo a preparare la tavola... E dimmi, cara, con Sergio poi come andò?"
"Alla fine ci separammo, mamma, non sopportava proprio i miei viaggi".
Mi guardò con occhi un po' addolorati, ma non so fino a che punto lo fossero per me o per la panna che non montava.
"Ma ora non sei sola, vero? Hai qualcuno che ti vuole bene? Vedi cara, non sai quanto io stia sempre in pena per il tuo modo impulsivo e ribelle di prendere la vita."
"Sì, certo mamma, ho qualcuno". Ma come farle capire che avere qualcuno non significava necessariamente esorcizzare per sempre la propria solitudine. Nessuno, per quanto ci ami, potrà mai salvarci da noi stessi, dagli incubi, dai fantasmi, né potrà mai strisciare dentro di noi nell'esatto momento in cui stiamo per sprofondare in una crisi di identità o di scissione dell'io, in quei momenti in cui ci sembra che la vita si stia dissolvendo come un film... o una musica lontana. Come poter dire queste cose a mia madre, che aveva passato una vita fra torte e conserve prima e acquisti di appartamenti poi, ovattata nello sguardo benevolo mio padre che le lasciava fare e disfare le nostre vite senza battere ciglio.
"Sapessi, Clara, come si sono riacutizzati i miei dolori reumatici, e la cataratta all'occhio e le vene varicose..."

Non l'ascoltavo già più. Avevo solo voglia di andare via al più presto. Mi erano tanto mancati e certo mi sarebbero mancati ancora perché io mi ero nutrita di loro, ero viva per loro, ma ora volevo andare via, nel fresco della notte. Mi rimisi l'impermeabile.
"Ma come, vai già via? Non ti fermi a cena?"
"Mi dispiace mamma, sarà per un'altra volta. Un altro aereo mi aspetta".
"Te ne vai?" mi chiese Claretta che era arrivata di corsa con i foglietti delle sue poesie.
"Sì, devo andare" le dissi prendendola in braccio, "ma ti prometto di tornare presto, se anche tu a tua volta mi prometti una cosa".
"Coosa?" cantilenò Claretta facendomi un po' il verso.
"Mi devi promettere... che non rinuncerai mai ai tuoi sogni" le dissi tutto di un fiato, baciandola sulla guancia sporca di penna.
Abbracciai tutti e corsi giù per le scale. Ora sapevo da cosa ero fuggita, ma sapevo anche che niente poteva sostituire il proprio passato.
Mi venne incontro il portiere, un po' trafelato.
"Signorina, ma dove scappa? Chi cercava? Perché ha suonato così a lungo il campanello del terzo piano, non vede che la casa è disabitata...?"
Guadagnai con indifferenza il portone, mi alzai il colletto dell'impermeabile e strinsi più forte la cintura. Strano, non camminavo più a testa bassa. Erano le ventidue, troppo tardi per cercare un amico e troppo presto per rincasare. Decisi di fare due passi a piedi verso il lungomare illuminato dai lampioni. Mi voltai per l'ultima volta verso il n° 13 di via Melo: non mi sentivo più sola.

Ora, sapevo che lì qualcuno ancora mi amava.