C'era una
volta il posto in banca. Un impiego
ambitissimo, perché associato a
sicurezza e privilegi, un lavoro facile
e uno stipendio prestigioso: con
quattordicesima e quindicesima,
pomeriggio libero e settimana corta,
premi e benefit da favola. Ma è acqua
passata, ormai. Con lo sciopero indetto
per lunedì 1 settembre dal personale di
Unicredit banca, la categoria è tornata
a farsi sentire. Non succedeva da anni,
in un mondo così poco conflittuale come
quello dei bancari, anche se ad alto
tasso di sindacalizzazione. Eppure
questa volta le nove sigle sindacali del
comparto hanno fatto fronte comune per
sostenere una mobilitazione già partita
il mese scorso con l'astensione dagli
straordinari. I motivi della protesta?
«Carenze di organico», carichi e ritmi
di lavoro «insostenibili», «pressioni
commerciali inaccettabili, esasperate ed
esasperanti», ripetono i sindacati.
A scatenare la vertenza è stato anche
l'ultimo piano industriale presentato
dal vertice Unicredit, a fine giugno. Un
piano che comporterà una nuova ondata di
tagli occupazionali in Italia, a
vantaggio delle attività nell'Est
Europa: con 5.900 esuberi attesi nel
triennio (sui 70 mila circa addetti nel
Paese), che si andranno ad aggiungere ai
1.300 dipendenti già usciti l'anno
scorso per effetto della fusione con
Capitalia. Tutti esodi da realizzare
comunque su base volontaria e con
l'aiuto degli ammortizzatori a
disposizione: come il fondo di
solidarietà che copre per cinque anni,
al 60% dello stipendio, i lavoratori non
ancora in età da pensione. Gli accordi
sottoscritti col sindacato prevedevano
che con il ricorso a questo strumento
uscissero 5 mila persone. «E invece le
adesioni al fondo sono state di molto
superiori, a conferma del clima che si
respira», osserva Marco Salvi,
coordinatore della Fisac-Cgil in
Unicredit. «Le domande sono state più di
6.800 e, contrariamente alle
aspettative, sono arrivate soprattutto
dalle reti, e non dalle direzioni
centrali». Insomma, gli operatori allo
sportello, i commerciali, che a 55 anni
possono andare via con uno scivolo, lo
fanno. Una scelta che rappresenta una
novità rispetto al passato ed è anche la
spia di un malessere.
IL MALESSERE
Un disagio difficile da percepire dall'esterno,
anche alla luce dei livelli retributivi
in uso nel comparto bancario, con
stipendi base che partono dai 36 mila
euro lordi l'anno per i quadri
direttivi, e dai 54 mila euro in su per
i dirigenti, cui bisogna aggiungere un
altro 15% almeno, tra premi, scatti di
anzianità e benefit vari. Retribuzioni
che beneficeranno di aumenti medi
dell'11% circa nel prossimo triennio,
grazie al nuovo contratto nazionale
siglato lo scorso dicembre. Con un
accordo raggiunto peraltro senza una
sola ora di sciopero, anche se le
controparti aziendali da anni lamentano
un costo del lavoro eccessivo. Secondo
l'Abi, l'Associazione bancaria italiana,
il livello retributivo medio di un
addetto allo sportello in Italia (circa
30 mila euro) è il più alto in Europa,
se si eccettua Belgio e Germania; nel
caso di un addetto al frontoffice, i
nostri stipendi sono superati anche da
quelli spagnoli. Insomma, contrariamente
a tutte le aspettative, e a un costo
della vita decisamente diverso, i
colleghi svizzeri, francesi e inglesi
farebbero una vita decisamente più grama
dei nostri bancari. Ma le statistiche,
si sa, dicono tutto e nulla. E così,
andando a esaminare le tabelle
sull'evoluzione delle retribuzioni nel
nostro Paese contenute nell'ultima
relazione annuale della Banca d'Italia,
si scopre che fatto cento il livello
salariale nel 2000, la categoria dei
bancari è quella che ha visto crescere
meno il suo reddito in questi otto anni:
con un incremento di stipendio, in
termini percentuali, anche inferiore a
quello dei lavoratori dell'agricoltura,
degli impiegati pubblici, i
metalmeccanici e gli addetti alle
costruzioni.
La moderazione salariale degli anni
scorsi, insomma, se da una parte ha
contribuito a ridurre lo svantaggio
competitivo con gli altri Paesi europei,
come riconosce la stessa Abi, ha
accentuato dall'altra quella sensazione
di declino che si è fatta largo nella
categoria per effetto delle
trasformazioni dell'ultimo decennio:
l'informatizzazione dei sistemi,
l'introduzione dell'euro,
l'internazionalizzazione delle
procedure, la diffusione dell'online
banking, il consolidamento del mercato.
Demansionamento, perdita di ruolo, senso
di precarietà, ansia da prestazione: da
Milano a Palermo lo sfogo è sempre lo
stesso. Sono di nuovo alcune
elaborazioni dell'Abi a riassumere
meglio i cambiamenti del settore dal
2001 a oggi: mentre gli addetti sono
rimasti praticamente invariati a quota
338 mila e il numero di istituti è sceso
da 844 a 793 (-6%), gli sportelli in
tutta Italia sono passati da meno di 29
mila a oltre 32 mila (+12%). Nel
frattempo la raccolta complessiva è
cresciuta del 67%, gli impieghi del 62%,
l'utile netto del 60% mentre le
sofferenze nette si sono quasi
dimezzate.
Il mondo del credito è diventato,
insomma, più efficiente, allineandosi
con gli standard europei; ma i mutamenti
introdotti nell'organizzazione del
lavoro, soprattutto con l'adozione di
sistemi incentivanti di retribuzione
(con una parte variabile, legata agli
obiettivi, sempre più preponderante),
hanno avuto un profondo impatto sulla
qualità della vita dietro lo sportello.
MAL DI BANCA
È un dato incontrovertibile fotografato
dalle tante indagini effettuate negli
ultimi anni sul malessere della
categoria. Una di queste è stata
realizzata nel 2005 su un campione di
oltre 2 mila bancari nel Lazio da Paolo
Pappone, medico del lavoro presso l'Asl
Napoli 1, insieme alla cattedra di
psicometria dell'Università di Chieti. E
il risultato non ha fatto
che
confermare l'esito di due precedenti
analisi condotte in Puglia e Campania:
«Un lavoratore di un istituto di credito
ha oggi una probabilità quattro volte
superiore di soffrire di disturbi
d'ansia e di depressione rispetto ad
altre categorie», sintetizza Pappone. I
motivi di questa sofferenza? La scarsa
valorizzazione della propria esperienza,
l'esclusione dai momenti decisionali,
l'assenza di criteri di carriera
univoci, il ritmo e la pressione
lavorativa, lo stress da performance. I
bancari si sentono insomma dei
«passacarte», sempre più
intercambiabili. Operai in una catena di
montaggio virtuale, in cui non è più
importante la competenza, il rapporto
con il cliente. Conta il budget, il
risultato.
QUANTI
ESUBERI
E una percezione che, di nuovo, appare
ingigantita rispetto alle reali
trasformazioni del comparto. Un settore
che, va detto, nel nostro Paese non ha
conosciuto (ancora?)
i
bagni di sangue legati ai
subprime e alla finanza spazzatura: a
differenza di Stati Uniti, Germania e
Svizzera, in Italia non ci sono stati né
fallimenti di istituti né licenziamenti
in massa. Le aggregazioni degli ultimi
due anni, Unicredit-Capitalia,
Intesa-Sanpaolo, Bpu-Banca Lombarda,
Mps-Antonveneta, Popolare di Verona-Bpi,
hanno portato complessivamente a 14
mila esuberi su un totale di quasi 340
mila addetti (il 4%), con fuoriuscite
sempre volontarie e incentivate. Ma non
per questo la crisi di identità dei
bancari è meno reale, come si capisce
già andando a Palermo, nella direzione
centrale del Banco di Sicilia, che dallo
scorso ottobre rientra nell'orbita
Unicredit. Un'acquisizione che sulla
carta doveva avere un impatto modesto
sulle realtà dell'isola, con il taglio
di un migliaio di posti, rispetto ai 6
mila esistenti. L'incontro con una
cultura e una filosofia organizzativa
diverse ha avuto invece l'effetto di un
cataclisma. «Con la riorganizzazione del
gruppo secondo società-prodotto tutti
i
centri decisionali sono
stati spostati da Palermo», osserva
Giuseppe Gambino, responsabile locale
del Dircredito, sigla che rappresenta
i
dirigenti
bancari. «Da una parte si è interrotto
quel legame col territorio che aveva
sempre distinto il
Banco,
dall'altra si sono depotenziate
intere strutture, ? che oggi non hanno
più un ruolo». La rivoluzione avviata
da
Alessandro Profumo ha portato poi alla
sostituzione non solo delle prime file
del management: «Tutte le posizioni
chiave nelle aree corporate, crediti,
ispettorato e direzione personale, sono
state occupate da quadri direttivi
provenienti da fuori», aggiunge il
sindacalista. E così è successo che
«quadri di quarto livello venissero
messi sopra a direttori centrali, con
inevitabili situazioni di mobbing
diffuso». Di conseguenza chi ha potuto
se ne è andato, anche perché nel
frattempo la concorrenza ha capito che
si stava aprendo un nuovo spazio: dalla
Popolare di Vicenza all'ex Bpi, da
Carige al Credem, tutte le grandi banche
del Nord hanno cominciato a fare incetta
in Sicilia di sportelli e personale.
CHI LI HA
VISTI?
Le difficoltà legate all'armonizzazione
di mentalità, consuetudini e metodi di
lavoro diversi non sono però confinate
al Sud. Da Roma a Milano, da Siena a
Padova, dappertutto nelle banche ci si
confronta con la stessa insoddisfazione.
Elisabetta Giustiniani, una delegata in
forza all'Antonveneta, istituto che dopo
essere stato acquistato dagli olandesi
della Abn Amro ed essere poi sfuggito
nell'estate 2005 all'assalto dei
«furbetti del quartierino» con in resta
il banchiere di Lodi, Gianpiero Fiorani,
ha conosciuto altri due cambi di
casacca, finendo prima agli spagnoli del
Santander e
infine al Monte dei Paschi di Siena,
riassume così il malumore dei suoi
colleghi: «Negli ultimi anni di
cambiamenti ne abbiamo avuti tanti,
troppi», dice, «e questo ha generato
solo preoccupazioni e ansie. Adesso
siamo davanti all'ennesima
riorganizzazione, e c'è chi di nuovo
dovrà cambiare mansione, ufficio, magari
città. E comprensibile che ci sia chi ha
voglia di scappare». Un accordo sugli
esodi non è stato ancora discusso,
perché il gruppo con
i
suoi 32 mila
dipendenti deve ancora digerire la Banca
agricola mantovana, che è stata
incorporata lo scorso autunno (1.700 gli
esuberi finora concordati), ma
l'Antitrust ha già fatto l'elenco dei
150 sportelli che dovranno essere
venduti, per lo più in territorio
toscano. E c'è già chi teme una cessione
in blocco della controllata Banca
Toscana.
LAUREA E
FLESSIBILITÀ
Quest'attitudine alla mobilità si
traduce per lo più in scelte che non
contribuiscono certo alla qualità della
vita, come la disponibilità al
pendolarismo cronico, anzi, al
nomadismo. Ma la flessibilità è ormai
diventata una caratteristica
imprescindibile per chi vuole lavorare
in banca, insieme alla laurea (più del
60% dei neoassunti ce l'ha, quando solo
pochi anni fa bastava il diploma di
ragioneria). La capacità di adattamento
più richiesta, soprattutto in realtà
complesse come Intesa Sanpaolo, che si
sono andate formando dalla successiva
aggregazione di istituti con tradizioni
diverse (Comit, Cariplo e Ambroveneto,
San Paolo, Banca Imi e Banco di Napoli),
è però sul fronte tecnologico: negli
anni le migration da un sistema
informatico all'altro si sono infatti
accavallate, rendendo di fatto
obbligatoria la formazione continua.
Insieme al «mal di budget», come ormai
viene chiamato lo stress da risultato,
la pressione commerciale, sono le
carenze di organico nelle reti a creare
i maggiori disagi. «Negli ultimi cinque
anni il gruppo Intesa ha mandato via più
di 12 mila persone», osserva ancora
Mariangela Comotti, della Falcri, uno
dei più forti sindacati di categoria.
«Oggi è la stessa azienda a riconoscere
l'esistenza di carenze di personale.
Eppure, con l'ultimo accordo c'è stata
la disponibilità ad assumere solo una
persona per ogni due che ne uscivano, e
soltanto se avevano un ruolo
commerciale». Una politica che ha
portato il numero medio di addetti per
sportello da 11 a sette, come ammette la
stessa Abi, con punte minime di due-tre
dipendenti nelle filiali di provincia.
«E così capita che d'estate la mattina
qualche agenzia non riesca ad aprire
perché, tra ferie e malattie, non c'è
nessuno», conclude la Comotti. E
successo quest'estate ad alcuni
sportelli del Torinese. Il direttore di
area non sapeva come spiegarlo ai
clienti.
------------------------ Sandro Orlando
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