Nuova Zelanda, alcuni anni fa.......

 
 

Pochi anni fa ho realizzato un sogno che mi era entrato in testa sin da piccola: vedere cosa si provava a trovarsi a testa in giù (così pensavo da bambina) ovvero agli antipodi. E quale è il posto speculare dell’Italia, quello che, come mi avevano spiegato da scolaretta, avrei raggiunto se avessi potuto passare da parte a parte la terra con un bastone? Chiaro: la Nuova Zelanda.

E così viaggiammo in camper per circa 7.000 Km attraverso le due isole, quella del Nord e quella del Sud, che formano Aotearoa, il nome maori che significa "Isola della Lunga Nuvola Bianca". La forma, analoga alla penisola italiana, è quella di uno stivale ma girato al contrario. Difatti una cosa che mi colpì molto fu vedere alcune carte geografiche capovolte, cioè con Nord e Sud invertiti: un dramma leggerle, peggio che imparare a guidare a sinistra come fanno i Kiwis, il nomignolo dei neozelandesi.

E non solo nella forma il paese assomiglia all’Italia: anche lì ci sono le Alpi, innevate e con belle montagne e ghiacciai perenni, vi sono grandi laghi e bellissime spiagge, la capitale Wellington è circa a metà del paese, il nord è più industriale e commerciale e il sud più rurale e turistico. E’ un affascinante miscuglio di civiltà, come peraltro anche l’Italia. La presenza maggiore è quella inglese ma anche la popolazione maori è ben presente e ha ottenuto riconoscimenti politici, civili ed economici negli ultimi anni, dopo dure lotte (gli inglesi non scherzavano con le loro colonie). Sono presenti anche asiatici ed europei, in particolare gli olandesi che si mangiano le mani da secoli essendo stato proprio un olandese, Abel Tasman, ad avvistare per primo nel 1642 la Tasmania e la Nuova Zelanda ma senza prenderne possesso, cosa che fece invece James Cook ben 120 anni più tardi nel 1768 circa.

Una delle attrattive della splendida isola del Sud consiste nell’avvistamento delle balene. Si prenota il posto sul battello il giorno prima perché la partenza è all’alba il che è un bel sacrificio, tenendo presente che ci sono 12 ore di differenza d’orario con l’Italia e in pratica si salta la notte. Si sale su un motoscafo particolare in cui tutti i sedili sono muniti di cinture come quelle degli aerei che si devono tenere obbligatoriamente allacciate. Il driver ha un bel sedile e sopra la sua testa il tettuccio ha un oblò: lui si mette in piedi sul sedile e dall’oblò aperto scruta l’orizzonte con un binocolo, coadiuvato da due marinai. Quando vede lo sbuffo di una balena si lascia cadere sul sedile, innesta la marcia e parte come un razzo con relativo effetto per i passeggeri di schiacciamento contro i sedili. Tutto ciò perché le locali balene respirano in superficie per 8/12 minuti e per vederle da vicino bisogna correre. Giunti vicini ci si slaccia le cinture e si può andare sui lati dell’imbarcazione a guardare e fotografare. La “corsa” durò per tutta la mattina e di balene ne vedemmo molte e fu certamente affascinante.

Ma nel ritornare alla base uno degli aiutanti avvistò un folto gruppo di delfini verso i quali ci dirigemmo, in maniera un poco meno violenta e ad un tratto fummo in mezzo a loro!

Ecco “l’incontro” di cui voglio parlare. Erano tanti, bellissimi, possenti, eleganti, quasi argentati e luccicanti. Giocavano con noi, passando a destra, a sinistra, davanti, dietro, sotto il motoscafo. Noi sorridevamo e loro facevano con la bocca uno schiocco, ci guardavano e poi si drizzavano sull’acqua ed avanzavano in una verticale da grandi equilibristi, si rotolavano su loro stessi e poi saltavano con tutto il corpo fuori dall’acqua. Se tendevamo le mani venivano quasi a sfiorarle come se volessero le nostre carezze che noi volentieri avremmo fatto; poi facevano evoluzioni acrobatiche in gruppo, tipo le Frecce Tricolori (ma senza i fumi colorati!) e poi si dividevano e ognuno puntava dritto verso uno di noi per salire in alto e guardarci più da vicino, come per comunicare con noi con gli occhi. E noi, impazziti dall’emozione, non sapevamo più se fare foto, tendere le mani per toccarli o schioccare la lingua in risposta al loro verso, o fare dei gesti per trasmettere la nostra amicizia e simpatia, mentre grande era la tentazione di gettarci vestiti nelle fredde acque dell’oceano.

Il gioco durò una ventina di minuti e poi li dovemmo lasciare anche se loro ci scortarono ancora per un buon tratto di mare. Fu sicuramente un bellissimo incontro, uno di quei momenti in cui senti di essere parte del mondo ed in cui ti proponi con tutte le tue forze di fare, per quanto potrai, il possibile per salvare questa fragile terra ed i suoi passeggeri che non siamo solo noi uomini.

Piera - agosto 2009