Il Sestiere Porta
Ticinese prende il nome dalla porta Ticinese, una delle sei porte principali
di Milano in tempi antichi, costruita nel Medioevo sulle antiche mura
romane.
Nel corso degli anni la delimitazione del quartiere si è estesa verso la
periferia seguendo il corso dei Navigli. All’altezza delle mura spagnole tra
il 1799 ed il 1814 fu fatta erigere in onore di Napoleone, la "Porta
Marengo" di P.za XXIV Maggio che oggi è conosciuta come Porta Ticinese
("Porta Cicca").
Qui rimane l'ultimo tratto scoperto della cerchia dei navigli che fino ai
primi decenni del Novecento circondava Milano costituito dalla Darsena e dai
due Navigli (Grande e Pavese).
Legata al quartiere, ed in particolare al Naviglio Grande, è fiorita nel
tempo una serie di racconti o di leggende; il bello è lasciare tra le due
cose quel margine di mistero che rende più affascinanti queste storie.
La premessa per entrare nello spirito del quartiere è pensare che nasce povero di mezzi (era il posto delle lavandaie, dei carbonai e di tutti quei mestieri che venivano rifiutati dalla città e collocati fuori le mura) ma ricchissimo di cultura autentica.
Qui di seguito riportiamo alcuni scritti che, come in viaggio melanconico in tempi remoti, ma neanche poi tanto, ripercorrono l’ “Alzaia” e la “Riva” conservandone il ricordo..
Incominciamo dall’ Alzaia.
L’itinerario tra memoria e nostalgia comincia dal ponte Scudellino, sulla Darsena di Porta Ticinese, risalendo l'Alzaia del Naviglio Grande, cioè la riva sinistra dove le "porte", cioè i civici, hanno soltanto numeri pari. Al 2, sull'angolo, c'era un negozio di piatti e di vasi in terracotta, si chiamava el piattee ovviamente e solo da un paio di anni ha ceduto alla modernità e si è trasformato in un rinomato ristorante. Un vero peccato!
Nella corte c'era la Fonderia Lualdi, questa invece scomparsa da tempo. Al 4, c’era la mada, la nidiata:
la gente dell'Alzaia aveva trovato quel nome così dolce
perché la casa era sempre piena di bambini. Ma ci abitava anche donna Elvira
Radice, ultima discendente di una dinastia di lavandai. E dietro, ancora
oggi, è una storica pianta di fico: i vecchi raccontavano che vi sostasse il
maresciallo Radetzky, governatore austriaco del Lombardo Veneto, quando
passeggiava lungo il Naviglio.
"Il n. 6" era chiamato II Cairo,
perché c'era confusione e
nulla più della grande
città egiziana sembrava
renderne l'idea. Nel cortile
del Cairo andavano e
venivano dei poveri cristi
che prendevano a noleggio
gli organetti di Barberia:
qualcuno aveva
anche la scimmia, ammaestrata a chiedere l'elemosina.
Poi c'era l'osteria
detta del Bersagliere perché,
per servire gli avventori,
aveva un ragazzo che
faceva tutto “di corsa".
Più avanti, al numero 8,
era il regno del Maran, un
tale che girava per il quartiere
con una cesta piena
di
frutta e verdura. Fatta
un
po' di fortuna, il Maran
si
mise in grande e comperò
un
carretto tirato da
un
asino che poi morì, e
tutti dissero che era morto
perché il Maran non gli
dava da mangiare: fosse il
rimorso, o chissà per quale
altra ragione, il Maran
scomparve, e nessuno seppe
più nulla di lui. Nello
stesso cortile lavorava
anche la Rosa Uboldi, che potrebbe essere considerata come un industriale
perché aveva un grosso torchio per strizzare la biancheria appena lavata dai
lavandai: ce n'erano moltissimi, nel quartiere, ed era un lavoro che rendeva
bene per quanto fosse faticoso anche per gli uomini.
Subito dopo, al 10, ecco un ortolano che si chiamava Re e pertanto era
conosciuto e riverito come Sua Maestà: la piazzetta adiacente, di
conseguenza, era chiamata la Piazzetta Reale.
Al
14, dove adesso c'è un bel ristorante, El Brellin, c'era un'osteria
con gioco di bocce chiamata La Gioconda perché questo era il nome della
proprietaria.
E poi c'era la vecchia savonéra, che l'avevano battezzata col nome di
Bambina (il nome rimase alla proprietaria sino alla tenera età di 90 anni
quando morì): la savonéra vendeva sapone e lisciva, ma anche
caramelle e dolcetti.
Ancora oggi, davanti al Brellin, restano la tettoia che proteggeva i
lavandai dalla pioggia e i piccoli stalli su cui si strofinava la
biancheria; fino agli anni Cinquanta qualcuno ci andava ancora, poi - anche
se non fossero arrivate le lavatrici - sarebbe stata l'acqua del Naviglio
stesso a sconsigliare quel lavoro ormai più pericoloso che inutile.
Si passa ora davanti alle scuole, al 20 e al 22. L'edificio è rimasto, e la
destinazione è sempre la stessa fatto di per sè memorabile considerata la
rapidità con cui si cambiano le attività al giorno d’oggi.
Al numero 26, una insegna liberty annuncia un altro buon ristorante,
l'Alzaia 26, che ha preso il posto della vecchia Osteria del Negretti,
uno dei primi vinai arrivati a Milano dalla Puglia in cerca di fortuna. Come
il Negretti, sul Naviglio, vendevano quei vini ad alta gradazione anche
altri che avevano lasciato i loro lontani paesi, Barletta, Andria,
Bisceglie, Mola, Francavilla, Trani: proprio quest'ultimo avrebbe dato il
nome a tutte le cantine, e i milanesi avrebbero detto di andare al trani
quando si trattava di farsi un bicchiere all'osteria, non importa se sudista
o nordista.
Accanto al Negretti, la chiesa di Santa Maria al Naviglio, diventata
parrocchia nel 1849 e ristrutturata nel 2009. Grazie alla disponibilità dei
Cirlia, una dinastia di marmisti arrivati a Milano dalla Puglia in cerca di
fortuna, la chiesa vanta quattro maestose colonne che reggono la cupola
offerte gratis anzi, come si diceva, agratis.
In parrocchia si svolgeva anche un'attività culturale che possiamo definire
veramente straordinaria, se si considera il modestissimo livello del
quartiere.
C'era una cantoria - le voci erano soltanto quelle degli uomini e dei
bambini, per evitare promiscuità – faticosamente educata da musicisti felici
di elevare ai piaceri dello spirito i loro fratelli più poveri: con i quali,
dopo la messa solenne, andavano a farsi un marsalino nella vicina osteria
del Pissarossa.
E c'era la filodrammatica, una vera compagnia teatrale che aveva preso il
nome di Giosué Borsi, l'eroe convertito alla fede cristiana nel 1914, un
anno prima di morire al fronte. Ogni domenica la compagnia metteva in scena
lavori tradizionali, ma anche novità assolute. Sempre per evitare i pericoli
della promiscuità, la compagnia era formata da soli uomini, e i lavori, di
conseguenza, erano scelti tra quelli dove non figuravano parti femminili.
Poco più avanti, al 42, era la sede dell'Oratorio di San Giovanni Nepomuceno,
un altro dei vanti del quartiere: perché qui era la cantoria di don Fermo
Mantovani, un musicologo insigne specializzato nel canto fermo, cioè in una
variante ambrosiana del gregoriano.
Al 46 ancora un'osteria, quella della Pergola. La gestiva il Gioann,
popolarissimo sul Naviglio perché mesceva il Bonarda, la Barbera, il Pinot e
il Riesling dell'Oltrepò, tutti di prima qualità per fronteggiare la
concorrenza dei pugliesi: due volte al mese andava lui a Santa Maria della
Versa, a Roverscala, a San Damiano e in altri paesi della zona a fare il
pieno, e non trascurava di procurarsi anche la pancetta e i salami squisiti
della zona. Il Gioann quando partiva col suo carretto schioccava la frusta e
metteva al trotto e certe volte persine al galoppo la Gina, la sua paziente
cavalla.
Al 48 stavano i Vaghi, altra famiglia importante perché il figlio maggiore,
il Togn, aveva una drogheria, il secondo, Cecch, era diventato direttore del
Pedraglio stoffe e confezioni (firma antica e prestigiosa, che poi si
sarebbe trasferita in piazza Cordusio dove è rimasta fino a pochi anni fa) e
il minore, Gioann, era diventato addirittura ragiunat, e aveva fatto
carriera alla Biffi chimica.
Ancora un'osteria al 54, quella del Panscia, famoso perché aveva una
cintura lunga un metro e settanta, che gli bastava appena.
Al 56, lavoravano i
ferrascitt, maestri artigiani del ferro battuto.
L'alzaia sta per finire, con gli ultimi ricordi.
La giazzera al 62, da dove uscivano sgocciolando le liste azzurrine del ghiaccio: un lusso per pochi privilegiati, nel caldo dell'estate.
La caponera, al 70, un piccolo allevamento di polli.
E al 72 c’era la fabbrica delle carrozzelle per i disabili, che allora si chiamavano più rudemente i mal'cransc,
come dire i malmessi, quelli che avevano bisogno della cranscia, cioè della stampella.
Attraversato il ponte di via Valenza si passa sulla sponda destra, la Ripa.
I numeri, da questa parte, sono tutti dispari e vanno decrescendo fino alla Darsena di Porta Ticinese.
Subito, al 77, il ricordo di
un'antica dinastia di maniscalchi, i Cattaneo: un via vai continuo di
cavalli e di muli portati a ferrare dagli spedizionieri della vicina
stazione di Porta Genova, dove arrivavano vini, carboni e altre merci da
distribuire ai negozi dell'intera città o da caricare sui barconi che
avrebbero risalito il Naviglio diramandosi in tutto il territorio.
Accanto, un diverso scenario. Non più carrettieri e cavallanti dalle vesti e dai modi plebei, ma signori distinti che scendevano dalla carrozza e badavano a non sporcarsi le scarpe lucidissime: al 75 c'era infatti una delle più note fabbriche di bastoni da passeggio e si diceva che tra i clienti ci fosse persine un nobile inglese.
Poco dopo due osterie, la Barca frequentata dagli scaricatori e l'Erzegovina, che aveva preso questo nome dai militari croati del presidio austriaco a Milano nei tempi del maresciallo Radetzky, clienti affezionati.
Ed eccoci al 63, dove abitavano altri due personaggi tra i più amati e degni
del quartiere: i fratelli Cremascoli, "I maestri". Passavano la vita, in
quegli anni così lontani dall'indifferenza e dall'egoismo dei nostri, a far
scuola ai bambini. Di ognuno conoscevano la famiglia e la storia, e ognuno
seguivano con amore, fino a diventare un punto sicuro di riferimento per
tutti. Nella stessa porta stava per contrappunto
el Rumàn.
Arriviamo al 51, già sede della Cooperativa del Naviglio Grande, glorioso
sodalizio che metteva in campo una sua squadra di calcio e in scena una
compagnia teatrale, come quella dell'Alzaia: due compagnie, dunque, in un
quartiere di povera gente dove molti non sapevano né leggere né scrivere.
Poco dopo, al 49, il brivido del peccato. C'era una profumeria gestita da
due sorelle di cui le donne della Ripa diffidavano quasi che quella modesta
bottega fosse l'antro della Maga Circe: mentre tutto si riduceva alla
scollatura un po' audace e al trucco un po' troppo vistoso.
Passano altri personaggi. Il Bagattin, maestro calzolaio che risuolava scarpe fino a che teneva la tomaia, e quando
partiva anche la tomaia ci metteva pezze provvidenziali, quasi invisibili. Il Trombetta un vecchio sordo che si
infilava nell'orecchio un corno di bue sperando di capire perché gli altri muovevano le labbra e ridevano.
Più avanti c’erano le botteghe dei lavandai, tra il 21 e il 19, dove adesso c'è una pizzeria.
Bianchi el trumbeé, idraulico famoso, al 9.
E al 7 c'erano le Confezioni Leva dove la gente del Naviglio, per generazioni, è andata a comprarsi i vestiti: soprattutto perché il proprietario li vendeva a rate.
Al 5 c'era lo studio del Dugnan cavadent, famoso per le urla disperate dei suoi pazienti: in quel tempo si andava col trapano a mano, e l'anestesia non c'era. C'era però, nel cortile, una Madonnina: e gli sventurati si raccomandavano a lei.
Siamo ritornati al punto di partenza a quella Darsena che fino al 1979 ha visto un viavai di barconi che per secoli hanno trasportato merci dalla periferia al centro della città ma che ora non ha più una sua ragione economica ma ha acquistato un diverso aspetto che ne ha fatto il nuovo centro della vita spensierata di Milano.
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Piazza Scala - maggio 2013