UN BUON NATALE AI MINATORI RIMASTI ED ALLE LORO FAMIGLIE

 

Sono entrato per una serie di circostanze, molto diverse fra loro,  in un mondo sul quale non avrei mai immaginato di soffermarmi, e per la sua tipologia e per una motivazione  allora di un mio “status diverso” rispetto a quando, detto mondo,  era per molti  quasi una scelta obbligata per non morire. Immagino che ancor ora, dicendo questo, ci sarà qualcuno fra noi ancora molto lontano rispetto a questo strano mondo, anzi sono assolutamente  certo che i nostri giovani, pur senza far di ogni erba un fascio, mai e poi mai, potrebbero pensare che ci sono stati padri, nonni, avi in genere,  i quali, per vivere e far vivere la famiglia, dovevano addentrarsi nelle viscere della terra, anche un chilometro sotto, per fare dei buchi con delle pale rudimentali, allo scopo di rompere la crosta del sottosuolo allo scopo di riportare in superficie il carbone. Quel carbone che, un po’ per volta,  attraverso le sue proprietà di trasformazione energetica, ha fatto sì che l’Italia, ma anche gli altri Paesi, si risollevassero dalle macerie della guerra.  Va detto subito, a scanso di equivoci, che se noi siamo un paese avanzato dal punto di vista industriale, lo si deve proprio anche ai sacrifici di questi uomini che, se non fosse per le lodevoli iniziative dell’A.I.E.M., Associazione Italiana ex-Minatori, alla guida di Barbara Martinuzzo, figlia di un minatore, tutto si esaurirebbe, dapprima in una sorta di vago cenno storico che ci è stato tramandato dai nostri vecchi,  per poi essere definitivamente dimenticato,  schiacciato da un presente che non offre più spazio alla riflessione.

Ma anche questo antefatto dice poco per alcuni, per cui vorrei raccontare un esempio di vita vissuta da parte di un ex-giovane,  sperando che la narrazione assuma un connotato più esaustivo.  Diceva, questo ragazzo di soli 16 anni, fatto scendere a circa 800 metri dalla superficie da “padroni” più simili a negrieri che appartenenti al genere umano, che, trovatosi nel buio di questa profondità, è stato costretto a farsi strada in ginocchio per aprirsi un varco per entrare in un secondo tunnel di 50-60 centimetri per poi, piccozza, martello e tavola da raccolto del materiale,  incominciare a sgretolare la parete in senso circolare. Man mano che il buco veniva ingrandito a forma circolare era possibile poi  l’avanzamento pari ai centimetri sgretolati, il cui materiale veniva da altri riportato in superficie. E questo per mesi e mesi, finalizzato il più delle volte ad un triste traguardo, come la silicosi, altre patologie quando non era addirittura la morte.

Ecco le parole autentiche e genuine di questo ex-giovane minatore :

 

“”Sono partito che avevo sedici anni, li avevo compiuti il 21 aprile ed io sono partito il 2 settembre 1947 da Pordenone. Per arrivare a Liegi ci abbiamo messo sei giorni. Quando sono arrivato a Liegi ho trovato un camion militare che ci aspettava per portarci a destinazione; non mangiavamo dalla sera prima, perché, quel po’ di cibo che ci eravamo portati era finito. Arrivati a Liegi ci hanno messo nelle baracche in cui tenevano prigionieri i criminali di guerra. C’era una stufa in mezzo alla baracca. Una donna ha consegnato a ciascuno di noi una borraccia vuota da due litri ed una pagnotta di pane da portare sul lavoro l’indomani. Ci ha anche mostrato dove potevamo andare a fare la spesa per la sera, in una botteguccia gestita da un’anziana. Lì ho preso pane, pasta ed un po’ di ragù. La mattina dopo sono andato per la prima volta in miniera. Un belga mi ha consegnato una tavoletta di legno: io non avevo idea di cosa farne. Siamo scesi in miniera  ed abbiamo camminato in galleria per venti minuti per raggiungere la vena del carbone. Lì, il mio accompagnatore mi ha detto che con quella tavoletta dovevo grattare il carbone. Sono entrato con la pancia in giù, avevo paura di non poter più uscire. La vena era alta 40 centimetri ed io ero terrorizzato. Non ho mangiato, non ho bevuto, non ero più capace di andare avanti. Quando è arrivato il capo, mi ha tanto rimproverato perché avevo fatto soli tre metri…, ma io non sapevo come muovermi in quel budello, non mi sapevo girare, sono rimasto lì tutto il giorno.. Quando siamo tornati su, sono andato a lavarmi, ma non sapevo che mi sarei pulito solo dove passavo le dita… Sul tram tutti mi guardavano ed io non sapevo perché… Dopo mi sono accorto che avevo la faccia sporca. Mi sono innamorato della miniera quando ho preso il primo stipendio, dopo otto giorni, perché in miniera pagavano ogni settimana.  Per otto giorni da manovale, mi hanno dato 1200 franchi belgi, nel 1947 il franco belga valeva circa 12, 13 lire…

Quello che era bello nella miniera era la fratellanza. Se io avevo un pezzo di vena pericolante e non potevo fare molti metri, quello che riusciva a scavare di più, mi dava un po’ di metri perché tutti potessimo guadagnare quello che ci serviva., Gli amici che avevo in Belgio sono morti tutti, anche due miei fratelli….

Alla fine, questo nostro minatore interrompe il suo racconto e, con gli occhi lucidi, dice : “Sai, dopo aver parlato di queste cose, ho ricominciato a sognare la miniera…”” (dal libro “Parto per la Miniera” di Barbara Martinuzzo).

 

Questo è uno dei più normali aspetti di questa vita, sotto terra,  che certamente oggi non troverebbe persone disposte non solo ad accettare, ma nemmeno a prendere in una ipotetica considerazione. Dovrei anche dire che questo è un episodio fra i mille che ho conosciuto frequentando questo ambiente,  per bocca di quei pochi che sono ancora rimasti, delle famiglie ancora presenti, dei figli, dei nipoti ed anche di coloro che si sono fatti carico di ricordare un passato che ha permesso al mondo, grazie ai duri sacrifici del minatore,  di avere oggi  ogni tipo di comodità, di benessere e quant’altro. Anche i giovani, che senz’altro sono più preparati rispetto ai tempi in cui vivevo io, devono ricordare che se posseggono gli i-pod, i telefonini, gli i-phone, le macchine ed un sacco di altre cose, il merito è attribuibile in gran parte anche al mondo della miniera che, riportando in superficie tanta “energia”, ha consentito una veloce industrializzazione del paese,  dopo le macerie della guerra.  E questo va ricordato e compreso da tutti, soprattutto anche  dai nostri figli, non esclusi i miei, che non sono  in grado di recepire questo tipo di “ passato”,   giocoforza inimmaginabile per loro e,  quel che è peggio ancora,   accettare un presente  – ahimè –  che sembra piovuto dal cielo e quindi quasi dovuto.

 

Arnaldo De Porti - dicembre 2011

 

 

 

 

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