Correva
l'anno 1966. Aprile volgeva verso maggio. Quel giorno di cui non
ricordo la data precisa mi incontrai in piazza del Duomo con
Angelo, il mio ex compagno di banco. Ci sedemmo al Bar Zucca.
Avevamo terminato gli studi di ragioneria e ognuno di noi aveva
fatto domande di lavoro un po' dovunque, banche, assicurazioni,
varie aziende, dall'Enel alla Montedison, e sostenuto qualche
colloquio. Nel frattempo io mi ero iscritto all'unica facoltà
consentita per coloro che avevano maturato l'abilitazione in un
istituto tecnico: Economia e Commercio. Frequentavo con
assiduità i corsi dell'Università Cattolica e stavo preparando
quattro esami: inglese, economia, diritto civile e morale uno.
Ci andavo di sera poiché non avevo la minima idea di che posto
di lavoro mi sarebbe toccato. Nel caso di un impegno leggero
avrei continuato l'università dopo l'orario di lavoro. Nel caso
di un'assunzione più convincente probabilmente avrei smesso.
Il confronto con Angelo, mio compagno di banco per cinque anni
rocamboleschi, mi sarebbe servito per farmi giusto un'idea in
più di come stavano andando le cose di quei tempi nel mercato
del lavoro sulla piazza di Milano.
Davanti a due bicchieri di analcolico, Angelo mi disse che aveva
preferito non iscriversi all'università. Aveva avuto già dal
settembre precedente un riscontro verbale, ma abbastanza
credibile, dalla Banca Nazionale del Lavoro sulla prospettiva di
essere assunto in prova nel corso dell'anno. Gli risposi che,
per quanto riguardava me, non disponevo ancora di speranze
fondate tranne, forse, per la Banca Commerciale Italiana che mi
aveva rimandato per un secondo colloquio a dopo l'estate. Nel
frattempo mi avevano proposto un lavoro provvisorio presso una
società di applicazione impianti meccanografici, vale a dire:
perforazione e verifica di schede per conto terzi, un'attività
nel campo che oggi chiameremmo dell'informatica e che, a
quell'epoca, muoveva i primi passi per la costituzione di centri
elettronici e per l'automazione dei processi aziendali.
Probabilmente avrei cominciato a lavorarci dal 1° settembre di
quell'anno. Ma lo consideravo un lavoro provvisorio.
Angelo estrasse dalla sua giacca eccentrica, bianca a puntini
neri distribuiti, che pareva la settimana enigmistica, un
pacchetto di Marlboro e si accese una sigaretta. Con tanto fumo
nei suoi capelli rossi, incominciò a divagare sul bel mondo
della Milano del boom economico. Per suo padre gli affari
stavano andando bene e, come premio per la promozione, Angelo
aveva ricevuto in dono una Fulvia HF con i sedili ribaltabili,
come lui ci teneva a definirla quando parlava con gli amici. In
effetti gli conferiva un certo tono e una maggior disinvoltura
nella penetrazione dell'universo femminile. Un vantaggio che per
me risultava assai più debole, considerato che disponevo
soltanto di una cinquecento senza sedili ribaltabili, che
tuttavia rappresentava per me un primo sogno realizzato. Se poi
anch'io, come Angelo, riuscivo ad accogliere sul sedile del
passeggero accanto al mio una bella ragazza da trasportare
all'Idroscalo, in Brianza o sul Lago di Como per un gita, lo
consideravo uno stato di grazia e mi bastava.
Il discorso sulle sua prodezza da sciupafemmine si stava
scaldando. Cominciò a sgranocchiarmi, come le noccioline che
stavano su un piattino accanto agli analcolici, una lista
nutrita di nomi femminili che corrispondevano ad altrettante
ragazze che, l'una dopo l'altra, aveva sedotto e poi
abbandonato. Mi descriveva i singoli rapporti con minuzia di
particolari e non sapevo se crederlo il bauscia, che era sempre
stato anche a scuola, o ritenere invece che l'effetto Fulvia HF
desse davvero dei frutti così gustosi. In realtà qualche
domenica eravamo usciti insieme e qualche sua compagna l'avevo
conosciuta e dovevo ammettere che Angelo avesse buon gusto e un
modo di fare baldanzoso di quel genere che piaceva a molte
ragazzine non ancora svezzate. Mentre stavamo al tavolino mi
disse anche che, se provvisoriamente ero single, avremmo potuto
uscire insieme con un paio di ragazze che avrebbe scovato lui.
Di una compagna in quel momento storico ero carente, anche se il
mio cuore batteva per una ragazza di Lodi che avevo conosciuto
al mare, così gli risposi, senza un grande entusiasmo, che avrei
accettato.
Ma, per Angelo il discorso donne non era terminato lì, e mi rese
edotto sulla situazione della Rinascente di piazza Duomo. "Caro
Max" mi disse "Il piano terra della Rinascente, sai quello del
reparto profumeria, è un vivaio inesauribile, una manna dal
cielo!".
"So che lì ci mettono le commesse più attraenti di cui
dispongono".
"Proprio così! Tu entra e osserva. Loro tengono in mano un
profumo o un dopo barba e si guardano in giro. Guardano gli
uomini negli occhi. Naturalmente se la ragazza ha già una certa
età si sofferma su uomini maturi, se è una ragazzina possiamo
andar bene anche noi, mi segui?".
"Stai dicendo che sono loro a farci capire con uno sguardo ...
".
"Ma sì!" m'interruppe "Tu lo percepisci subito se le stai
andando a genio. Dopo sta a te darti da fare e invitarla fuori.
A me ha già funzionato".
"Buon per te, Angelo, quindi se dovessimo uscire insieme,
convocherai due ragazze della Rinascente".
"Non adesso, adesso ho sotto mano delle ragazze del mio
quartiere. Sono sempre disponibili". Fece una pausa prima di
rilanciare: "Guarda, vorrei che provassi anche tu. Mettiti
vestito bene, entra con fare disinteressato al piano terra e
comincia a sondare il terreno. Vedrai che prima o poi incrocerai
lo sguardo giusto".
"Ma tu quante ragazze della Rinascente ti sei portato fuori fino
adesso?".
"Soltanto una, ma dei miei amici anche di più".
"Devo affrettarmi allora, altrimenti rimarrà poca scelta di
questo passo".
"Ma no, è vero che alla Rinascente entra tanta gente, ma non
tutti gli uomini hanno la malizia di sfruttare questo piccolo
harem".
"Perché non ci andiamo insieme adesso?" gli proposi, avendomi
incuriosito.
"No, adesso non va bene, bisogna andarci verso sera, di mattino
l'atmosfera non è ancora quella giusta. E poi non funzionerebbe
in due, bisogna agire singolarmente".
"Va bene, ci proverò uno di questi giorni, prima di andare in
università".
"Bravo, poi mi dirai, ma ti voglio segnalare una ragazza che è
la fine del mondo. Con me non è andata bene, ma, magari con te".
"Di che ragazza stai parlando?".
"Guarda, tu entri, vai a sinistra, ci trovi il banco di Chanel,
e lì c'è una ragazzina di diciassette anni che si chiama
Agostina ... Bella, di cognome, mi pare, che ha due occhi
stupendi, la fine del mondo".
"Ma allora sarà già mille volte impegnata".
"Dicono di no, dicono che ci sta un po' con tutti. Forse bisogna
pagare però... ".
"Ma cosa stai dicendo, una ragazza di diciassette anni!".
"Beh, alla nostra età non possiamo pretendere una ragazza più
anziana di noi no, siamo troppo giovani. Per noi vanno bene
quelle dai diciotto anni in giù. E l'età media dell'harem sarà
giusto sui diciotto anni".
"Sì, ma il discorso di pagare?".
"Quello è un sentito dire e sai quando le voci corrono ...".
"Ma tu l'hai avvicinata e non è successo niente!".
"No, me la sono giocata, perché mi sono trovato questi occhioni
azzurri che mi perforavano come fari nella notte e mi sono
sentito imbarazzato, disarmato. Lei l'ha capito e deve aver
pensato che sono ancora un bambino che s'impressiona e si è
girata dall'altra parte".
"D'accordo, uno di questi giorni ci vado io al banco Chanel".
"Bravo, Max, teniamoci in contatto!" si scolò l'analcolico e
aggiunse "Lascia stare pago io".
Forse era giusto così, considerato che aveva tenuto banco lui
come un leader. Paghi da leader. Così pensai. Ci alzammo
entrambi. Angelo si recò alla cassa e poi ci salutammo
confermando che ci saremmo risentiti.
Quella sera, rientrando a casa in metropolitana ripensai al mio
status. Soddisfatto o insoddisfatto di me stesso? Studiavo, ma
ero ancora disoccupato, mi muovevo sulla mia 500, ma non avevo
una ragazza. Ero un giovane single che aveva diritto di mettersi
in caccia di una ragazza carina? Certo che sì, non ero da buttar
via. Ero educato, disponevo di una certa presenza, di una bella
voce e di un parlare forbito e sapevo che alle ragazze, specie
se ancora un po' acerbe, piace ascoltare un giovane maschio che
esprime cose sensate e non si limita a blaterare slogan e a
mettersi a ridere per delle sciocchezze. I miei capelli erano
molto belli, anzi erano probabilmente la mia parte più bella.
Biondi, lisci, molto folti. Eh sì, a quelli ci tenevo un sacco.
Stavano appesi al mio karma. Purtroppo però sin dall'inizio
delle scuole superiori, proprio il momento buono per darsi da
fare con le ragazzine, mi si riempivano di una notevole quantità
di forfora. Mentre studiavo e mi grattavo di tanto in tanto la
testa per abitudine o perché così l'apprendimento mi riusciva di
più, lasciavo sul piano della mia scrivania uno strato di
nevischio bianco che non era altro che un accumulo di piccole
squame della mia cute. Ogni volta che rientravo a casa mi
accorgevo di aver riempito giacche e maglioni di quel dannato
residuo organico così antiestetico. Mia madre si dava un gran da
fare a spolverare il mio abbigliamento, ma non c'era verso di
arrestare questa ingrata compagna di vita. Mi ero sentito col
mio medico generico, che di forfora non ne aveva, perché,
sebbene ancora quarantenne, era abbondantemente calvo. La sua
risposta mi aveva gelato. Mi disse: "La forfora, caro Max, è
presagio di calvizie, vorrà dire che quando avrai la mia età
sarai calvo come me!". Non lo volevo considerare uno iettatore,
ma per me perdere la mia folta chioma sarebbe stato un dolore
insuperabile. Così feci di tutto per scongiurare questo
maledetto presagio. Mi servivo di shampoo alla zolfo, in una
sola passata, di lozioni antiforfora, non facevo uso del phon,
ma mi limitavo ad asciugarmi i capelli frizionandoli con una
salvietta di spugna. I capelli non mi cadevano affatto, ed era
questo che mi confortava, ma il problema della forfora c'era,
eccome!
Il pomeriggio in cui scelsi di recarmi alla Rinascente era di
maggio. A casa mi ero preparato agli specchi: quello del bagno
per radermi, pettinarmi e profumarmi quel tanto che basta;
quello della mia camera per l'abbigliamento: completo blu
gessato, cravatta di lino color bordeaux come pure le calze,
scarpe francesine nere. Più classico di così non avrei potuto
essere e, probabilmente, avrei potuto dimostrare un'età di un
paio d'anni maggiore della mia. Il che non avrebbe guastato.
Presi la metropolitana e risalii a Duomo che erano le sei del
pomeriggio. Un'ora adeguata, stando ai consigli di Angelo. Mi
dissi che sarei entrato con nonchalance tenendo la sinistra e
già mi prospettavo di incrociare quei due occhi così
meravigliosi della bella Agostina.
Non accadde niente di tutto questo. E' vero, notai tra le
commesse molte giovani donne attraenti, ma tutte impegnate nel
loro lavoro e nessuna intenta a indirizzare lo sguardo alla
clientela. Al banco Chanel nessuna Agostina e nessuna ragazzina
con gli occhi azzurri, ma una bella signora mora alta e ben
fatta, dall'aria seria e con la fede al dito. Pensai a un'altra
dimostrazione di bullismo messa in piazza dal mio amico Angelo
anche se, nell'harem, non avrei potuto escludere che qualche
commessa compiacente fosse presente, ma non di certo per un
giovane squattrinato come me.
Non ci rimasi male, comunque. Ero preparato a un nulla di fatto
a fronte di una prospettiva che si presentava campata per aria
in partenza. Se non altro la mia curiosità era stata appagata.
Ma ecco che, continuando a muovermi tra i bancali del
pianterreno, vedo venire verso di me una bella ragazza in camice
bianco. Era bionda, con due occhi azzurro turchese, ma non era
Agostina. Era una donna matura sui 25 anni almeno. Mi si rivolse
con un bel sorriso. Ebbi un attimo di smarrimento.
Mi disse: "Signore, vedo che lei ha della forfora sulle spalle
del suo bell'abito blu".
"Eh sì" risposi "Da diversi anni ormai ho problemi di forfora".
"Guardi, noi della Hairdomus abbiamo affittato uno spazio qui al
reparto cosmetici della Rinascente per esaminare con specifici
macchinari di recente tecnologia i capelli delle persone".
"A quale scopo?" le chiesi.
"Allo scopo di renderli edotti sulla tipologia di cuoio
capelluto che possiedono ed, eventualmente, di integrare la loro
cura con specifici prodotti. Lei è disponibile a sottoporsi a un
esame? E' gratuito!".
"Considerato che anche lei ha notato il mio problema, direi di
sì" le risposi, convinto.
Mi condusse qualche passo più in là dove erano posizionate delle
apparecchiature e si trovava un medico ad attendermi.
"Sono il Dottor Cervini" si presentò "Mi può dire il suo nome
caro signore?".
"Mi chiami pure Max" risposi.
Mi fecero sedere su una poltrona da barbiere accanto ai
macchinari e, come dal barbiere, mi posizionarono attorno al
collo una mantellina bianca delle dimensioni di uno scialle.
"Lei ha tanta forfora, ma anche tanti capelli. Perché li tiene
così lunghi?" mi chiese il medico.
"Perché mi sento bene così" gli risposi.
"Quindi lei con il parrucchiere ha una rapporto saltuario?"
proseguì.
"Guardi, li taglio tre volte all'anno: il giorno prima di
Natale, il giorno prima di Pasqua e il giorno prima di partire
per le vacanze".
"Ottima impostazione!" commentò, non del tutto convinto. Poi
mutò atteggiamento e, cambiando tono, mi disse che,
innanzitutto, avremmo dovuto stabilire quale fosse la tipologia
dei miei capelli.
"Quanti tipi di capelli esistono?" gli chiesi, con interesse.
"Ci sono tre tipi di bulbo: cubico, da cui nascono capelli ritti
e robusti, sferico per i capelli solitamente crespi e, infine, a
uovo per i capelli così sottili come i suoi. Ma adesso vediamo.
Con una pinzetta la ragazza mi strappò un riccio dalla nuca e lo
introdusse nella fessura di un monitor illuminato su cui
ricomparve enormemente ingrandito. Si notava benissimo il mio
bulbo a uovo. Il medico aveva azzeccato.
"Bulbo a uovo, capello sottile" riprese il medico "Probabilmente
lei avrà un cuoio capelluto con cellule cutanee molto piccole e
ravvicinate. Ora ci consenta di introdurre la sua testa in
questo casco collegato a un elaboratore ottico".
La ragazza mi prese la testa tra le mani in corrispondenza delle
orecchie e me la spinse all'interno del casco. Poi pigiarono dei
pulsanti. Si accesero delle luci a ripetizione e, alla fine, una
piccola stampante produsse dei dati su un pezzo di carta della
dimensione di uno scontrino. Lo prelevò il medico che lo esaminò
con attenzione.
"Bene, Signor Max, lei ha la fortuna di possedere ben 400.000
capelli contro una media, da noi rilevata su persone giovani di
sesso maschile, di 200.000. Perciò lei ha la fortuna di
possedere un capitale doppio della media degli italiani".
"Ma qual è la media di capelli tenendo conto soltanto di persone
con bulbo a uovo come il mio?".
"Ottima domanda. Me l'aspettavo. La media è attorno ai 350.000
capelli. Perciò lei e ancora al di sopra di questo dato".
"Mi hanno detto però che il fatto che io produca così tanta
forfora è presagio di calvizie".
"Beh" mi rispose Cervini "L'alopecia è un processo inevitabile,
anche se non per tutti in ugual misura. Circa il suo problema
della forfora possiamo però risolverlo, usi più volte alla
settimana questa lozione, da stendere sui capelli dopo la doccia
e vedrà che nel giro di un mese avrà già dei sensibili
benefici".
Acquistai quel prodotto, che la bella ragazza venticinquenne
prese da un tavolino, e lo usai più volte alla settimana, come
mi aveva detto il Dottor Cervini, sino ad esaurirlo. Dopo circa
quaranta giorni non notai alcun beneficio. Quando studiavo, la
mia scrivania continuava a riempirsi di quella polvere bianca,
come pure le mie giacche e i miei maglioni.
Non avevo più sentito Angelo, ma non mi andava di farmi vivo per
riprendere a parlare dei quell'episodio senza né capo, né coda.
Finché in un giorno di calura milanese, mentre giugno volgeva
verso luglio, ricevetti una sua telefonata. Stranamente non mi
parlò della Rinascente ma delle vacanze al Club Mediterranée di
Cefalù dove avrebbe passato tre settimane in compagnia di un
amico. "Il villaggio di Cefalù è un grande harem!" mi disse con
entusiasmo "Perché non vieni anche tu?"
"Perché sono squattrinato, Angelo, passerò, come al solito le
vacanze in Liguria".
"Circa il lavoro?" mi chiese.
"Inizierò un lavoro provvisorio in settembre a 80.000 lire
mensili"
"Non c'è male. Anch'io inizierò a lavorare in settembre. Mi
assumeranno, come mi avevano promesso, alla Banca Nazionale del
Lavoro".
"Mi fa molto piacere Angelo" gli dissi, sperando che quel colpo
di fortuna prima o poi capitasse anche a me.
Poi ci salutammo, ripromettendoci di sentirci ancora.
Da settembre, in quell'azienda di piccole dimensioni che me lo
aveva prospettato, iniziai il lavoro provvisorio che non era
così qualificante anche se il mio inserimento avvenne nel
migliore dei modi. Mi chiedevano di fare ogni giorno delle ore
di straordinario, perciò non avevo più la possibilità di
frequentare l'Università. In autunno conobbi Flavia, una ragazza
che, guarda la combinazione, lavorava alla Rinascente, ma non al
pianterreno. Era una bella ragazza maggiore di me di due anni.
Insieme facemmo fuoco e fiamme per diversi mesi. Aveva più
esperienza di me nel gestire l'amore e posso dire che grazie a
lei fui svezzato e inserito nel mondo delle persone più adulte.
Il 1°marzo del 1967 abbandonai l'università e il lavoro
provvisorio perché venni assunto, con prospettive di successo
alla Direzione Centrale della Banca Commerciale. Ero davvero
soddisfatto della mia vita. Il lavoro in banca mi piaceva e il
rapporto con i colleghi si dimostrava ottimo. Si stava per
costituire il Centro Elettronico di Milano e mi prospettarono di
inserirmi in quel settore innovativo come programmatore. Non
potevo desiderare altro. La fortuna mi aveva abbracciato. E, in
effetti, oggi posso dire di aver fatto una bella carriera. No ho
mai saputo se altrettanta buona sorte sia capitata ad Angelo che
non ebbi più modo di incontrare, né di sentire.
Dimenticavo la forfora! Ebbene, dopo aver lasciato l'università
e come incominciai a lavorare mi accorsi che la forfora se n'era
andata completamente e che la sua comparsa dipendeva
essenzialmente dalla situazione di ansia che mi procurava lo
studio. Finita l'ansia, finita la forfora. A quarant'anni non
divenni calvo come il mio medico curante di allora. A ancora
oggi credo di aver conservato circa una metà di quei 400.000
capelli da cui ero partito in quella mia gioventù ormai sempre
più lontana. Sempre più lontana e latitante... anche nella
memoria più recondita.
Massimo Messa (Milano) |