"Tra Sièlo e Mar" (il dipinto sottostante) è opera del collega Roberto Cardone di Pagnacco (UD)  

 

           Entrai in baracca ancora al buio. Il barchino, legato dalla parte opposta all'entrata per sfruttare la poca acqua rimasta nella darsena, dondolò nel ricevere il carico di canne, attrezzi e sacchetti di esca. Concluse in fretta le poche operazioni di partenza, uscii pagaiando nel piccolo canale per avviarmi verso il lago. Un leggero alito di scirocco, appena percettibile, mi accarezzava a tratti. Nonostante l'ora, ancora di quelle "piccole", si stava bene anche in camicia; era già settembre e qualche nuvolone stazionava sulle cime delle Apuane.

Ora avevo messo su tutti e due i remi e badavo a tuffarli piano piano in acqua senza far rumore, per una sorta di timore innato che mi prende ogni volta di potere in qualche modo distruggere il momento veramente magico dell'ora che precede l'alba. Non era facile trovare la strada giusta per il lago fra il dedalo dei fossi e degli specchi d'acqua, spesso enormi e molto profondi, che si sono formati per il continuo pompaggio della sabbia silicea di cui è ricca la zona. Nel canale più grande, che sbocca direttamente nel lago, passavo sotto i "retoni" gocciolanti dei pescatori che, un tempo professionisti, traevano dai lucci e dalle tinche del "padule" l'unico sostentamento. Ora solo qualche vecchio, amico della notte, girava l'argano per alzare e calare le grandi "bilance" e al mio richiamo interrogativo rispondevano con "nulla" o "poca roba", ma io sapevo che quelle risposte erano dettate dall'amarezza del confronto con i loro tempi giovani, quando l'abbondanza del pesce era ingigantita dal ricordo. Il  pesce c'è ancora nel "padule" e se mi fossi fermato a guardare nei "bucchi" li avrei trovati sicuramente pieni di tinche e nottambule anguille. Il cielo cominciava a schiarire. Una folaga attraversò a prua quasi camminando sull'acqua.

Il lago di Massaciuccoli - avaro di bellezze per coloro che si affacciano all'unico punto accessibile da terra, la terrazza di Piazza Puccini a Torre del Lago - rivela il suo fascino a chi, come io facevo, lo costeggia con la barca. Non ci sono sponde, il confine fra acqua e terra è costituito da ampie aree paludose e il falasco e il biodolo immergono le loro radici direttamente nel lago. A mano a mano che ci si inoltra, nuove insenature, non visibili da terra, si aprono davanti alla prua ed ogni volta una gallinella, una folaga, un porciglione, un germano o un airone si levano, disturbati dall'intrusione. E' in queste insenature e lungo la sponda che la tinca spelluzzica gli animaletti attaccati alle cannelle sommerse e la carpa grufola sul fondo sollevando, fra la mota, i piccoli molluschi di cui si nutre e il luccio tende i suoi agguati alle sprovvedute scardole e ai cavedani che passano a tiro.

Il cielo sopra i colli di Quiesa e di Massaciuccoli si faceva sempre più vivido e le rondini già passavano rapide a piccoli stormi rasentando l'acqua. Fra poco sarei stato sul posto e l'ansia che i pescatori conoscono quando si avvicinano al luogo di pesca e già pregustano le prime ferrate nell'aria ancora incerta del mattino mi induceva ad allungare le battute. Due piante arbustive si ergevano al di sopra del falasco e segnavano un piccolo fosso che si inoltrava nel "padule" la cui imboccatura, nascosta dalle cannelle e da fitti cespugli di biodolo, interrompeva la vegetazione della sponda in quel punto dritta e monotona. Era lì che il mio amico Alfio aveva "appastato" la sera precedente e, tagliando le cannelle e svellendo alcune piante di biodolo, aveva creato dei vuoti nella massa della vegetazione acquatica. Lì senza dubbio durante la notte molte tinche e carpe, nel loro girovagare, si erano fermate a poppare le tenere radici dei biodoli divelti e a mangiare la polenta regalata dal mio amico. Con un colpo di remi più forte degli altri infilai la prua nel falasco pochi metri a monte del punto prescelto e piantai un remo nel fondo, legandolo immediatamente allo scalmo: ero saldamente ancorato.

La tecnica da usare in questo ambiente è abbastanza singolare, cosicché le moderne canne molto flessibili e raffinate e le lenze sempre più sottili che oggi l'industria offre ai pescasportivi qui non servono. La tinca, o la carpa, va insidiata nel suo ambiente. E poiché quando abbocca cerca scampo infilandosi velocemente sotto il più folto delle cannelle e delle erbe palustri, occorre filo grosso e canna rigida per portarla in barca quanto prima possibile perché se ti si ficca sotto o se ti fa un giro attorno ad un ciuffo di canne l'hai persa. Buttai la prima lenza in una "buca" abbastanza larga fra i biodoli. Mentre montavo la seconda canna il sughero si mosse: vado a pescare da venti anni ed ogni abboccata è sempre un nuovo tuffo al cuore. Continuavo a montare la canna e nello stesso tempo tenevo d'occhio il sughero; affondò: la ferrata rapida fece volare sopra la mia testa un "gobbo", il vorace Persico sole. Brutto segno, se cominciavano ad abboccare quelli potevo andare via. Infilai la seconda lenza proprio al limitare del fronte di canne davanti a me. Il sole non era ancora uscito ma era ormai giorno chiaro. Il lago, appena ondulato dalla brezza del mattino, dondolava la barca. I cerchi sull'acqua intorno al sughero di destra mi misero in allarme; ora esso camminava lentamente, trascinato verso le canne: uno strappo e la prima tinca, dopo qualche guizzo, entrò in barca, il verde del dorso ed il giallo oro della pancia, sfumato sui fianchi, brillante al sole che in quel mo­mento occhieggiava sul colle di Balbano. Era il momento: la levata del sole, come per un magico in­canto, faceva affondare i due sugheri fra l'intrico delle cannelle e io, preso dall'orgasmo della pesca, quasi non mi accorgevo della bellezza della natura ormai del tutto sveglia nel "padule". Sapevo che non sarebbe durato molto; appena il sole avesse abbandonato la linea d'oriente per lanciarsi verso l'alto, l'incantesimo sarebbe stato spezzato.

Avevo già preso una quindicina di tinche tutte "di porzione", sui due o tre etti, ma non avevo ancora preso quella grossa. Ora le abboccate si erano fatte più rade ed io cominciavo a rassegnarmi all'attesa e porgevo l'orecchio al verso delle gallinelle d'acqua che, dal folto del falasco, si lanciavano il loro richiamo. Qualche gabbiano perlustrava dall' alto il lago e le graziose cannatole si inseguivano aggrappandosi alle cannucce in curiosi atteggiamenti. Il sughero alla mia destra ebbe un nuovo sussulto, che subito si spense: sarà un "gobbo"pensai, ma di nuovo si mosse avviandosi verso lo sbarramento di piante che nascondeva l'ingresso del piccolo fosso: fermai.

La canna, sebbene rigida, si piegò ad arco. La reazione della bestia fu violenta: dapprima venne verso la barca, poi si slanciò di nuovo verso la vegetazione cercando l'imboccatura del fosso e facendo scempio delle cannelle che si schiantavano sotto l'impatto del suo corpo; se riuscivo a dominare la prima resistenza ce l'avrei fatta. Ebbi fortuna: il piccolo fascio di cannucce circuito da un rapido giro del pesce si schiantò cogliendolo quasi di sorpresa e facendolo salire a galla fra lo sciacquio dell'acqua, rapida la mia sinistra gli infilò il guadino sotto la pancia: era fatta; una carpa regina di circa tre chili faceva compagnia, con le sue grosse squame lucenti, al verde oro delle tinche. Ero stanco e soddisfatto e sebbene fosse ancora presto sciolsi la barca e mi avviai a lente remate verso Torre del Lago. Una barca a vela usciva dal porticciolo piegandosi sotto la prima larga virata.

 

Ermindo Dovichi - Prato (1972)

 

 

 

 

 

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Piazza Scala - agosto 2011