C’è un luogo immerso nel cemento, cinto da alti caseggiati, dove
l’odore del mare si fonde con quello dello smog, dove uno
spiazzo d’asfalto incornicia una cattedrale dello sport. Con i
suoi spalti a picco sul verde di un campo di calcio che tante ne
ha viste. Dalla fisicità di Brighenti all’eleganza di Signorini,
alle serpentine di Abbadie, alle capocciate di Pruzzo, ai duetti
di Vialli e Mancini…Lì, piaccia o no, è nato e si è affermato il
calcio moderno italiano. Quel luogo è il quartiere genovese di
Marassi, quello stadio è il “Luigi Ferraris”, tempio di un
calcio che
fu, oggi casa di squadre mai dome di fronte alle proprie
vicissitudini ed ascese sportive. E’ lo stadio più vecchio
d’Italia, che ha una storia strana, un po’ lunatica come il
carattere della gente che abita quei vicoli. Qualcuno dice per
via di quel mare: “…che qualche volta ti dà, più spesso ti
toglie”.
La storia di quel luogo è legata a doppia mandata a quella del
Genoa, nato ufficialmente il 7 settembre 1893 grazie ad alcuni
inglesi residenti nel capoluogo ligure. Il suo primissimo
terreno di gioco era stato messo a disposizione da due
industriali scozzesi, tali Wilson e McLaren, proprietari di una
fabbrica in Piazza d’Armi nella zona del “Campasso”, vicina
all’attuale via Walter Fillak a Sampierdarena. In quella zona e
nella vicina trattoria “Gina” i marinai delle navi inglesi erano
soliti ritrovarsi. A calcio si giocava il sabato e la passione
cresceva. Tanto che dopo pochi anni quel terreno e quegli spalti
furono subito giudicati insufficienti. James Richardson Spensley,
vero demiurgo del calcio grifone e quindi italiano, ne procurò
uno nuovo. Il nuovo campo di Ponte Carrega si trovava lungo le
rive del torrente Bisagno, all’interno dello spazio utilizzato
dalla Società Ginnastica Colombo come pista velocipedistica. Ed
è proprio qui che venne disputato il primo incontro
ufficialmente documentato della storia del calcio in Italia, il
6 gennaio 1898. E’ il calcio inglese che si trapianta in Italia
e che mantiene le sue tradizioni anglosassoni. Dal tè
nell’intervallo ai nomi che si storpiano. Del calcio più che
pionieristico di quegli anni, fra retine per capelli impomatati,
ghette e lunghi “mustazzi” virili, s’è già scritto. Ma la Genova
di quegli anni è qualcosa in più. In omaggio al suo mare è un
coacervo, di razze, tradizioni e lingue. Così non è raro veder
scendere da un bastimento, giovani dalla pelle olivastra che
accarezzano la palla di pezza come un pennello con la tela.
Gente che arriva, sosta, “giochiccia” e poi riparte. Con tutto
il suo talento, lasciando in eredità una saggezza tecnica, tutta
istintiva, che attecchisce fra quei carrugi e che farà della
città la capitale calcistica dello stivale per almeno
trent’anni.
La storia di “Marassi” si sviluppa subito in modo strano. Come
strano, articolato, quasi indecifrabile è il panorama del
“fobàl” di quegli anni sotto la Lanterna. Una serie di squadre,
dalla Sampierdarenese all’Andrea Doria, dal “Liguria” al Genoa
1893, a sgomitare per un posto al sole del neonato calcio
nostrano. A sgomitare, come in una sorta di legge del
contrappasso calcistico, sono anche i campi di gioco. Così il 22
gennaio del 1911 nasce, perpendicolare al torrente Bisagno, lo
stadio del Genoa 1893. Lo si costruisce su un terreno venduto
dal socio genoano Musso Piantelli, attiguo alle carceri. Una
vendita particolare, visto che il Piantelli impose ai
costruttori di dotare il campo di un anello di pista da
destinarsi alle corse dei cavalli. Una posizione infelice,
scomoda che, infatti, venne modificata quasi subito, tanto che
(seconda stranezza) lo stadiolo già il maggio successivo fu
inaugurato una seconda volta. Ma ora il terreno di gioco era
parallelo al torrente genovese e non è finita qui…Giusto perché
a Genova tengono a essere considerati “originali”, unici, caso
probabilmente senza precedenti, lo stadio del Genoa era
addirittura confinante con quello dell’Andrea Doria (terza
stranezza). La “Cajenna”, così era chiamato questo secondo
stadio attiguo, costruito con pochi mezzi dalla società
biancoblù era strettissimo (solo 45 mt di larghezza), aveva le
tribune in legno schiacciate al campo ed era separato da quello
che diventerà il “Ferraris” da una sola palizzata (fatta
costruire dai genoani, che pretesero metà della spesa ai
“cugini”: 1000 lire). Raccontano le cronache che le due società
litigavano puntualmente per definire, stagione per stagione, a
chi spettasse l’onere della sua manutenzione. Alla fine si
concordò una volta per tutte che il “Doria” (società
storicamente più povera) avrebbe dovuto corrispondere ai cugini
del Genoa ben 200 lire annuali. Calcio d’altri tempi, “mondi”
scomparsi. Se si pensa che una struttura di soli 20mila posti in
piedi, poteva all’epoca, ritenersi adeguata a contenere tutta la
passione genovese per il calcio. Quell’incredibile rapporto di
vicinato durò fino al 1926, anno in cui lo stadio doriano fu
dichiarato inagibile e quindi abbattuto. Per la gioia di
dirigenti e tifosi rossoblù che, proprio al suo posto, poterono
edificare la curva nord. Esattamente dov’è ora, seppure con vari
ampliamenti prima e ricostruzioni poi. Ma non prima di aver
pagato il preziosissimo terreno ben 20mila lire.
Ma il calcio a Genova fino al secondo dopoguerra non è soltanto
Genoa 1893 o Andrea Doria. E’ anche Sampierdarenese. Squadra
dell’omonimo quartiere che si fonderà per ben due volte con
l’Andrea Doria. Una prima, nel primo dopoguerra, dando vita alla
sfortunata (nonostante le ambizioni) “Dominante” e la seconda
definitivamente nel 1946 regalando i natali alla SampDoria. La
Sampierdarenese giocherà prima sul campetto di “Villa Scassi”
proprio nel cuore del quartiere natio in uno stadiolo di circa
5mila posti costruito in legno. Dopo la prima fusione, invece,
si sposterà in uno stadio vero e proprio, costruito per volontà
fascista nella confinante Cornigliano: lo stadio “Littorio” . Si
trattava di un bell’impianto, per l’epoca. Con spalti in
muratura e una copertura, per la capiente tribuna, in legno. Uno
stadio “all’inglese”, per 16mila posti. Nelle intenzioni dei
gerarchi fascisti “La Dominante”, avrebbe dovuto effettivamente
dominare. Cosa che “puntualmente” non avvenne. Nemmeno quando si
decise per un'ulteriore fusione (estate 1930) con la
Corniglianese e la Rivarolese e per un nuovo nome: quello di
“Liguria”. Anzi, fallito l’accesso alla massima serie a girone
unico nel 28-29, nel 1931 la società sprofondò in prima
divisione, l’attuale serie C1. Si continuò a giocare al
“Littorio” di Cornigliano fino al 1943. Poi arrivarono le bombe
inglesi e americane e lo stadio andò parzialmente distrutto,
tanto che dopo la seconda fusione fra Sampierdarenese e Andrea
Doria (dal 1935 erano di nuovo divise) la SampDoria chiese
definitivamente ospitalità al comune nello stadio “Luigi
Ferraris”. Il vecchio Littorio, infine, fu parzialmente
riadattato ed utilizzato per il calcio dilettantistico, fino al
1958. Quell’anno fu definitivamente abbattuto, per crearvi al
suo posto un deposito di tram. Finiva così, miseramente, dopo un
trentennio, la storia del secondo stadio “vero” di Genova.
Il “Ferraris”, invece, non solo resisteva, ma s’ingrandiva e si
gremiva. Di pubblico, di emozioni, di significati anche
extracalcistici. Come quelli legati al suo nome. Nel 1933,
infatti, si decise d’intitolare la struttura all’ex calciatore
del Genoa 1893 Luigi Ferraris, proprio in occasione dei
quarant’anni del sodalizio. Quasi quindici anni più tardi,
invece, lo stadio fu nuovamente ampliato costruendo sul lato
opposto alla tribuna una nuova struttura a due piani. il campo
così raggiunse una capienza vicina ai 60.000 spettatori. Nel
frattempo si erano giocati i primi derby. Il primissimo dei
quali (con la neonata SampDoria in campo) fu proprio appannaggio
dei blucerchiati, che sugli spalti venivano sbeffeggiati in
continuazione per l’originalità della maglia, anche dai propri
tifosi. Molti dei quali vedevano in quella nuova realtà una
sorta di “aborto” volontario. Il 3 novembre 1946 finì 3-0 per i
doriani, che dominarono la partita andando in gol con Baldini,
Frugali e Fiorini. Saranno gli anni di una SampDoria competitiva
ai massimi livelli, con un grande centravanti “petto in fuori”
come Brighenti e tante comparse più o meno “indelebili”. Una di
queste, tale Vujadin Boskov, tornerà trent’anni dopo un suo
primo passaggio da mediano, a dispensare tattiche e motti, dalla
panchina blucerchiata. Fino allo scudetto. Anni di sfide, di
derby “avvelenati” solo dall’ironia, di retrocessioni e
salvezze, di grandi bagni di folla. Eppure pare, ma il dato non
è ufficiale, che il record di pubblico si sia registrato in un
“inedito” Genoa-Lecco del giugno del 1973. Quel giorno i
rossoblù staccavano contro i retrocedendi lariani, il biglietto
per una seria “A” ritrovata dopo sette anni e dopo aver
attraversato (per una prima volta) anche l’inferno della serie
C. 57mila paganti, uniti a circa 13mila abbonati, giunsero a
sfiorare la soglia dei 70mila spettatori.
L’11 Settembre 1983 il Genoa ha da poco compiuto 90 anni. La
squadra allenata da Gigi Simoni scende in campo contro una
squadra bianconera che non è la Juventus, ma che da poche
settimane ha assunto un’importanza nell’immaginario calcistico
italico anche maggiore. E’ l’Udinese del fuoriclasse Arthur
Antunes Coimbra “Zico”, scippato al Flamengo da un abile manager
come Franco Dal Cin e inserito, fra mille polemiche, in un
organico che al suo fianco può schierare gente come il campione
del mondo Franco Causio, il talentuoso Massimo Mauro, il
pericolossissimo (sotto porta) Pietro Paolo Virdis. Eppoi tanti
altri ottimi giocatori, come l'altro brasiliano Edinho. Di
fronte un Genoa deboluccio con poche frecce nel suo arco che
perde 5-0 (due gol di Virdis e uno di Mauro) fra gli applausi di
un “Ferraris” dapprima stizzito, quindi attonito, infine
ammirato. Zico inforna due gol e sforna due assist. Dirà lo
stopper genoano di quel giorno, Carmine Gentile: “Che partita,
spuntavano da tutte le parti. Che figuraccia, ma con Zico in
campo…”. I 55mila spettatori alla fine applaudiranno quei
bianconeri e il loro profeta carioca, come raramente capiterà
nel calcio dello stivale.
Esattamente 27 anni prima, nel 1956, in un amichevole proprio
contro l’Udinese, aveva giocato a Marassi per la prima volta
forse il più grande giocatore rossoblù di sempre, l’estroso e
trascinante uruguaiano Julio Cesar Abbadie. Talento cristallino
che giunto al Genoa si fermò in rossoblù per ben cinque
stagioni. Uomo squadra, ala più avvezza all’ultimo assist che
alla realizzazione, Abbadie fu idolo della folla genoana che per
lui vergò il motto “Vendete la Lanterna, ma non Abbadie”. Giocò,
dopo aver chiuso in Italia al Lecco a 32 primavere, fino a 40
anni, togliendosi la soddisfazione, rientrato al Penarol, di
vincere anche la Coppa Libertadores. Luci e ombre rossoblu a
“Marassi”: in quello stesso 1983 di Zico, poco prima dell’inizio
del primo derby, i tifosi doriani mandarono in campo una
scimmietta con la maglia rossoblù dal numero “9”. Era quella di
Chagas Francisco Eloya. Detto “Eloi”, triste attaccante
brasiliano, giunto sotto il Grifone per volontà del presidente
Fossati e presto calcisticamente scomparso. La struttura del “Ferraris”,
intanto, rimase invariata fino all’inverno del 1989 quando, a
pezzi e senza chiudere per le partite, lo stadio fu prima
abbattuto e poi ricostruito a campionato in corso. Per i
Mondiali si portò la capienza a poco meno di 45.000 di cui solo
settemila in piedi nel settore parterre dietro le porte.
Giusto in tempo per consegnare alla SampDoria uno stadio degno
del suo primo scudetto, l’unico della città di Genova negli
ultimi 83 anni. La stagione 1990-91 sarà la stagione non solo di
Vialli e Mancini scudettati, ma anche del Genoa di Bagnoli, che
giunge 4° e si toglie la soddisfazione di battere i doriani nel
derby forse più significativo degli ultimi venticinque anni. Il
25 novembre 1990 è una “fucilata” di Branco su punizione a
insaccarsi alle spalle di Pagliuca e a regalare il 2-1
definitivo ai rossoblù. Una pallonata da quasi 110 km orari,
come nella tradizione del terzino sinistro brasiliano. Un gol
che resta nella storia di Marassi esattamente come quelle due
squadre. La blucerchiata di Boskov che si identifica nei due
fuoriclasse Vialli e Mancini e la rossoblù dello schivo “profeta
della Bovisa” Osvaldo Bagnoli, che s’incarna nella statuarietà
di capitan Signorini e nell’umiltà di Bortolazzi e Ruotolo. Due
squadre, due caratteri, due modi di vivere il calcio, uniti solo
nella loro “cattedrale”.
Oggi il “Ferraris”, eliminati gli scomodi posti in piedi, può
contenere al massimo 37mila spettatori, ma è sbagliato
considerarlo il più “inglese” degli stadi di casa nostra.
Marassi è semplicemente Marassi. Anche se gli spalti non sono
più gli stessi ed è cambiato il calcio. Troppo cambiato. Sì, è
un luogo immerso nel cemento, cinto da alti caseggiati. Intorno
a quel luogo, domenica scorsa, un paio d’ore prima del derby di
serie A Genoa-Sampdoria, (il primo nella massima serie dopo 12
anni), almeno trecento individui, si sono ritrovati così, con la
più ignobile spontaneità. Mazze ferrate, elmetti e scudi
improvvisati e se ne sono date di santa ragione. E’ la nuova
moda della teppaglia di casa nostra, mutuata da quella più
degenere inglese, dove gli hooligans, ostracizzati dalle dure ed
efficaci leggi, da anni si ritrovano prima delle sfide di
cartello, dandosi appuntamento via computer. E botte da orbi.
Così le luci di Marassi si spengono. E si ritorna a parlare di
un “Ferraris” da abbattere, perché è insicuro, senza vie di
fuga, troppo a ridosso dei condomini e via dicendo. Come se il
seme della stupidità c'entrasse qualcosa con la fisicità di Brighenti, l’eleganza di Signorini, le serpentine di Abbadie.