Si parla molto, in questi giorni, delle retribuzioni, dei bonus e delle buon’uscite di certi alti dirigenti di aziende private e pubbliche confrontandole, ovviamente, con i bassi stipendi e con le gravi difficoltà economiche di tante fasce della popolazione, dei lavoratori dipendenti e autonomi e dei pensionati, i cui redditi negli ultimi dieci anni sono stati erosi non tanto dall’inflazione che dopo l’entrata del nostro paese nell’Euro è rimasta molto bassa, in linea, fortunatamente, con quella degli altri membri della moneta unica, quanto dalla crisi che ci ha colpiti più che altrove, con i fatturati delle imprese stagnanti o addirittura in diminuzione, con tante aziende in difficoltà, con i consumi in picchiata, con scarsità di risorse da parte dello stato per soccorrere i nuovi disoccupati specialmente fra i giovani, e non solo.

Le loro entrate, dicono i supermanager, sono dettate e regolate dal mercato, cioè dalle analoghe retribuzioni riconosciute in tutto il mondo ormai globalizzato ai più alti responsabili di grandi e medie aziende e ai grandi boiardi delle amministrazioni pubbliche. Ciò è in buona parte vero, ma che cos’è quel mercato? E’ regolato da una libera concorrenza e da un equilibrato gioco dell’offerta di posizioni di lavoro, di esigenze dell’economia, delle aziende, delle pubbliche amministrazioni da un lato e della domanda di lavoro e delle capacità di produrre valore dall’altro lato?

L’ho già scritto in passato su questo giornale: la mia sensazione è che si tratti in buona parte di un mercato globale manipolato e che il fenomeno delle altissime retribuzioni, dei bonus milionari, dei contratti che assicurano proficue vie di fuga, altissime buon’uscite, sia abbastanza recente, con basi di partenza negli Stati Uniti, a partire dagli anni ’70, più nel mondo finanziario che in quello industriale e pubblico, diffusosi poi in Europa e nel resto del mondo, Russia e Cina comprese. Ricordate gli yuppies di Wall Street e della city londinese? Assicuravano profitti immediati o a breve termine con le loro capacità speculative, si arricchivano in un paio d’anni e poi sparivano, lasciando magari buchi nei conti delle loro società. Qualcosa di analogo è successo e succede con alcuni grandi dirigenti delle multinazionali che si preoccupano di fare profitti al più presto, gonfiare i conti, incassare stock option e liquidazioni milionarie e non sempre agire nell’interesse delle loro aziende a lungo termine. Ciò vale anche per le imprese a partecipazione pubblica, con l’aggravante del peso della mano politica nella scelta di chi deve dirigerle.

Quella dei grandi manager è a poco a poco diventata una corporazione di fatto. Ci entri e ti mantieni sostanzialmente coltivando relazioni, amicizie e parentele. Puoi influire sulle nomine di altre aziende o nell’ambito pubblico ed è la corporazione che fa il mercato, che stabilisce di fatto le retribuzioni. Ha ragione il Presidente delle Ferrovie dello Stato quando dice che “è il mercato” che decide il suo elevatissimo stipendio e anche altri hanno evocato il mercato per giustificare le loro retribuzioni, che sono pubbliche nella maggior parte dei casi, anche se spesso, è giusto rilevarlo, i media inducono la gente a credere che si tratti di importi netti, dopo le tasse che, si sa, ne portano via circa la metà.

Se una grande azienda vuole un grande manager, uno che ha portato risultati, uno che ha risanato una situazione precaria o è riuscito a riformare o a ringiovanire un ente o una società in affanno, deve cercarlo in questo cosiddetto mercato, non c’è scampo, e pagarlo secondo i canoni stabiliti ormai in campo internazionale.

Non è etico, non è morale, è vero, che un top manager porti a casa cinquanta/sessanta volte più soldi di un suo operaio o un suo impiegato e non è scusante il fatto che il suo lavoro e la sua posizione sono precari e temporanei, perché spesso gli bastano due/tre anni o poco più per sistemarsi per la vita e inoltre, una volta entrato nel “giro”, è quasi certo che ci resterà. Solo un paio di decenni fa non era così. La situazione attuale è figlia del capitalismo senza freni e della globalizzazione. Spesso, poi, esiste una coincidenza di interessi fra il manager e chi lo nomina o lo sponsorizza.

Non vedo una soluzione facile al problema. Molte retribuzioni e liquidazioni sono in effetti scandalose. Si può mettere un tetto per legge?  Non funzionerà finchè il cosiddetto mercato internazionale detterà le regole.  In un mercato libero e globale continuerà a dettarle. Il discorso vale sostanzialmente anche per i “grand commis”  pubblici che, si è visto, guadagnano molto di più dello stesso Capo dello Stato. E’ vero che, rispetto ai manager privati, godono di altri vantaggi, come la stabilità del posto, ma anche per loro si deve fare riferimento in linea di massima a quel mercato, per evitare l’esodo dei migliori. Chi ha il potere di nomina (azionisti di riferimento, governo, regioni, eccetera) dovrebbe avere presente l’interesse della sua società e il bene pubblico, ma è sempre lo stesso discorso. D’altra parte, evitino i boiardi di fare dichiarazioni arroganti.

 

Giacomo Morandi

 

 

 

 

 

 

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Piazza Scala - aprile 2014