Lorenzo Milanesi: Carmela Cuda    
     Rubbettino Editore    

 

Presentazione


II libro di Lorenzo Milanesi va letto con piacere perché è uno spaccato del vecchio Sud: l'emigrazione, i casati nobili, i matrimoni difficili, gli amori più difficili ancora, il tempo in cui occorrevano intermediari e amici per combinare un fidanzamento.
Poi, dopo, tutto diventa solenne, ufficiale: il corredo, i regali, le masserizie. Negli undici racconti c'è la storia di tre generazioni scritta in un alone poetico che ne rende gradevole la lettura. Dalla raccolta delle castagne, ai nomi da dare ai figli per onorare e ricordare parenti molto cari; all'impatto del ragazzo con Milano fino ai giorni della guerra e del dopoguerra.
Tutto è trattato con verismo da far venire in mente echi dei grandi narratori siciliani.
Milano, 19 giugno 1997
Gaetano Afeltra

 

 


I PÀPARI


Un nostro fondo a uliveto era situato in collina, nella contrada chiamata Giancarru. Aveva forma rettangolare di circa un ettaro ed era disposto a gradoni digradanti («ràsole» nel nostro gergo) ognuno dei quali non superava i 1550 mq.
Si distingueva dagli altri uliveti circostanti per una singolare particolarità. Il suo limite verso nord era segnato da una fila di maestosi castagni per l'intera lunghezza del lato maggiore. Al centro del tondo v'era un capanno di legno e lamiere nel quale mettevamo, oltre a qualche attrezzo da lavoro, quante più felci secche potesse contenere fra quelle che, cresciute tutt'intorno, strappavamo a tempo debito per le occorrenze che sto per dire.
A settembre inoltrato, come le donne al quinto, sesto mese di gravidanza, i ricci cominciano a dare chiari segni di rigonfiamento e qualcuno di essi, con anticipo sulla caduta generale, apre e lascia cadere le castagne oppure, per chissà quale arcano disegno, precipita al suolo in loro compagnia.
Altrettanto accade per gli ulivi i quali, se l'annata è di quel buone, sono in piena attività nutritiva e lasciano già cadere qualche frutto maturo.
Questi segnali non potevano sfuggire a mio padre. Una delle prime cose che egli cominciava a fare era di procurare un sacchetto di canapa e un paniere. Il primo doveva servire per le castagne e il secondo per i funghi, che, immancabilmente, compaiono, almeno dalle nostre parti, nelle vicinanze dei castagni fin dove questi alberi proiettano l'ombra delle loro bellissime chiome, quasi a proteggere la vegetazione sottostante.
Chiamiamo questi funghi 'panicoli', forse perché la cappella assomiglia nella forma e nel colore a una piccola pagnotta.  Mia madre, dopo averli puliti ben bene, li faceva bollire brevemente, li asciugava e quindi li friggeva infarinati. Erano squisiti. A tal punto che quando la santa donna era in procinto di finire l'operazione di cottura, la numerosa figliolanza che le girava attorno aveva ormai cancellato ogni traccia apparente di quelli già fritti. Dico apparente perché mia madre, conoscendo, come tutte le mamme, i suoi pargoli, provvedeva, giudiziosamente e con accorte manovre, a dirottarne in un piatto fuori dalla nostra voracità, una porzione per mio padre. Oggi erano i funghi, domani le crespelle, un altro giorno qualche altra ghiottoneria di cui mio padre, senza l'amorevole preveggenza di sua moglie e, per la verità, senza dolersene, sarebbe rimasto a bocca asciutta.
Mio padre dunque prendeva la via di Giancarru e insieme con i proprietari confinanti, ognuno in giorni diversi, concordava le 'pendinenze'.
Le quali altro non sono che dei semicerchi (a solco o avvallamento) segnati con la zappa su terreno di proprietà del confinante. In essi vanno a cadere i frutti (olive, castagne, ecc.) degli alberi che vi pendono («pendinenze?) e che appartengono ad altri («pertinenze»?).
In altre parole è la presa d'atto concordata di una limitazione pro tempore del diritto di proprietà in favore del confinante, il quale solo è autorizzato a raccogliere i frutti caduti dai propri alberi.
Prima che questa delicata operazione fosse portata a termine lungo l'intero tratto del confine, il ritmo di caduta delle castagne aumentava e la presenza di qualcuno dei figli era d'obbligo per evitare che i frutti sparissero per mano delle raccoglitrici di olive che, a prim'alba, si recavano nei vari fondi vicini servendosi di un sentiero che correva proprio al di sotto del nostro fondo.
Così, mio padre chiamava me e mio fratello, di un anno maggiore di me, ci consegnava il sacchetto e il paniere e ci ordinava di presidiare, insieme o alternati, in relazione agli impegni, il fondo di Giancarru.
Correva l'anno 1933 e noi eravamo poco più che bambini. In genere partivamo insieme. Accadeva però, neppure tanto di rado, che mio fratello fosse occupato in altri lavori e che quindi toccasse soltanto a me di dovermi recare sul posto alle prime luci del giorno.
Mio padre, mattiniero come sempre, ci svegliava di buon'ora e, intanto che noi ci preparavamo, mia madre aveva già messo in tavola la tazza di latte di capra bollito e un pezzo di pane biscotto, di quello che i miei genitori mettevano in forno - perché appunto si 'biscottasse' - all'incirca una volta al mese proprio per la prima colazione e, data la spiccata proprietà di conservazione, per fronteggiare le emergenze.
Mangiavo e uscivo che compare Vincenzo B., alto, ritto e impettito come una statua su un terrazzino adiacente alla strada principale, distribuiva con voce stentorea, incurante dell'ora, i suoi «buongiorno, buongiorno» a quanti, a piedi o sulle cavalcature, si avviavano, ancora insonnoliti, ai lavori agricoli.
Per me aveva espressioni particolari e ridondanti, del tipo «buongiorno comparuzzu e buona giornata» mentre, con entrambe le mani, si attorcigliava sorridente i lunghi baffi a manubrio.
Più tardi, durante la guerra, quest'uomo mite e garbato divenne innocente bersaglio di un tiro giocatogli dal solito buontempone, al quale, senza averne l'intenzione, rispose come mai quello si sarebbe aspettato.
In quel tempo non erano rari i manifesti, le ordinanze del podestà, le comunicazioni del prefetto che, per un motivo o per l'altro, venivano affissi ai muri. Compare Vincenzo B. era analfabeta e tuttavia, con l'aria di non esserlo e la chiara intenzione di farlo credere, si poteva talvolta sorprendere davanti a uno di questi manifesti, diritto come un palo, le braccia incrociate sul fondo schiena, assorto in apparente lettura.
Accadde che uno di questi manifesti fosse affisso - a bella posta - a rovescio, e che compare Vincenzo B. gli si parasse davanti con la solita intenzione.
Chi aveva attaccato il manifesto in quel modo si avvicinò e, col tono quasi distaccato di chi non voglia perder tempo in una lunga lettura, gli chiese:
«Che c'è di nuovo, compare?».
Questi si voltò e, per nulla imbarazzato dalla domanda, assecondando anzi, senza saperlo, gli incitamenti e la propaganda radiofonica di quei tristi momenti: «Un poco d'incoraggiamento» rispose staccando le mani dal fondo schiena e sollevandole, palme in su, ripetutamente a mezz'aria, quasi a sfiorare il naso dell'incauto attacchino. «Un poco d'incoraggiamento» ripetè mentre quello batteva in ritirata con le pive nel sacco.
Attraversavo dunque il paese per la strada principale e, senza superare la chiesa di S. Giuseppe, piegavo a sinistra e, appena dopo il ponte della ferrovia, iniziavo la salita per Giancarru.
Quando vi giungevo, ammaestrato dai ritrovamenti passati, facevo un giro di ricognizione intorno a tre ulivi particolarmente alti sui quali di solito cercavano rifugio i tordi feriti dai cacciatori la sera precedente. Non c'era mattino in cui non trovassi sul terreno uno, due e anche tre tordi che non erano sopravvissuti alle ferite. Una volta, ricordo bene, ne trovai cinque.
Deponevo i tordi nel paniere e mi portavo a un angolo del fondo da dove - accostato al fusto di un albero - potevo inquadrare tutta la fila digradante dei castagni.
Poi lasciavo sul posto i tordi e il sacco e mi avviavo col paniere alla raccolta delle castagne cadute nelle 'pendinenze' e, se ne trovavo, dei funghi 'panicoli'.
A giro terminato, il paniere era pieno per un quarto di castagne e per il resto di funghi. Questi finivano su uno strato di felci, quelle nel sacco.
Verso le sette e mezzo, a gruppetti di due o tre alla volta, passavano - chi canticchiando e chi chiacchierando - le donne dirette alla raccolta delle olive.
Dalla stazioncina, poco distante in linea d'aria, giungevano gli sbuffi cadenzati del treno pronto a ripartire e, poco dopo, il puzzo tipico del fumo di carbone.
Era anche il momento dell'arrivo di un personaggio singolare - il muto - che si preannunciava con lo zoccolare dell'asina lungo la mulattiera di pietre. Si recava in un fondo vicino donde sarebbe ripartito verso mezzogiorno con due sacchi di olive.
Avanzava, seduto sul basto dell'animale, con lo sguardo fisso verso il punto nel quale era certo di incontrare il mio.
E quando la sequela degli ulivi non gli intralciava più la vista, sollecitava dall'animale, stanco della salita, un impossibile trotto fin sotto il mio angolo.
Qui ero io ad attenderlo festoso, con le braccia tese, l'una a reggere i tordi per il becco e l'altra il più grosso dei funghi.
Il muto era una creatura straordinaria, senza età. Sordomuto dalla nascita, sbilenco nell'andare oltre ogni dire, tanto che - per via degli eterni scarponi chiodati - se ne avvertiva la presenza anche da molto lontano. Bavoso nella bocca asimmetrica, tuttavia forte e intelligente, laborioso e servizievole come pochi.
Si esprimeva a gesti che davano completezza a una serie di suoni gutturali attraverso i quali riusciva, senza possibilità di equivoci, a 'dire' quello che pensava. E quando non vi riusciva, quei suoni gutturali assumevano, nella concitazione di volersi far capire, i toni dell'ululato.
Voleva bene, a suo modo, a quanti mostravano di volergliene o di meritarselo.
Si dedicava ai molteplici lavori agricoli nei fondi di famiglia con l'attaccamento del padrone e la consumata perizia del contadino. L'asina era la sua compagna più assidua e con essa, nella stagione olearia, arrivava a Giancarru tutte le mattine con la stessa puntualità del treno alla stazione.
L'innato pudore completava la sua singolare personalità.
Vedendomi con i trofei in mano non c'era ombra d'invidia nel suo sguardo, manifestava anzi tutta la sua contentezza e la raffinata sensibilità con una risata fragorosa, frammista a cenni del capo che, a modo suo, liberavano l'apprensione di potermi trovare a mani vuote e con gesti del braccio che disegnavano nell'aria dei cerchi a significare che «dopo» sarebbe ripassato di lì.
Lo salutavo saltellando con i tordi e il fungo a braccia alzate e quindi intraprendevo il secondo giro, questa volta dentro la nostra proprietà, per raccogliere le castagne.
Ora i frutti erano abbondanti tanto che riuscivo a riempire anche due o tre panieri, che rovesciavo nel sacco dopo aver separato quelle più grosse per farne 'pàpari'.
Era un'operazione divertente, un gioco, al quale - senza presenziarvi - partecipava da lontano anche il muto.
Con un mazzo di felci lunghe formavo una specie di ramazza con la quale pulivo una larga superficie di terreno.
Praticavo col coltellino un'incisione su ogni castagna e le collocavo sul terreno pulito, una dopo l'altra, a formare un quadrato di un metro circa di lato. Dal capanno prelevavo felci secche in abbondanza e ne deponevo una parte sulle castagne tenendo l'altra a debita distanza. Quindi davo fuoco e lo alimentavo con le felci di scorta via via che esso accennava a perdere d'intensità.
Parallelamente controllavo, servendomi della ramazza, che la parte superiore delle castagne si abbrustolisse quanto necessario alla giusta cottura. Poi spingevo le braci residue da un lato e, una per una, rovesciavo le castagne perché cuocessero dall'altra parte. Vi stendevo sopra le braci accantonate e alimentavo il fuoco con altre felci secche. Alla fine ramazzavo quanto era rimasto delle fiammate e 'i pàpari' erano fatti.
L'intera operazione non sfuggiva all'acuto occhio del muto il quale, seppure lontano un centinaio di metri dal punto dove ardeva il fuoco, ne intravedeva, fra i contorti fusti degli ulivi, le scintille e i bagliori. Sicché, puntuale come un orologio, lo vedevo arrancare verso di me, con gli immancabili guaiti frammisti a indecifrabili suoni gutturali, fino a sedersi per terra vicino alle castagne, che sgusciava e mangiava, con indicibile voracità, passandole dalla bava che, per lo sforzo della salita, gli scendeva copiosa dalla bocca deforme.
Aveva un che di animalesco in tutti i suoi movimenti, ma bastava che vedesse e pulisse e mi porgesse qualche frutto particolarmente grosso e ne lanciasse le bucce sulle braci per riattizzare la fiamma, perché si riscattasse in un gesto di squisita, amichevole gentilezza e in un disarmante sorriso di fanciullo.
Quando era sazio, se ne riempiva le tasche e con mossa inequivoca mi faceva intendere che erano destinate alle donne che raccoglievano le olive nel suo fondo.
Poi - rialzandosi - mi batteva una mano contorta sulla spalla e, sfruttando il pendio, si precipitava a braccia aperte, quasi rotolando, verso le donne. Non ho mai capito come diavolo facesse a mantenersi in piedi.
Per parte mia, radunavo 'i pàpari' in uno strofinaccio di tela, i funghi nel paniere e legavo con uno spago la bocca del sacco. Di lì a poco sarebbe arrivato mio fratello con il quale avrei fatto il viaggio di ritorno verso casa.

Un racconto tratto da "Carmela Cuda".
Potete acquistare l'intero libro sul sito RUBBETTINO EDITORE

 

 

 

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Piazza Scala - novembre 2010