I PÀPARI
Un nostro fondo a uliveto era situato in collina, nella contrada
chiamata Giancarru. Aveva forma rettangolare di circa un ettaro
ed era disposto a gradoni digradanti («ràsole» nel nostro gergo)
ognuno dei quali non superava i 1550 mq. Si distingueva dagli altri uliveti circostanti per una singolare
particolarità. Il suo limite verso nord era segnato da una fila
di maestosi castagni per l'intera lunghezza del lato maggiore.
Al centro del tondo v'era un capanno di legno e lamiere nel quale
mettevamo, oltre a qualche attrezzo da lavoro, quante più felci
secche potesse contenere fra quelle che, cresciute tutt'intorno,
strappavamo a tempo debito per le occorrenze che sto per dire. A settembre inoltrato, come le donne al quinto, sesto mese di
gravidanza, i ricci cominciano a dare chiari segni di rigonfiamento e qualcuno di essi, con anticipo sulla caduta generale,
apre e lascia cadere le castagne oppure, per chissà quale arcano
disegno, precipita al suolo in loro compagnia. Altrettanto accade per gli ulivi i quali, se l'annata è di quel
buone, sono in piena attività nutritiva e lasciano già cadere
qualche frutto maturo. Questi segnali non potevano sfuggire a mio padre. Una delle
prime cose che egli cominciava a fare era di procurare un
sacchetto di canapa e un paniere. Il primo doveva servire per le
castagne e il secondo per i funghi, che, immancabilmente,
compaiono, almeno dalle nostre parti, nelle vicinanze dei
castagni fin dove questi alberi proiettano l'ombra delle loro
bellissime chiome, quasi a proteggere la vegetazione
sottostante. Chiamiamo questi funghi 'panicoli', forse perché la cappella
assomiglia nella forma e nel colore a una piccola pagnotta.
Mia madre, dopo averli puliti ben bene, li faceva bollire
brevemente, li asciugava e quindi li friggeva infarinati. Erano
squisiti. A tal punto che quando la santa donna era in procinto
di finire l'operazione di cottura, la numerosa figliolanza che
le girava attorno aveva ormai cancellato ogni traccia apparente
di quelli già fritti. Dico apparente perché mia madre,
conoscendo, come tutte le mamme, i suoi pargoli, provvedeva,
giudiziosamente e con accorte manovre, a dirottarne in un piatto
fuori dalla nostra voracità, una porzione per mio padre. Oggi
erano i funghi, domani le crespelle, un altro giorno qualche
altra ghiottoneria di cui mio padre, senza l'amorevole
preveggenza di sua moglie e, per la verità, senza dolersene,
sarebbe rimasto a bocca asciutta. Mio padre dunque prendeva la via di Giancarru e insieme con i
proprietari confinanti, ognuno in giorni diversi, concordava le
'pendinenze'. Le quali altro non sono che dei semicerchi (a solco o
avvallamento) segnati con la zappa su terreno di proprietà del
confinante. In essi vanno a cadere i frutti (olive, castagne,
ecc.) degli alberi che vi pendono («pendinenze?) e che
appartengono ad altri («pertinenze»?). In altre parole è la presa d'atto concordata di una limitazione
pro tempore del diritto di proprietà in favore del confinante,
il quale solo è autorizzato a raccogliere i frutti caduti dai
propri alberi. Prima che questa delicata operazione fosse portata a termine
lungo l'intero tratto del confine, il ritmo di caduta delle
castagne aumentava e la presenza di qualcuno dei figli era
d'obbligo per evitare che i frutti sparissero per mano delle
raccoglitrici di olive che, a prim'alba, si recavano nei vari
fondi vicini servendosi di un sentiero che correva proprio al di
sotto del nostro fondo. Così, mio padre chiamava me e mio fratello, di un anno maggiore
di me, ci consegnava il sacchetto e il paniere e ci ordinava di
presidiare, insieme o alternati, in relazione agli impegni, il
fondo di Giancarru. Correva l'anno 1933 e noi eravamo poco più che bambini. In
genere partivamo insieme. Accadeva però, neppure tanto di rado,
che mio fratello fosse occupato in altri lavori e che quindi toccasse soltanto a me di dovermi recare sul posto alle prime
luci del giorno. Mio padre, mattiniero come sempre, ci svegliava di buon'ora e,
intanto che noi ci preparavamo, mia madre aveva già messo in
tavola la tazza di latte di capra bollito e un pezzo di pane
biscotto, di quello che i miei genitori mettevano in forno -
perché appunto si 'biscottasse' - all'incirca una volta al mese
proprio per la prima colazione e, data la spiccata proprietà di
conservazione, per fronteggiare le emergenze. Mangiavo e uscivo che compare Vincenzo B., alto, ritto e
impettito come una statua su un terrazzino adiacente alla strada
principale, distribuiva con voce stentorea, incurante dell'ora,
i suoi «buongiorno, buongiorno» a quanti, a piedi o sulle
cavalcature, si avviavano, ancora insonnoliti, ai lavori
agricoli. Per me aveva espressioni particolari e ridondanti, del tipo
«buongiorno comparuzzu e buona giornata» mentre, con entrambe
le mani, si attorcigliava sorridente i lunghi baffi a manubrio. Più tardi, durante la guerra, quest'uomo mite e garbato divenne
innocente bersaglio di un tiro giocatogli dal solito
buontempone, al quale, senza averne l'intenzione, rispose come
mai quello si sarebbe aspettato. In quel tempo non erano rari i manifesti, le ordinanze del
podestà, le comunicazioni del prefetto che, per un motivo o per
l'altro, venivano affissi ai muri. Compare Vincenzo B. era
analfabeta e tuttavia, con l'aria di non esserlo e la chiara
intenzione di farlo credere, si poteva talvolta sorprendere
davanti a uno di questi manifesti, diritto come un palo, le
braccia incrociate sul fondo schiena, assorto in apparente
lettura. Accadde che uno di questi manifesti fosse affisso - a bella
posta - a rovescio, e che compare Vincenzo B. gli si parasse
davanti con la solita intenzione. Chi aveva attaccato il manifesto in quel modo si avvicinò e, col
tono quasi distaccato di chi non voglia perder tempo in una
lunga lettura, gli chiese: «Che c'è di nuovo, compare?». Questi si voltò e, per nulla imbarazzato dalla domanda,
assecondando anzi, senza saperlo, gli incitamenti e la
propaganda radiofonica di quei tristi momenti: «Un poco
d'incoraggiamento» rispose staccando le mani dal fondo schiena e
sollevandole, palme in su, ripetutamente a mezz'aria, quasi a
sfiorare il naso dell'incauto attacchino. «Un poco
d'incoraggiamento» ripetè mentre quello batteva in ritirata con
le pive nel sacco. Attraversavo dunque il paese per la strada principale e, senza
superare la chiesa di S. Giuseppe, piegavo a sinistra e, appena
dopo il ponte della ferrovia, iniziavo la salita per Giancarru. Quando vi giungevo, ammaestrato dai ritrovamenti passati, facevo
un giro di ricognizione intorno a tre ulivi particolarmente alti
sui quali di solito cercavano rifugio i tordi feriti dai
cacciatori la sera precedente. Non c'era mattino in cui non
trovassi sul terreno uno, due e anche tre tordi che non erano
sopravvissuti alle ferite. Una volta, ricordo bene, ne trovai
cinque. Deponevo i tordi nel paniere e mi portavo a un angolo del fondo
da dove - accostato al fusto di un albero - potevo inquadrare
tutta la fila digradante dei castagni. Poi lasciavo sul posto i tordi e il sacco e mi avviavo col
paniere alla raccolta delle castagne cadute nelle 'pendinenze'
e, se ne trovavo, dei funghi 'panicoli'. A giro terminato, il paniere era pieno per un quarto di
castagne e per il resto di funghi. Questi finivano su uno
strato di felci, quelle nel sacco. Verso le sette e mezzo, a gruppetti di due o tre alla volta,
passavano - chi canticchiando e chi chiacchierando - le donne
dirette alla raccolta delle olive. Dalla stazioncina, poco distante in linea d'aria, giungevano gli
sbuffi cadenzati del treno pronto a ripartire e, poco dopo, il
puzzo tipico del fumo di carbone. Era anche il momento dell'arrivo di un personaggio singolare -
il muto - che si preannunciava con lo zoccolare dell'asina lungo
la mulattiera di pietre. Si recava in un fondo vicino donde
sarebbe ripartito verso mezzogiorno con due sacchi di olive. Avanzava, seduto sul basto dell'animale, con lo sguardo fisso
verso il punto nel quale era certo di incontrare il mio. E quando la sequela degli ulivi non gli intralciava più la
vista, sollecitava dall'animale, stanco della salita, un
impossibile trotto fin sotto il mio angolo. Qui ero io ad attenderlo festoso, con le braccia tese, l'una a
reggere i tordi per il becco e l'altra il più grosso dei funghi. Il muto era una creatura straordinaria, senza età. Sordomuto
dalla nascita, sbilenco nell'andare oltre ogni dire, tanto che
- per via degli eterni scarponi chiodati - se ne avvertiva la
presenza anche da molto lontano. Bavoso nella bocca asimmetrica,
tuttavia forte e intelligente, laborioso e servizievole come
pochi. Si esprimeva a gesti che davano completezza a una serie di suoni
gutturali attraverso i quali riusciva, senza possibilità di
equivoci, a 'dire' quello che pensava. E quando non vi riusciva,
quei suoni gutturali assumevano, nella concitazione di volersi
far capire, i toni dell'ululato. Voleva bene, a suo modo, a quanti mostravano di volergliene o di
meritarselo. Si dedicava ai molteplici lavori agricoli nei fondi di famiglia
con l'attaccamento del padrone e la consumata perizia del
contadino. L'asina era la sua compagna più assidua e con essa,
nella stagione olearia, arrivava a Giancarru tutte le mattine
con la stessa puntualità del treno alla stazione. L'innato pudore completava la sua singolare personalità. Vedendomi con i trofei in mano non c'era ombra d'invidia nel suo
sguardo, manifestava anzi tutta la sua contentezza e la
raffinata sensibilità con una risata fragorosa, frammista a
cenni del capo che, a modo suo, liberavano l'apprensione di
potermi trovare a mani vuote e con gesti del braccio che
disegnavano nell'aria dei cerchi a significare che «dopo»
sarebbe ripassato di lì. Lo salutavo saltellando con i tordi e il fungo a braccia alzate
e quindi intraprendevo il secondo giro, questa volta dentro la
nostra proprietà, per raccogliere le castagne. Ora i frutti erano abbondanti tanto che riuscivo a riempire
anche due o tre panieri, che rovesciavo nel sacco dopo aver
separato quelle più grosse per farne 'pàpari'. Era un'operazione divertente, un gioco, al quale - senza
presenziarvi - partecipava da lontano anche il muto. Con un mazzo di felci lunghe formavo una specie di ramazza con
la quale pulivo una larga superficie di terreno. Praticavo col coltellino un'incisione su ogni castagna e le
collocavo sul terreno pulito, una dopo l'altra, a formare un
quadrato di un metro circa di lato. Dal capanno prelevavo felci
secche in abbondanza e ne deponevo una parte sulle castagne
tenendo l'altra a debita distanza. Quindi davo fuoco e lo
alimentavo con le felci di scorta via via che esso accennava a
perdere d'intensità. Parallelamente controllavo, servendomi della ramazza, che la
parte superiore delle castagne si abbrustolisse quanto
necessario alla giusta cottura. Poi spingevo le braci residue da
un lato e, una per una, rovesciavo le castagne perché cuocessero
dall'altra parte. Vi stendevo sopra le braci accantonate e
alimentavo il fuoco con altre felci secche. Alla fine ramazzavo
quanto era rimasto delle fiammate e 'i pàpari' erano fatti. L'intera operazione non sfuggiva all'acuto occhio del muto il
quale, seppure lontano un centinaio di metri dal punto dove
ardeva il fuoco, ne intravedeva, fra i contorti fusti degli
ulivi, le scintille e i bagliori. Sicché, puntuale come un
orologio, lo vedevo arrancare verso di me, con gli immancabili
guaiti frammisti a indecifrabili suoni gutturali, fino a sedersi
per terra vicino alle castagne, che sgusciava e mangiava, con
indicibile voracità, passandole dalla bava che, per lo sforzo
della salita, gli scendeva copiosa dalla bocca deforme. Aveva un che di animalesco in tutti i suoi movimenti, ma bastava
che vedesse e pulisse e mi porgesse qualche frutto
particolarmente grosso e ne lanciasse le bucce sulle braci per
riattizzare la fiamma, perché si riscattasse in un gesto di
squisita, amichevole gentilezza e in un disarmante sorriso di
fanciullo. Quando era sazio, se ne riempiva le tasche e con mossa
inequivoca mi faceva intendere che erano destinate alle donne
che raccoglievano le olive nel suo fondo. Poi - rialzandosi - mi batteva una mano contorta sulla spalla e,
sfruttando il pendio, si precipitava a braccia aperte, quasi
rotolando, verso le donne. Non ho mai capito come diavolo
facesse a mantenersi in piedi. Per parte mia, radunavo 'i pàpari' in uno strofinaccio di tela,
i funghi nel paniere e legavo con uno spago la bocca del sacco.
Di lì a poco sarebbe arrivato mio fratello con il quale avrei
fatto il viaggio di ritorno verso casa.
Un racconto tratto da "Carmela Cuda". Potete acquistare l'intero libro sul sito
RUBBETTINO EDITORE
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