Paola M., coraggiosa figlia di un collega, ci dice che non bisogna mai perdere la speranza
 
La mia storia (io lo chiamo il Capitolo II della mia vita) inizia nel mese di novembre 1991 a Havelock, North Carolina.  Da alcune settimane frequentavo un corso per diventare volontaria dell’Hospice, un’organizzazione che è presente anche in Italia ed aiuta i malati terminali e le loro famiglie.  Facevo a turno con una mia amica a guidare perchè le lezioni si tenevano a New Bern, a circa mezz’ora di macchina da Havelock. Quel giorno avevo guidato io la mia Ford Tempo. Durante la lezione, mentre l’infermiera mostrava come girare il paziente sul letto e si accompagnava con diapositive, il mio campo visivo si è improvvisamente ristretto e nel giro di pochi secondi non vedevo più  nulla. Chiesi di uscire dalla stanza, mi recai nel bagno per bagnarmi il viso ma non sentendomi ancora bene decisi di inclinare il sedile della mia macchina e di sdraiarmi lì, in attesa che la lezione finisse e la mia amica potesse quindi condurre lei l’automobile. Arrivata a casa, con ciò che ormai definivo una fortissima emicrania, mi misi a letto al buio per almeno sei ore.     

Nei giorni successivi mi era rimasto uno strascico di stanchezza che non se ne andava e circa due settimane dopo questo episodio notai, guardando un calendario appeso alla parete, che i numeri apparivano uno alla volta. Coprendo l’occhio sinistro notai quindi che nell’occhio destro si era formata una macchia bianca dietro la quale non vedevo più nulla.                                                                  

Iniziai quindi le visite nei vari ospedali. Avevo da molti anni un problema all’orecchio con infezioni e la prima diagnosi che ricevetti fu quella di un possibile tumore al cervello; per l’esattezza, si pensava ad un tumore sul nervo auditivo che spingeva contro il nervo ottico ma dopo sei settimane la risonanza magnetica dimostrò che non c’era alcun tumore.                                                           

Pensai di andare al Duke University Medical Center a Durham, uno dei più grandi ospedali degli USA e lì un Professore, seguito da una schiera di internisti, mi disse di prendere un’aspirina al giorno per salvare l’occhio sinistro perchè secondo lui avevo avuto un Ictus... Ma io non ne ero affatto convinta e così sentii parlare del John Hopkins Medical Center a Baltimora e, grazie all’amore, all’affetto e alla grande pazienza di mio marito, ci recammo anche a Baltimora. Mio figlio aveva poco più di due anni e lo vedo ancora seduto sulle sedie nelle sale d’attesa, o sdraiato per terra che giocava, ignaro di cosa stesse succedendo intorno a lui.  I due medici che mi avevano visitata si guardavano con aria misteriosa comunicando tra di loro con strani gesti. Io mi accorsi che uno di loro faceva un gesto come per mimare una puntura. Non sapevo ancora che avevano intenzione di farmi l’esame del DNA, ma così fu. Avevo tre mutazioni genetiche, una in particolare, la 11778, che non lasciava dubbi.  Avevo la Neuropatia Ereditaria Ottica di Leber, detta anche LHON (Leber’s Hereditary Optic Neuropathy) e in America chiamata anche da alcuni la Sindrome di Wallace. Non vi era cura e sarei diventata cieca.              

Non racconterò tutti i dettagli e tutti gli ospedali dove sono stata, tutte le diagnosi errate, compresa la sclerosi multipla. Non mi dilungherò a parlare della disperazione che provai, più quando mi arrivò la lettera di diagnosi che diceva che io e mio figlio saremmo diventati ciechi perchè era l’idea che potesse succedere a mio figlio che mi uccideva.  Solo dopo scoprii che spesso i medici dipingono uno scenario estremo, ma non è detto che ciò che prevedono succeda davvero.        

Dal giorno della diagnosi alla perdita di vista nell’occhio sinistro passarono solo due settimane. Ricordo come se fosse oggi che parcheggiai la mia piccola Nissan 200 ZX nella stradina di fronte a casa per l’ultima volta, consapevole che non l’avrei più guidata. Avevo imparato a guidare la macchina con il cambio manuale da sola solo tre settimane prima e mi ero tanto divertita, ma quel giorno persi, per sempre, la mia indipendenza. Una signora cieca, affetta da Maculopatia Degenerativa, mi veniva a trovare per cercare di aiutarmi e per informarmi sui servizi disponibili negli Stati Uniti per i ciechi. Iniziai a ricevere i libri registrati su cassetta e comprai anche un computer con una sintesi vocale. Era come un robot che mi parlava e che mi metteva in contatto con il mondo. Al John Hopkins avevano un centro per l’Ipo visione e comprai un monocolo per seguire la televisione con l’occhio sinistro. Il destro se ne era ormai completamente andato. Svegliarsi la mattina e rendersi subito conto che quel maledetto scotoma centrale era ancora lì, era li con la luce ma anche col buio, mi dava un forte senso di nausea e la voglia di vivere era sempre più scarsa. Fu solo la mia forte fede Cristiana, l’amore per le persone che mi erano accanto, i miei familiari e gli amici che avevo trovato, che mi diedero la forza di ritirarmi su e di uscire da quel profondo pozzo buio nel quale ero caduta.

Rientrata in Italia, nel 1995, andai a vivere nell’estremo sud per motivi di lavoro di mio marito e mi resi subito conto che la nozione del disabile è vista in modo ben diverso lì dagli Stati Uniti. I disabili rimanevano chiusi in casa perchè erano causa di imbarazzo per i familiari e anche io stessa cercavo di comportarmi in modo più normale possibile per non far sapere a nessuno quanto poco realmente riuscivo ancora a vedere. Non sopportavo l’idea di essere compatita o trattata in modo diverso solo perchè non vedevo.

Oggi sono a Roma. Sono molto attiva, ho fondato un’Associazione di volontariato, mi occupo di giovani, di disabili e di territorio, giro da sola nel mio quartiere che conosco bene a memoria ma non vado in centro a Roma da sola perchè le strade sono tutte rotte e pericolose. Non uso il bastone bianco perchè preferisco non essere etichettata. La gente dovrebbe essere più cordiale e più gentile senza il bisogno di chiedere pietà con un bastone bianco. Ma in tutti questi anni ero completamente sola in questo mondo di vista a pezzettini. guardavo il mondo come da una finestra con il vetro frantumato, e nessuno capiva come facevo a muovermi nonostante vedessi così poco. Ma ora ho conosciuto altri pazienti di Leber, sia grazie alla Dottoressa che mi segue che grazie a Mitocon e ho scoperto che non sono poi così strana ma che anche tutti gli altri hanno le stesse sensazioni, ricevono gli stessi commenti e pensano le stesse cose. Insieme seguiamo il mondo della tecnologia che fa passi da gigante mentre aimè, la medicina non ha ancora trovato una cura. Ma noi continuiamo a sperare, se non per noi, per i nostri figli.

 

Paola M. novembre 2014

 

 

 

 

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Piazza Scala - novembre 2014