PIAZZA SCALA E IL 150° ANNIVERSARIO DELL'UNITA' D'ITALIA         l

Allo scadere del secolo e mezzo di vita della nostra patria unita è giusto tirare qualche somma in più sull’evento o sulla serie di eventi che ne hanno fatto una nazione e sulla sua storia nei decenni successivi, senza indulgere nella retorica patriottarda della quale eravamo stati imbottiti da giovani, consci peraltro che la nascita del nostro stato unitario, con molte ombre ma anche con grandi espressioni ideali, ha permesso finalmente di affrancare il nostro paese da dominazioni straniere semicoloniali e da piccoli tiranni e tirannelli innalzati sui loro scranni e poi sostenuti da potenze straniere, e dalla dominazione temporale della Chiesa su una larga fetta del territorio.
Diciamo subito che il Risorgimento, parola un po’ retorica ma che esprime il concetto di rinascita di un sentimento di nazione anche sotto l’aspetto dell’identità politica, fu opera di una attiva ed entusiasta minoranza, come succede comunemente. nei sommovimenti popolari, come è stato, ad esempio, nella Resistenza.
Il Risorgimento fu opera di intellettuali, studenti, professionisti, aristocratici, giovani della borghesia, ribelli ai regimi assolutistici e tirannici millenari o a quelli creati, proprio in Italia, dalla restaurazione conseguente al Congresso di Vienna. I moti patriottici della prima metà del secolo XIX si ispiravano anche ai valori della Rivoluzione Francese e cominciavano ad acquisire principi democratici e liberali, ostacolati naturalmente dall’establishment conservatore, legato ai vari sovrani locali o addirittura agli occupanti stranieri (i cosiddetti austriacanti) o allo Stato della Chiesa (i clericali). Anche gran parte del popolo contadino, allora per gran parte analfabeta e legato ai signorotti locali e soprattutto alle parrocchie, non vide di buon occhio o restò indifferente ai movimenti unitari.
I patrioti risorgimentali e in particolare Giuseppe Mazzini, avevano una visione dell’Italia unita diversa da quella che poi si compì. Desideravano una Costituzione repubblicana, democratica, liberale e laica, aperta alle nuove istanze sociali che affioravano in tutta Europa ma cominciavano a farsi sentire anche in Italia. Furono perseguitati non solo dalla potenza straniera che occupava una parte dell’Italia del nord, l’Austria, ma anche dai piccoli sovrani assoluti del resto d’Italia, nello Stato della Chiesa e anche nel Regno di Sardegna. Mazzini stesso fu condannato a morte dal governo dei Savoia e dovette andare in esilio e perfino Garibaldi per un certo periodo fu perseguitato e sempre considerato con sospetto dalla classe dirigente del nuovo stato unitario. Vincenzo Gioberti teorizzò invece una confederazione degli stati esistenti con a capo il papa e ancor oggi qualcuno difende tale soluzione, sostanzialmente reazionaria e retriva, ma gradita alla gerarchia ecclesiastica di quel tempo.
Carlo Alberto e Vittorio Emanuele II (appartenenti a un casato più francese che italiano, per le sue origini transalpine, per lingua e cultura) e soprattutto Cavour ebbero il merito indubbio di intuire la possibilità di mettere il loro regno alla testa del movimento nazionale, sia pure con l’obiettivo di allargarlo a spese degli altri sovrani della penisola e dell’Austria, stipulando alleanze con la Francia di Napoleone III e in seguito con la Prussia. Anche l’Inghilterra fu da subito favorevole alla creazione di uno stato unitario in Italia, anche per suoi motivi di equilibri in Europa. Garibaldi, inizialmente repubblicano e mazziniano, si adeguò pragmaticamente al nuovo corso monarchico, privilegiando l’idea di unità della patria, che aveva servito in modo determinante, alle sue idee repubblicane e progressiste..
In sostanza, dopo i moti popolari del 1948 e degli anni precedenti, le Cinque Giornate di Milano, le Dieci di Brescia, i moti napoletani e siciliani, l’unità d’Italia non fu realizzata con una rivoluzione o con sommovimenti di massa, ma con una serie di guerre combattute dal Piemonte e da Garibaldi e ciò avrebbe pesato negativamente sulla storia del nostro Paese nei decenni successivi.
L’Italia non era solo un’espressione geografica, come disse con disprezzo il Cancelliere austriaco Von Metternich, ma aveva, in comune fra i popoli, pur diversi sotto molti aspetti, di tutta la penisola, una storia, una cultura, una lingua, una tradizione, una civiltà anche nelle ricorrenti divisioni territoriali dovute alle invasioni straniere, spesso invocate dal papato. L’Unità ha ulteriormente cementato il popolo italiano, omogeneo, pur nelle sue diversità regionali, dalle Alpi alla Sicilia. Non avrebbe alcun senso la secessione di alcune sue parti, come predicato in passato dalla Lega Nord e ancora oggi nell’auspicio di alcune sue frange estreme, tanto più nell’ambito di un’Unione Europea, sia pure imperfetta, ma destinata fatalmente a rafforzarsi. Anche il cosiddetto federalismo, nella forma fumosa e ancora molto misteriosa proposta in questo periodo, non riesce a convincermi. L’Italia è un paese geograficamente molto piccolo, poco più di una regione se paragonato a molti altri paesi in giro per il mondo e sinceramente non riesco a vedere il vantaggio di riferirsi, ancor più di quanto si fa già ora nelle autonomie regionali, provinciali e comunali, a Bologna, a Milano, a Catanzaro, a L’Aquila, ad Ancona, piuttosto che a Roma. Spero di sbagliarmi, ma al momento vedo solo aumenti di costo e, di conseguenza, di tasse. Si dice che i cittadini controlleranno meglio le spese locali, ma perché dovrebbero farlo meglio se le tasse saranno locali anziché nazionali? In proposito io vedo aumenti di burocrazia locale in modo incontrollato (Sicilia docet).
Detto ciò, è indubbio che dopo l’Unità, centocinquant’anni fa, il governo piemontese, molto centralizzato, decise, probabilmente per necessità, come ha affermato giustamente Romolo Bonomini su queste colonne, di imporre a tutte le regioni il suo sistema amministrativo, burocratico, fiscale, mandò suoi funzionari, introdusse la leva obbligatoria, tartassò i cittadini, nel sud perseguitò anche crudelmente gli oppositori e i nostalgici dei vecchi regimi, definiti tutti sbrigativamente briganti, commettendo atrocità che ancor oggi sono ricordate da quelle popolazioni. Anche in campo economico le strutture di una parte d’Italia furono sacrificate e vi fu quasi una colonizzazione del sud da parte del nord.
Casa Savoia aveva inclinazioni militari per sua tradizione, avocò a se il controllo sulle forze armate, intervenne pesantemente nella politica estera e privilegiò sempre le spese per mantenere forze armate sproporzionate alla povertà del paese, rispetto a più urgenti interventi in campo sociale e infrastrutturale. I governi blandamente democratici dei successivi decenni (va ricordato che il suffragio universale, solo maschile e con esclusione degli analfabeti, fu introdotto soltanto nel 1912 e quello femminile nel 1946) praticarono una politica di potenza sproporzionata alle possibilità del nostro sistema economico, culminando nella partecipazione scriteriata alle guerre e nell’infausto ventennio fascista, propiziato dalla monarchia.
Con le guerre si compì l’Unità del paese ma si vollero anche incorporare minoranze etniche nel nord e nel nord-est del paese, tirolesi con Bolzano, Bressanone e Brunico, sloveni e croati in Istria, ancor oggi insofferenti dell’appartenenza ad uno stato straniero i primi (vedasi il recente rifiuto di partecipare alle celebrazioni da parte di Durnwalder, presidente della provincia di Bolzano), e causa di successive tragedie la dominazione ventennale dei secondi, senza parlare delle infauste avventure coloniali in Africa e nell’Egeo.
Resta il fatto che centocinquant’anni fa nacque una Patria, la nostra Patria che con la Resistenza e la Costituzione repubblicana si è affrancata da molti errori del passato (e facendone altri), rifiuta il nazionalismo e, nonostante certi rigurgiti del presente, fa parte a pieno titolo della civiltà europea.

Giacomo Morandi - 16 marzo 2011

 

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