I bancari vil razza dannata - MEMBRI D'UNA FAMIGLIA
 
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L’arrivare dieci minuti prima in Ufficio, prima dell’apertura pomeridiana degli sportelli significava scambiare attimi di familiare confidenza presso la macchinetta di distribuzione automatica di ottimo caffè extra-casalingo, ed altri intrugli.
Non che il caffè gli facesse bene — perchè il mestiere di cassiere tende già di per sè ad innervosire una persona tanto, diceva uno, da giustificare la schizofrenia o il furto — ma per il gusto dello scambio di opinioni e di improperi contro la forma istitutiva.
Zaverio, il cassiere, era giovane, preciso, dinamico, scontroso, suscettibile. Zennaro, il commesso di cassa, era anziano, puntuale, metodico, semi lento. Zaverio colmava la distanza dei vent’anni che li separavano con concentrato paternalismo e spinterelle, segni di considerazione e di commiserazione non sempre abilmente celati, sperando in tal modo di ottenere una corrispondente azione dinamica e iniziativistica.
Zennaro non si scomponeva per nulla non intuendo se quello facesse sul serio o solo per attaccamento all’istituto, nel qual caso non occorreva dargli troppo ascolto. Si scocciava tuttavia quando gli venivano sottoposti quei lavoretti che l’evoluzione organizzativa di tanto in tanto assegnava e di cui ci si accorgeva subito, ignorando invece quegli altri che la stessa evoluzione organizzativa riduceva o annullava del tutto. La sua reazione pertanto era costante e consisteva nel lasciare agli altri, cioè al cassiere quel lavoro che per trent’anni non aveva mai fatto e che quindi non gli competeva di fare per gli altri cinque o sei anni che ancora gli rimanevano a terminare la sua condanna.
Zaverio aveva sorrisi frementi di ira compressa, Zennaro compativa la impulsività giovanile pensando che il fegato non gli si sarebbe guastato, tacendo secondo i canoni dell’otite doppia.
Così quel giorno, bevendo il caffè alla macchinetta della fraternità comunitaria, Zaverio disse a Zina, la Matusalemme dell’Ufficio Informazioni, ammiccando a Zennaro che, poco distante, lo stava anch’egli sorbendo: « Vede, Zina, gli metterei un pò di veleno nel caffè... »
Non lo disse con rabbia o irosità, ma lo disse con convinzione, tanto che Zennaro, a cui la famosa otite doppia permetteva di udire quanto gli faceva comodo, alzò il bicchiere in gesto di salute e gli rispose con tono garbato: « Grazie, ed io lo berrei subito... »
Zennaro non lo bevve mai quel veleno anche se diversi lo speravano. Forse perchè non era pigrizia la sua metodicità, ma era semplicemente un modus vivendi, una natura che gli si era appiccicata col tempo per cui quello che faceva era ben fatto (ed in realtà lo era veramente). Era tanta la pratica che quel lavoro poteva farlo ad occhi chiusi ed era tanto il tempo che impiegava che lo si poteva fare due volte.
Ad altri non permetteva di fare certi lavori che erano sua prerogativa e gli sembrava di svelare segreti di stato nell’insegnare al più giovane, che l’avrebbe sostituito durante le ferie, i trucchetti e le astuzie del mestiere. Se il lavoro era extra e non ambito era una pena vederlo svolgere, con quegli sguardi imploranti, volti attorno per vedere di inguaiare qualcun altro, che gli desse una mano e non lo facessero morire sotto il carico.
Quando un giorno il Vice Capo Contabile, ridendo lo chiamò gatto di marmo, gli vennero gli occhi lucidi perchè in fondo alla sua coscienza adattata e contingentata ad una certa produzione era sicuro di lavorare equamente e bene.
Questo nei primi tempi: poi la reazione lenta anch’essa ma progressiva, lo avevano spinto a misurare il minuto, a tacere sempre o quasi, rifiutando, con lo stile dello sciopero bianco, ogni e qualsivoglia iniziativa privata.
Tutti lo sapevano, tutti erano consapevoli che il connubio fra commesso vecchio e cassiere giovane era da rompere per il bene di entrambi, ma, evidentemente, nessun Capo voleva l’anziano commesso per il suo ufficio anche se questo trapasso voleva dire favorire il collega che sarebbe diventato impiegato di II Categoria. Ognuno era convinto che la nomina non avrebbe influito sul ritmo di lavoro.
Talvolta c’era anche da ridere perchè fra i due, scoperte ormai le carte del gioco, ci si divertiva a stuzzicare senza fare la faccia truce o a dirgliele, ridendo, grosse come le assi del pane (detto popolare della bassa lombarda).
Una volta ad esempio, Zaverio, super oberato dal lavoro e dalle mille incombenze e servizietti e pratiche (di solito mal fatte ed incomplete preparate dai vari servizi che arrivavano alla Cassa), ebbe la dimenticanza di volerne affidare il grosso da realizzare al buon Zennaro.
Erano ambedue su di giri imprecando contro tutti i colleghi e contro il Capo Contabile che se ne fregava di quell’andazzo, e vi rimasero su di giri per tutta la giornata.
Alla fine di quella giornata triste si trovò che più della metà delle pratiche era rimasta inevasa.
« Mah, Zennaro, come mai sono ancora qui queste pratiche? Si può sapere che cosa sai fare presto? ».
Gli occhi erano lucenti, la voce quasi tremante, la rabbia a stento compressa. Zennaro lo guardò con compassione e forse pensando ai suoi 56 anni suonati, al nessun riguardo che si aveva per lui, dei suoi acciacchi, delle sue possibilità, per reazione, più che per scusa, rispose seccato: « Io? Mi stanco... presto! ».
E, buttando così a K.O. il proprio imminente datore di lavoro, visto che l’orologio grande della sala scattava l’ora fatale lo piantò in asso, prese il cappello ed uscì.


 

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Piazza Scala - agosto 2012